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Kitabı oku: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 4», sayfa 10

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§. II. Autori che illustrarono i libri feudali

Cominciarono prima ad illustrar questi libri con semplici glose, Bulgaro, Pileo, Ugolino, Corradino, Vincenzo, Goffredo, ed altri118: ma poi Giovanni Colombino superò tutti, in guisa che dice Giasone119, che dopo lui niun altro ebbe ardimento di scriver glose sopra que' libri.

Altri si presero la briga di comporre Somme, e particolari trattati de' Feudi, ed i primi furono Pileo, Giovanni Fasoli, Odofredo, Rolandino, i due Giovanni, Blanasco e Blanco, Goffredo, Giovanni Lettore, Martino Sillimano, Giacomo d'Arena, Giacomo de' Ravanis, Ostiense, Pietro Quessuael e Giacomo Ardizone, seguitati poscia da Zasio, da Rebuffo, da Annettone, da Rosental e da infiniti altri moderni.

Ma tra quelli, che con pieni Commentarj illustrarono questa parte, s'innalzarono sopra tutti i nostri Giureconsulti. È vero che Giacomo di Belviso fu il primo, ma da poi il nostro Andrea d'Isernia oscurò il costui vanto, il quale negli ultimi anni del Regno di Carlo II che morì nel 1309 scrisse sì copiosi Commentari sopra i Feudi, che oscurò quanti mai prima di lui s'eran accinti a quest'impresa. Scrisse ancora, dopo aver professato quaranta sette anni di legge civile, i Commentari sopra i Feudi Baldo da Perugia, e poco da poi Giacomo Alvarotto da Padova, Giacobino di S. Giorgio e Francesco Curzio juniore, ma sopra gli altri surse il nostro Matteo degli Afflitti, il quale oscurò la costoro fama. Scrisse egli i Commentari sopra i Feudi sotto Ferdinando I, allora che con pubblico stipendio ed universale applauso insegnava nella nostra Accademia gl'interi libri feudali co' Commentari d'Isernia, ciò che niuno ardì di farlo nè prima, nè dopo lui; e cominciò a scrivergli nell'anno 1475 com'egli medesimo testifica120, quando era di trentadue anni: ciò che è stato necessario avvertire per non lasciarci ingannare da Camerario, da cui furono ingannati i nostri Autori, che credette Afflitto avere scritto questi Commentari, quando era già vecchissimo e che perciò non bene avesse penetrato la mente d'Isernia. Taccia per tutti i versi da non comportarsi di quell'insigne Giureconsulto; poichè oltre che gli scrisse nella età sua più verde e florida niente anche vi sarebbe stato che riprendere, se pure gli avesse scritti in età di 80 anni, nella quale morì. Egli trapassò nell'anno 1523 e fu sepolto in Napoli nella Chiesa di Monte Vergine, ove ancora s'addita il suo sepolcro, nel qual ancora si legge, che ancorchè carco d'anni, fu però in età senile cotanto vigoroso di mente che potè sostenere tanti studj insino all'ultima vecchiaja. Ciocchè i suoi domestici, che ebbero la cura d'ergergli quel sepolcro, vollero fare scolpire in quel marmo, per manifestare essere stato tutto livore de' suoi nemici, i quali dando a sentire al Re cattolico, che in quella età decrepita sentisse dello scemo, fecero sì che il Re lo privasse della dignità di Consigliero di S. Chiara, della quale era adorno, e morisse senza toga; ond'è, che nel suo testamento non si vegga nominato Consigliero, ma semplice Dottore. E quanto sopra gli altri s'innalzasse in commentando i Feudi, non è da tralasciarsi il giudicio che ne diede il nostro incomparabile Francesco d'Andrea121, il quale non ebbe difficoltà di dire, che fra tutti coloro, che prima e da poi scrissero i Commentari sopra i Feudi, pochi sono coloro, che potranno con lui compararsi, ma niuno che a lui si possa preporre.

Sursero, dopo questi lumi della giurisprudenza feudale, fra noi, altri Scrittori un Camerario, un Sigismondo Loffredo, un Pietro Giordano Ursino, un Bammacario, un Revertero, un Pisanello, un Montano e tanti altri, de' quali nojosa cosa sarebbe tesserne qui lungo catalogo; tanto che niun'altra Nazione può vantar tanti Scrittori in materia Feudale, quanti il Regno di Napoli.

Ma non possiamo infra gli esteri fraudar della meritata lode l'incomparabile Cujacio. Egli fu il primo, che rifiutando gli altri come barbara questa parte della nostra giurisprudenza, l'accolse e le apparecchiò una abitazione più elegante, e quando prima tutta squallida ed incolta andava, egli coll'aiuto de' libri più rari, e degli Scrittori di que' tempi, le diede altra più nobile ed elegante apparenza; tanto che gli altri Eruditi, che prima come barbara la discacciarono, s'invogliarono dal suo esempio ad impiegarvi ancora i loro talenti, come fecero Duareno, Ottomano, Vultejo ed altri nobili ingegni; ond'è che oggi la vediamo esposta ed illustrata non meno dagli uni, che dagli altri Professori.

Cujacio accrebbe in prima i libri feudali co' frammenti e capitoli, che furono prima restituiti da Ardizone e da Alvarotto, e gli divise in cinque, in quella maniera che si è detto di sopra. Prima di lui Antonio Mincuccio di Prato vecchio, Giureconsulto bolognese, per comandamento di Sigismondo Imperadore intorno l'anno 1436 avea disposto questi libri in altra forma; ed avendogli divisi in sei, gli offerì all'Università di Bologna, perchè proccurasse da Sigismondo la conferma di questa sua Raccolta; ma non costa, che l'Imperadore l'avesse loro data; onde non essendo stata da tutti ricevuta, richiesero i Bolognesi di nuovo la conferma dall'Imperador Federico III, il quale loro la diede; onde avvenne, che questi libri nell'Accademia di Bologna pubblicamente si leggessero, ma non acquistarono giammai autorità pubblica; la qual Raccolta fu da poi data alla luce da Giovanni Schiltero122. Un'altra tutta nuova ne fece Cujacio, il quale non solo con somma diligenza diegli altro miglior ordine e ridusse que' libri alla vera lezione; ma anche con pellegrina erudizione gli commentò, spiegando il vero sentimento di quelli. E sopra tutto accrebbe di molte Costituzioni imperiali il quinto libro, le quali da Ugolino furono tralasciate, dandogli miglior ordine e disposizione.

§. III. Costituzioni imperiali attenenti a' Feudi e legge di Federico I

Il primo che promulgasse leggi riguardanti la successione feudale, fu, come più volle si è detto, Corrado il Salico. Errico IV ne stabilì dell'altre; sieguono in terzo luogo quelle di Lotario III ma sopra gli altri Imperadori niuno ne stabilì tante, quante Federico Barbarossa; e colle Costituzioni di questo Imperadore Cujacio termina il libro; onde se bene nelle vulgate edizioni se ne leggono anche di Federico II, dovrebbero quelle togliersi; poichè di Federico II come Imperadore non abbiamo Costituzioni attenenti a' Feudi; ne abbiamo sì bene moltissime nelle Costituzioni del Regno, ma queste non han che farvi, non essendo Augustali, ma furono da lui stabilite come Re di Sicilia, e solo per questi suoi Regni ereditarj non per altri. Quelle Costituzioni di Federico II che si leggono nella fine del libro secondo de' Feudi, secondo l'antica compilazione, sotto il titolo de Statutis, et Consuetudinibus circa libertatem Ecclesiae editis, etc. non han niente che fare co' Feudi; onde a torto furono quivi aggiunte, e per questa cagione dice Cujacio123 non averle egli unite coll'altre feudali, come affatto impertinenti; siccome per l'istessa cagione le due altre di Errico VII poste sotto il titolo di Estravaganti, come non appartenenti a' Feudi, non meritano quel luogo.

Di questi Imperadori niuno quanto Federico I promulgò tante Costituzioni feudali, del quale otto se ne leggono.

La prima è sotto il titolo de Feudis non alienandis, ove tre o quattro cagioni si propongono, per le quali si perde il Feudo, proibendosi con maggior rigore di quello avea stabilito Lotario, le alienazioni dei Feudi. La seconda sotto il titolo, de Jure Fisci, ovvero de Regalibus, ristabilisce in Italia le regalie, le quali per disusanza andavano mancando, di che abbiam parlato nel libro precedente. La terza, sotto il titolo de pace tenenda, appartiene alla pubblica pace di Germania, onde da' Germani volgarmente s'appella Fried-brief, cioè Breve di pace; e fu promulgata in Ratisbona dopo sedate le intestine guerre tra' Principi di Germania, i quali lungamente aveano infra di lor guerreggiato per lo Ducato di Sassonia e di Baviera tolto da Corrado Imperadore ad Errico il Superbo, e poich'in essa alcune cose attenenti a' Feudi ed a' Baroni, ed alla pubblica pace si stabiliscono, perciò tra le Costituzioni feudali di questo Principe fu annoverata. La quarta, sotto il titolo de incendiariis, et pacis violatoribus, che Cujacio prese dall'Abate Uspergense, parimente appartiene alla pubblica pace di Germania, ed alcune cose de' Feudi dispone; oltre che anche se de' Feudi non parlasse, i nostri maggiori, come ben osserva Cujacio, han tenuto costume di congiungere co' Feudi tutte quelle Costituzioni, che trattavano della pace pubblica, per motivo, che quella non mai potrà aversi, se non dalla fede e costanza de' vassalli. La quinta sotto il titolo de pace componenda et retinenda inter subjectos, appartiene alla pubblica pace d'Italia, e fu stabilita in Roncaglia co' Milanesi nella prima guerra, che ebbe Federico co' medesimi, della quale abbiam parlato nel precedente libro. La sesta sotto il titolo de pace Constantiae, appartiene anch'ella alla pace d'Italia. La precedente fu promulgata in Roncaglia, questa nell'anno 1183 in Costanza: poichè Federico già stanco delle tante guerre avute co' Lombardi, volle intimare a tutti una Dieta in Costanza per poter quivi componere questi affari. Vi intervennero molti Principi e Baroni; ed i Deputati delle città di Lombardia, de' quali in detta Costituzione si legge un ben lungo catalogo. Furono in essa accordati molti articoli e stabilite le condizioni delle città di Lombardia intorno a' servizj, che devono prestare all'Imperadore, oltre a' quali non potessero esser gravati di vantaggio: concedè Federico per questa Costituzione alcune regalie alle città suddette ed alcune altre egli si ritenne, massimamente Fodrum et investituram Consulum, et Vassallorum, ed aggraziò Opizo Marchese di cognome Malaspina.

Sieguono per ultimo dell'istesso Imperadore due Costituzioni de Jure protimiseos, il qual diritto al sentir di Cujacio (che che ne dica il nostro Reggente Marinis124) competendo non meno agli agnati, che a' padroni de' Feudi; perciò egli volle anche inserirle nel quinto libro de' Feudi; alle quali parimente aggiunse una Novella greca dell'Imperador d'Oriente Romano Lecapeno, che tratta del medesimo diritto, donde Federico prese ciò che si vede stabilito nella prima sua Costituzione attenente al Jus protimiseos. Nel che non possiamo tralasciar di notare, che questa Costituzione Sancimus, de Jure protimiseos, dai nostri Dottori con gravissimo errore è creduta, che fosse Costituzione di Federico II, e sopra tal supposizione disputano, se abbia a reputarsi come sua Costituzione Augustale, ovvero come una delle Costituzioni del nostro Regno, stabilita solo per li Regni di Sicilia e di Puglia; ed alcuni sostengono, che come tale abbia forza di legge nel nostro Regno. E l'errore è nato, perchè la veggono unita insieme coll'altre Costituzioni e Capitoli del nostro Regno125; ed anche perchè han veduto, che il nostro Matteo d'Afflitto, che commentò le nostre Costituzioni, fece anche sopra la detta Costituzione un particolar Commento, tratto nella sua maggior parte da un altro non impresso, che ne fece prima di lui Antonio Caputo di Molfetta, dal quale, come dice Giovan-Antonio de Nigris126, soppresso il nome, Afflitto prese tanto, sì che ne distese quel suo trattato; onde vedendola commentata da' nostri antichi Scrittori, la riputarono come una Costituzione del Regno nostro. L'errore è gravissimo ed indegno di scusa; onde non possiamo non maravigliarci esservi incorso anche il Cardinal di Luca127, il quale da questa credenza, che tal Costituzione fosse di Federico II, fa nascere mille inutili quistioni, le quali cadono per se stesse, come appoggiate sopra un falso fondamento; poichè non Federico II, ma Federico I la promulgò, il quale niuna autorità avea di far leggi ne' Reami di Sicilia e di Puglia; onde non poteva obbligar con quella i sudditi di Guglielmo ad accettarla. Acquistò ella sì bene da poi presso di noi forza di legge, non già per autorità del Legislatore, ma per l'uso e consuetudine dei Popoli, i quali dopo lungo corso di tempo la ricevettero, non altrimente che fu fatto delle istesse Pandette, e degli altri libri di Giustiniano, e di questi libri ancora de' Feudi; ond'è, che oggi abbia tutto il suo vigore nel Regno, ma non già nella città di Napoli, ove intorno a ciò si vive con particolare e propria Consuetudine. Le altre leggi di Federico I, così le Militari, stabilite nel 1158 in Brescia nell'Assemblea de' Principi dell'Imperio, come le Civili; non appartenendo punto a' Feudi, nè a noi, volentieri tralasciamo, potendo ciascuno osservarle presso Goldasto128, che le raccolse tutte ne' suoi volumi.

FINE DEL LIBRO DECIMOTERZO

LIBRO DECIMOQUARTO

Quanto la morte di Guglielmo il Malo, e l'innalzamento al trono del suo figliuolo, fece quietare i disordini e i mali, onde il Regno era involto, altrettanto l'acerba e dolorosa perdita di Guglielmo II, recò al medesimo molto maggiori e più fiere turbulenze. Non videro queste nostre regioni tempi più miserabili di quelli, che corsero dalla morte di questo buon Principe insino a Federico II, il quale colla sua virtù e grandezza d'animo seppe abbattere i perturbatori del Regno, e dar a quello una più tranquilla riposata pace.

L'esser Guglielmo mancato senza lasciar di se prole alcuna, pose molti nella pretensione di succedere al Reame. Ancorch'egli avesse dichiarata erede del Regno Costanza sua zia, ed in vita in un'Assemblea tenuta per tal cagione in Troja avesse fatto giurar da' suoi vassalli fedeltà a Costanza e ad Errico suo marito; nulladimanco abborrendo i Siciliani la dominazione d'Errico, come di Principe straniero, e ritrovandosi costui lontano in Alemagna colla sua moglie Costanza, cominciarono i Siciliani a pensare di sorrogar altri al soglio di quel Reame, ed a Tancredi Conte di Lecce erano gli occhi di tutti rivolti. I Baroni del Regno, ed i famigliari della Casa reale erano perciò entrati in grande discordia; perciocchè tutti coloro ch'erano del regal legnaggio, o che possedevano grossi Baronaggi, non volendo l'uno all'altro cedere, aspiravano alla Corona129, e que' ch'erano in minore stato, aderendo a' più potenti, posero il tutto in rivolta e contrasto, dimenticandosi tosto del giuramento di fedeltà fatto a Costanza e ad Errico in Troja.

Vi è ancora chi scrive130, che il Pontefice Clemente III, vedendo mancata la stirpe legittima dei Normanni, avesse preteso, che il Reame come suo Feudo fosse devoluto alla Chiesa romana, e che a questo fine avesse unite sue truppe per ridurvelo. Ma questa è una favola molto mal tessuta: non erano a questi tempi i Pontefici romani entrati ancora in simili pretensioni: essi a passi corti e lenti s'inoltravano, e per allora eran contenti dell'investiture, le quali in progresso di tempo, secondo le congiunture propizie, che si sarebbon offerte, ben conoscevano, che potevan lor recare maggiori vantaggi, come ben se ne seppero profittare da poi Innocenzio IV e Clemente IV. La situazione presente delle cose non permetteva di farlo, essendo i pretensori per forze formidabili, come Errico: gli animi de' Siciliani erano tutti rivolti a Tancredi, ed i principali Baroni tutti aspiravano per se stessi al Regno. Non v'era chi potesse somministrare al Papa aiuto, e per se medesimo era pur troppo debole, e di soldati, e di denari, in modo che avesse Clemente potuto imprender questa novità. Ed era ciò tanto lontano da' pensieri di Clemente, che subito ch'egli ebbe la notizia d'aver i Siciliani innalzato al trono ed incoronato Tancredi, tosto gli mandò la solita investitura: rendendo a lui miglior conto, che al Reame di Sicilia fosse acceduto Tancredi, che Errico Re di Germania.

Ma i Siciliani, e que' particolarmente, che seguivano il partito di Matteo Vice-Cancelliere contro l'Arcivescovo Gualtieri, liberi dal timore de' Ministri reali, cominciarono a gridar per loro Re Tancredi: ed essendosi ad essi unita la fazione del Vice-Cancelliere, per abbattere l'Arcivescovo Gualtieri e suoi seguaci, che favorivano Costanza, innalzarono al trono Tancredi, onde finalmente ottennero, che si chiamasse al Regno Tancredi Conte di Lecce, il qual venuto in Palermo, ne fu prestamente con pubbliche acclamazioni gridato Re, ed incoronato con solenne celebrità nel principio di quest'anno 1190131. Nè tutto ciò essendo bastato a' Siciliani, spedirono prestamente in Roma al Pontefice Clemente, il quale per maggiormente stabilirlo nel Trono, gli mandò la solita investitura: come per cosa indubitata scrissero il Neubrigense, Riccardo da S. Germano e la Cronaca, che si conserva in Monte Cassino: il perchè fu Matteo dal grato Re creato Gran Cancelliero del Regno, e 'l suo figliuolo Riccardo, Conte d'Ajello.

Nacque Tancredi di illegittimo, come si disse, da Ruggiero Duca di Puglia figliuolo primogenito di Ruggiero il Vecchio, I Re di Sicilia, e da una figliuola di Roberto Conte di Lecce; perciocchè usando il Duca Ruggiero in casa del Conte Roberto, gli venne per avventura veduta la figliuola, bella ed avvenente giovane, della quelle s'innamorò focosamente, ed ella similmente di lui, nè guari di tempo passò, che al desiderato fine del loro amore pervennero; ed andò di modo la bisogna, che ingravidando colei due volte, ne partorì Tancredi e Guglielmo132. Ma continuando troppo Ruggiero negli amorosi diletti con l'amata sua donna, cadde per questo in una grave malattia: perlaqualcosa il padre il fece ritornare a lui, e risaputa la cagione del suo male, s'adirò grandemente contro il Conte, credendosi, che il tutto fosse stato sua opera; e poco da poi essendo Ruggiero morto, nel prese sì fattamente a perseguitare, che fu forzato il Conte a fuggirsene in Grecia, ritenendosi seco il Re Ruggiero, racchiusi nel suo Palagio a guisa di prigionieri, i due fanciulli, ove dimorarono finchè succedette la congiura del Bonello contro il primo Guglielmo, ed iti in Grecia, essendo quivi morto Guglielmo suo fratello, fu da poi Tancredi richiamato da Guglielmo II, e graziosamente accolto e rinvestito del Contado di Lecce, che fu di Roberto suo avolo materno.

Non è mancato chi scrisse133, che il Duca Ruggiero avesse finalmente ottenuto dal Re suo padre licenza di sposarsi la sua amata donna, ma che prevenuto dalla morte non potè eseguirlo, e che niente altro vi mancasse per render legittimo questo congiungimento, che la celebrità della Chiesa essendovi già preceduto il vero e legittimo consenso; onde è che Tancredi dovesse reputarsi non bastardo, ma legittimo; e quindi esser avvenuto che da Guglielmo il Buono fosse stato rinvestito del Contado di Lecce, che fu del suo avolo, e che Clemente gli avesse perciò data la solita investitura del Regno. Ma questi racconti, come non appoggiati a verun fondamento, meritamente da' più gravi e diligenti Scrittori sono stati reputati favolosi; e Clemente per opporlo ad Errico fu mosso a concedergli l'investitura, non già che lo reputasse legittimo. Quindi è che Federico II reputasse sempre gli atti di questi Principi, cioè di Tancredi e di Guglielmo III, suo figliuolo, per nulli e illegittimi, e come di Principi intrusi ed invasori del Regno, che dopo la morte di Guglielmo II, a Costanza sua madre per successione e per volontà di Guglielmo II, si dovea.

Nè faceva ostacolo a Costanza esser donna; poichè se bene in Italia prima di Federico II, le femmine, non altrimenti che i mutoli ed i sordi, venivan escluse dalla successione de' Feudi, ne' quali solamente i maschi succedevano, per quella ragione, acciocchè il Feudo dalla lancia non passasse al fuso; nondimeno nella succession de' Regni presso i Normanni (che che altrimenti avessero reputato i Longobardi) le femmine non si stimavano incapaci della Corona; tanto maggiormente perchè, regolandosi la successione secondo l'investiture de' Pontefici romani, nelle quali venivano compresi così i maschi, come le femmine, dandosi le investiture per gli eredi e successori indifferentemente: venivan perciò ammessi alla successione così i maschi, come le donne, in mancanza di quelli; e la prima investitura d'Innocenzio II, fatta a Ruggiero così fu conceputa: Rogerio illustri, et glorioso Siciliae Regi, ejusque haeredibus in perpetuum; ed in quella data da Adriano IV, a Guglielmo I, chiaramente si concede haeredibus nostris, qui in Regnum pro voluntaria ordinatione nostra successerint; siccome da poi seguirono tutte le altre. Tanto che perciò Federico II, soleva chiamar sempre il Regno di Sicilia ereditario, e che a lui era dovuto come ereditario per le ragioni di Costanza sua madre: nè la successione de' Regni si è giammai regolata colle massime e con quelle leggi, colle quali si regolano i Feudi, come ha bene provato l'incomparabile Francesco d'Andrea in quella sua dotta scrittura della successione del Brabante: e quindi è nato che a' Regni di Sicilia indifferentemente sian succeduti così i maschi, come le donne, e salvo che negli ultimi tempi del Re Alfonso e degli altri Re aragonesi, per li mali cagionati a questo Regno dalle due Regine Giovanna I e II, non si pensò a darvi rimedio, come al suo luogo noteremo. Fu questo costume non solo in Sicilia ed in Puglia da lunghissimo tempo introdotto; ma in quasi tutti gli altri Regni d'Europa, la quale perciò dagli Asiani e dalle altre Nazioni del Mondo vien chiamata il Regno delle femmine; non solo perchè alle medesime rendiamo quegli onori ed adorazioni, come se fossero nostri idoli, contro il costume degli Orientali, ma ancora perchè le veggono innalzate sopra i più alti sogli delle Monarchie e de' Reami. Anzi presso i Normanni, se bene le medesime erano escluse dalla successione dei Feudi, non era però, che sovente i Re non le investissero di Baronie e di Contadi, siccome presso Ugone Falcando abbiamo veduto di Clemenzia figliuola naturale di Ruggiero I, la quale fu investita del Contado di Catanzaro da suo padre.

Tancredi adunque non altro titolo più plausibile poteva allegar per se, se non la volontà de' Popoli, i quali l'aveano proclamato Re ed innalzato al trono di Sicilia; ma molti Baroni per opra dell'Arcivescovo Gualtieri gli negavano ubbidienza, e particolarmente quelli del nostro Regno di Puglia; onde bisognò a Tancredi usar tutte le arti per ridurgli alla sua parte. Teneva egli per moglie Sibilia, sorella di Riccardo Conte della Cerra134; onde mandò al medesimo grossa somma di denaro, acciocchè ragunasse gente armata per debellar chi gli avesse contrastato, e procacciasse insieme amichevolmente, e con preghiere, e con premi di trarre il maggior numero de' nostri Regnicoli dalla sua parte. Fu l'opera del Conte Riccardo così efficace, che in breve tempo, posto insieme grosso esercito, sottopose al Re quasi tutti i Baroni del Principato e di Terra di Lavoro, e pose a ruba ed a ruina i castelli del monastero di Monte Cassino, infinchè Roffredo Abate di quel luogo non gli giurasse fedeltà anch'egli. Ma ciò non ostante gli fecero resistenza le città di Capua e di Aversa. E Ruggiero Conte di Andria e Gran Contestabile (colui che da Guglielmo, come abbiam detto, fu mandato suo Ambasciador in Vinegia) non cedendo di nulla a Tancredi, e sdegnando, che gli fosse stato anteposto nella corona del Regno, con Riccardo Conte di Calvi, e con molti altri suoi partigiani, e con grosso stuolo d'armati ne andò a fronteggiar le genti del Conte Riccardo, acciocchè non avesse occupata la Puglia; e scrisse ad Errico in Alemagna, che venisse ad acquistarsi il Regno di Sicilia, che a sua moglie di ragion perveniva, togliendolo al Conte di Lecce, che l'avea ingiustamente occupato. Scrisse ancora ad Errico l'Arcivescovo Gualtieri dandogli parte di quanto era accaduto in Sicilia: ma soprastando Errico a venire ed a mandar gente, Tancredi tosto personalmente venne a queste nostre province, e felicemente soggiogò la maggior parte della Puglia, non ostante il contrasto fattogli dal Conte Ruggiero.

Intanto Errico avea spedito per Italia con numeroso esercito Errico Testa Maresciallo dell'Imperio, il quale giunto in Italia dopo i progressi fatti da Tancredi in Puglia, per lo cammino dell'Aquila entrò in Terra di Lavoro con abbruciare, dar a saccomanno tutti i luoghi, ch'e' prese; e congiuntosi col Conte Ruggiero passò prestamente in Puglia, ove disfecero altresì molti castelli, tra' quali abbatterono sino dai fondamenti Corneto, luogo sottoposto all'Abate di Venosa, in dispetto di costui, perchè avea aderito a Tancredi. Intanto l'esercito del Re non volendo arrischiarsi a far giornata in campagna con i soldati tedeschi, s'afforzò entro la città d'Ariano, ed in alcuni altri castelli circonvicini, ed avvedutamente temporeggiando, vide in breve disfarsi l'oste nemica; perciocchè Errico Testa, assediato per alcun tempo Ariano, essendo il maggior fervor della State, tra per la noia del caldo, e per lo mancamento delle cose da vivere, infermando e morendo i suoi soldati, fu costretto alla fine dal timor di non rimaner del tutto disfatto a partirsi di là, e senza aver fatto alcun progresso notabile a ritornarsene indietro in Alemagna.

Ma Ruggiero Conte d'Andria, troppo nelle sue forze confidando, volle mantener la guerra; onde munita la Rocca di S. Agata, si ritrasse in Ascoli per difendersi colà entro dal Conte della Cerra; il quale, ripreso ardire per la partita de' Tedeschi, gli era andato addosso, e cintolo d'uno stretto assedio, nè potendolo recare al suo volere, nè con preghiere, nè per forza, si rivolse agl'inganni; onde chiamatolo sotto la sua fede un giorno a parlamento fuori della Terra, ove tese gli avea l'insidie, il fece prigione, e poco stante il privò crudelmente di vita. Dopo la qual cosa andò a campeggiar Capua; i cui cittadini, smarriti per la morte del Conte Ruggiero, se gli resero con troppo precipitoso consiglio, perciocchè Errico Re d'Alemagna, le cui parti seguivano, era già con grande e potente esercito entrato in Italia per l'acquisto del Reame.

Erano in questo mentre, essendo morto Errico suo padre, Riccardo Re d'Inghilterra e Filippo Re di Francia con grossa armata partiti da' loro Stati per andare in Palestina; e giunti, benchè per diverso cammino amendue a Messina su la fine del mese di settembre, sopraggiunti ivi dal verno, fu di mestiere, che v'albergassero sino alla vegnente primavera per potere proseguire la navigazione. Il Re Riccardo vi si trattenne ancora per dar sesto ad alcune differenze, che eran nate fra la Reina Giovanna sua sorella vedova del Re Guglielmo, e Tancredi Re di Sicilia, ed avendole composte, Tancredi promise di dar per moglie ad Arturo Duca di Brettagna nipote del Re inglese e successor nel Reame, per non aver Riccardo prole alcuna, una sua figliuola ancor fanciulla, venuta che fosse all'età convenevole al maritaggio, con ventimila oncie d'oro di dote135.

(Le differenze eran insorte per lo Dotario della vedova Regina, e per alcuni tumulti accaduti in Messina fra gl'Inglesi ed i Messinesi, mentre Riccardo fu di passaggio a Messina; e l'istromento di questa pace stipulato nell'anno 1190 è rapportato da Lunig136; dove si leggono pattuiti gli sponsali tra Arturo e la figliuola di Tancredi, e costituita la Dote di ventimila oncie d'oro).

Era in questi tempi disseminata per tutta Europa la fama di Giovacchino Calabrese Monaco Cisterciense, ed Abate di Curacio, riputato comunemente per Profeta, onde venne curiosità al Re Riccardo di favellargli, il quale dalle sue parole s'avvide incontanente, ch'era un cianciatore, e quello ch'egli disse dovere fra pochi anni avvenire in Terra Santa, succedette tutto al contrario. Fu egli però di uno spirito molto vivace, accorto e scaltro, e sopra tutti que' della sua età, intendentissimo delle sacre scritture, e dalla somma perizia, che avea delle medesime col suo gran cervello pronto e vivace, imposturava la gente facendosi tenere per Profeta. Dagl'infiniti libri che compose tutti con titoli speziosi e stravaganti, ben si conosce, che sopra i Teologi di que' tempi fu riputato d'alto e di sottile accorgimento e dottrina137. Se la prese con Pietro Lombardo, uomo anch'egli rinomato in questi tempi, detto il Maestro delle Sentenze, trattandolo con molta acerbità, nè ebbe riparo di chiamarlo in un suo libro, che gli scrisse contro, eretico e pazzo; ma perchè la dottrina di Pietro era tutta cattolica, che non meritava tali rimproveri dal Calabrese, Innocenzio III, nel Concilio che celebrò in Laterano, condannò il libro dell'Abate, e trattò come eretici coloro, che ardiranno di difendere la sua dottrina in questa parte contro il Lombardo.

Non è però, che per la sua grande perspicacia e talento, non fosse stato anche da uomini dotti riputato saggio e dotato di spirito, se non di profezia, almeno d'intelligenza, come scrisse di lui Guglielmo parisiense Vescovo di Parigi, che fiorì intorno all'anno 1240. Ed il nostro Dante non ebbe difficoltà di metterlo nel Paradiso e di celebrarlo ancora per Profeta:

 
Raban è quivi, e lucemi da lato,
Il Calabrese Abate Giovacchino
Di spirito profetico dotato 138.
 

Siccome la Cronaca di Matteo Palmieri, Sisto Sanese, Errico Cornelio Agrippa, il Paleotto e moltissimi altri riportati dall'Autor della Giunta alla Biblioteca del Toppi.

Intanto Errico Re d'Alemagna, essendogli in questo mentre arrivata la novella della morte di Federico Barbarossa suo padre, che, come si disse, morì nella minore Armenia, volendo acquistarsi il buon volere de' Tedeschi, restituì ad Errico Duca di Sassonia, ed a ciascun altro, ciò che l'Imperadore suo padre gli avea tolto; e racchetati in cotal guisa gli affari di Alemagna, inviò suoi Ambasciadori in Roma al Pontefice Clemente ed a' Senatori della città, dando loro avviso, che egli era per calare in Italia a torre la Corona imperiale nella prossima Pasqua; ed entrato l'anno di Cristo 1191, mentre si stava attendendo la sua venuta, morì Papa Clemente, il quarto giorno di aprile, e sopraggiunto intanto il Re Errico in Roma, fu creato suo successore Giacinto Bubone romano nato di nobil sangue e vecchio di 85 anni, il quale si nomò Celestino III. Con questo nuovo Pontefice fu accordata l'incoronazione d'Errico, il quale nella chiesa di S. Pietro con la solita pompa insieme con la moglie Costanza fu coronato Imperadore139.

118.. Pancirol. Thes. var. lect. lib. 1 c. 90.
119.. Jason in Praelud. Feud.
120.. Afflict. tit. de Feud. dat. in vim leg. commiss. lib. 1 tit. 22 numer. 49.
121.. Andr. in disput. Feud. pag. 47.
122.. V. Struv. hist. jur. Feud. c. 8 § 23.
123.. Cujac. lib. 5 de Feud.
124.. Marinis l. 1 c. 233 n. 8.
125.. Si vede unita tra' Capitoli di Roberto, verso il fine.
126.. De Nigris in Comment. ad Capitul. Regni in fine, in Constit. Sancimus.
127.. De Luca de Servitutib. disc. 68.
128.. Goldast. tomo I. pag. 268 et tom. 3 pag. 330.
129.. Ric. di S. Germ. Post Regis obitum, omnes inter se coeperunt de majoritate contendere, et ad Regni solium aspirare, et obliti Jurisjurandi, quod fecerant, etc.
130.. Platin. ad Clem. III. Gio Vill. lib. 4 c. 19.
131.. Ric. da S. Germ. Tunc vocatus Panormum Tancredus est, et per ipsum Cancellarium coronatus in Regem: Romana Curia dante assensum.
132.. Ugo Falc. Nobilissima matre genitus, ad quam Dux ipse consuetudinem habuerat.
133.. Giacomo Antonio Ferrari referito dal Summonte.
134.. Ricc. di S. Germ.
135.. Epist. Regis Angl. ad Clem. III apud Baron.
136.. Lunig Cod. Ital. Diplom. Tom. 2 pag. 859.
137.. V. Nicod. nell'Addiz. alla Bibliot. del Toppi.
138.. Dante Parad. canto 12.
139.. Chron. di Fossanova.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
490 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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