Kitabı oku: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9», sayfa 8
CAPITOLO VI
Caduta del Conte Duca, che portò in conseguenza quella del Duca di Medina, il quale cede il Governo all'Ammiraglio di Castiglia suo successore
Ma mentre il Medina, per maggiormente prolungare il suo Governo, essendo già scorsi sei anni e più mesi dal dì che ne avea preso il possesso, trattava un nuovo donativo per la Corte, vennegli avviso che il Re gli avea disegnato per suo successore l'Ammiraglio di Castiglia, che governava allora la Sicilia. La caduta del Conte Duca dalla grazia del Re, portò in conseguenza la sua depressione, e 'l cangiamento di prospera in avversa fortuna. Le gravi perdite della Catalogna e di Portogallo, imputate in gran parte a' violenti consigli dell'Olivares, aveano nel Re Filippo raffreddato l'affetto, che avea verso di lui: o fosse, che per le continue disgrazie gli venisse a noja l'infelice direttor degli affari, o pure, che si fosse avveduto, d'essergli state fin allora dal Favorito rappresentate le cose con aspetto diverso dal vero. Molti vedendo tanti precipizj e ruine, si conoscevano dalla necessità obbligati, lasciata da parte l'adulazione ed il timore, a parlar chiaro; ma niuno ardiva d'esser il primo, fin tanto che la Regina, sostenuta dall'Imperadore con lettere di propria mano scritte al Re e con la voce del Marchese di Grana, suo Ambasciadore, non deliberò di rompere il velo e scoprire gli arcani. Allora tutti si scovrirono, ed anche le persone più vili, o con memoriali, o con pubbliche voci sollecitavano il Re a scacciar il Ministro e ad assumere in se stesso il governo. Egli, maravigliandosi d'aver ignorate fin allora le cagioni delle disgrazie, sopraffatto al lume di tante notizie, che gli si svelavano tutte ad un tratto, vacillò prima tra se medesimo, apprendendo la mole del governo, e dubitando, che contra il Favorito s'adoperassero le fraudi solite delle Corti; ma in fine al consenso di tutti non potendo resistere, gli ordinò un giorno improvvisamente, di ritirarsi a Loeches. L'eseguì prontamente l'Olivares con intrepidezza, uscendo sconosciuto di Corte per timore del Popolo. A tale risoluzione tutti applaudirono con eccesso di gioja. I Grandi prima allontanati ed oppressi, concorsero a servire il Re, ed a rendere più maestosa la Corte; ed i Popoli offerivano a gara gente e denari, animati dalla fama, che il Re volesse assumere la cura del governo fin allora negletta. Ma, o stancandosi al peso, o nuovo agli affari e con più nuovi Ministri nel tedio de' negozj e nelle difficoltà di varj accidenti, sarebbe ricaduto insensibilmente nel pristino affetto verso il Conte Duca, se tutta la Corte non si fosse opposta con uniforme susurro, anzi se lo stesso Olivares non avesse precipitate le sue speranze; perchè volendo con pubblicare alcune scritture, purgarsi, offese molti a tal segno, che il Re stimò meglio d'allontanarlo assai più e confinarlo nella città di Toro. Ivi, non avvezzo alla quiete, annojatosi, com'è solito de' grandi ingegni, terminò di mestizia brevemente i suoi giorni.
Caduto l'Olivares, ancorchè il Re pubblicasse di voler assumere in se stesso il Governo, nulladimanco, o perchè non poteva, o perchè non voleva da se solo reggere il peso, si disponeva ad abbandonar il carico; e fattisi avanti alcuni Grandi, che ambivano di sottentrare in luogo del Conte Duca, Luigi D'Haro, nipote, ma insieme dell'Olivares nemico, lentamente s'insinuò, e con grande modestia, mostrando d'ubbidire al Re, assunse in breve tempo l'amministrazione del Governo.
D. Luigi d'Haro adunque reputando per uno dei più forti pretensori alla privanza l'Ammiraglio di Castiglia, che si trovava allora Vicerè in Sicilia, per tenerlo lontano insieme, e soddisfatto, lo promosse al Viceregnato di Napoli, dandogli per successore in quell'isola il Marchese de los Velez, che dalle guerre di Catalogna era passato Ambasciador del Re in Roma: furono per ciò spediti i dispacci regali nelle persone dell'uno e dell'altro; ma, fosse errore o malizia degli Ufficiali della Segretaria del dispaccio universale tenuti ben regalati dal Medina, invece di mandarsi a ciascuno de' provveduti il suo, vennero chiusi amendue nel plico delle lettere del Medina. Costui, volendo imitare gli artificj del Monterey per prolungare la sua partita, ricusava di consegnar loro i dispacci; e quantunque il Marchese de los Velez fosse venuto da Roma in Napoli per passare in Sicilia, era trattenuto in parole dal Medina, tanto che non poteva partire per mancamento della commessione Regale, che lo qualificava per Vicerè; dall'altra parte l'Ammiraglio nè tampoco poteva lasciar il governo dell'Isola senza il successore; e con tutto che questi avesse mandato in Napoli il suo Segretario a domandargli i dispacci, trovò molta durezza: non avendo potuto disporre il Medina a deporre il Governo. Ma ciò, ch'egli non volle volontariamente fare, ve lo fece risolvere il vedersi insensibilmente mancare nell'autorità, e raffreddare quella riverenza e rispetto, che per ordinario languisce ne' sudditi alla fama del successore; anzi volendo egli sollecitare e porre in effetto il trattato di fare un altro donativo al Re d'un milione, si videro rifugiati nella Chiesa di S. Lorenzo i Deputati delle Piazze, li quali, o perchè non volevano imporre questo nuovo peso alla Patria, o perchè lo volessero riserbare ne' principj del Governo del nuovo Vicerè, sfuggivano l'unione. Conoscendo per tanto il Medina di non potere più lungo tempo con suo decoro continuar nel Governo, si risolse di consegnare i dispacci; onde essendosi il Marchese de los Velez partito per Sicilia, partì pure al suo arrivo l'Ammiraglio per Napoli, dove giunse a' 6 di maggio di quest'anno 1644, ed il Medina deponendo immantenente il Governo, andò ad abitare nella sua Villa di Portici, dove si trattenne fin tanto che s'allestissero le galee per traghettarlo in Ispagna.
Ci lasciò egli molti illustri e magnifici monumenti, che ancor adornano la città. A lui dobbiamo quel fonte d'ammirabile architettura col Dio Nettuno, che sparge dal suo tridente limpidissime acque, il quale trasportato nel largo avanti Castel Nuovo, ed ingrandito da lui, e reso abbondante d'acque, ritiene ancora oggi dal suo il nome di Fontana Medina. A lui parimente si dee quella magnifica Porta della città sotto la falda del Monte di S. Martino, che anticamente chiamavasi del Pertugio; per una picciola apertura, che il Conte d'Olivares fece fare nel muro per comodità degli abitanti di quella contrada, e che ritiene similmente dal suo il nome di Porta Medina. Ebbero questa sorte il Duca d'Alba, ed il Duca di Medina, che queste Porte ritenessero ne' tempi seguenti, e tuttavia, il lor nome; poichè costrutte in luoghi oscuri, non in contrade rinomate, il lor nome antico non potè oscurare il nuovo. Non così avvenne della Via Gusmana, della Porta Pimentella, della strada magnifica e d'ameni alberi adorna, che a' tempi nostri fece il Duca di Medina Celi e d'altri edificj, perchè costruiti in S. Lucia, in Chiaja, ed in altri luoghi noti e frequentati, perderono tosto quel nome, che i loro Autori ad esse avean dato.
Ristaurò egli ancora il Castello di S. Eramo, innalzò il Ponte fuori Salerno, che domina il fiume Sele, ed aprì quella ampia strada, che conduce al Monastero di S. Antonio di Posilipo. Ma sopra ogni altro edificio, il più stupendo fu il palagio fabbricato da lui nella riviera di Posilipo, che chiamasi ancora di Medina, nel quale vi lavorarono più di quattrocento persone: opera veramente magnifica, e ch'è riputata per uno delli tre Edificj maestosi, che s'ammirano ora in Napoli, gareggiando con quello degli Studi, e del Palagio Regale; ma non potè (siccome altresì il Conte di Lemos per la fabbrica de' Regj Studi) avere il piacere di vederlo finito, per cagion della sua partita dal Regno, ed ora rimane in gran parte ruinoso e quasi che inabitabile e cadente.
Ma molto più se gli dee per averci lasciate poco men di cinquanta Prammatiche tutte savie e prudenti, e d'aver eretti due nuovi Tribunali nelle Province di Apruzzo ultra e nella Basilicata. Elesse in Basilicata per Preside D. Carlo Sanseverino Conte di Chiaramonte, assegnandogli per luogo di residenza Stigliano, ma non vi dimorò lungo tempo; onde la Sede dei Presidi di questa Provincia essendosi trasportata ora in un luogo, ora in un altro, fu poi trasferita nella città di Matera, dove ora ancor dura. Per la residenza dell'altro Preside, fu assegnata la città dell'Aquila, ed il primo Preside, che governolla, fu D. Ferrante Mugnoz Consigliere di S. Chiara. Così essendosi divisa la Provincia d'Apruzzo in due, siccome avea fatto il Re Alfonso per ciò che s'apparteneva alli Questori, ed all'amministrazione delle Regie entrate; ed essendosi in Basilicata eretto un nuovo Tribunale, venne il numero delle Province, in quello che s'attiene all'amministrazione della giustizia, a pareggiarsi ed a corrispondere al numero de' Tesorieri, il quale prima era maggiore di quello de' Presidi, ovvero de' Giustizieri. Parimente riordinò il Tribunale dell'Audienza d'Otranto, e costrusse le sue carceri nella forma, nella quale presentemente sono.
Le Prammatiche, che ci lasciò, contengono molti savj provvedimenti. Egli rinovò le ordinazioni per la moderazione del lusso nelle vesti, ne' servidori, e carrozze: vietò sotto gravissime pene l'asportazione delle armi, spezialmente quelle di fuoco: fu terribile persecutore de' banditi: discacciò tutti i vagabondi dal Regno: vietò agli studenti d'andare in altri studi, che in quelli dell'Università; e diede altri salutari provvedimenti, che sono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.
Giunto il Medina in Corte, fu escluso dall'udienza del Re, il quale, ad istigazione de' suoi nemici (li quali per la caduta del Conte Duca suo suocero, resi più baldanzosi, gli avean imputato, che avesse sottratto molto denaro da donativi fatti al Re) gli fece chieder conto di molti milioni, che nel tempo del suo Governo avea egli riscossi dal Regno; ma allegando il Duca, che i Vicerè di Napoli non eran obbligati a dar conto, e che se pure S. M. volesse ciò esiger da lui, era prontissimo a darlo, pur che però ciò seguisse senza forma di giudicio, ma privatamente per non pregiudicare a' Vicerè successori: l'affare si pose in trattato, e secondo la solita tardità spagnuola non venendosene mai a capo, svanì il trattato e si pose alla faccenda perpetuo silenzio. La Principessa di Stigliano sua moglie, che addolorata per la perdita del Governo, era rimasa gravida in Portici, essendosi abortita, soffrì da poi una malattia consimile a quella del Re Filippo II, la quale resala schifosa per la colluvie de' pidocchi, che l'innondò, le tolse anche la vita: miserabile esempio dell'umane grandezze. Fu il suo cadavere depositato nella Chiesa de' PP. Scalzi di S. Agostino nella Villa stessa di Portici; e non avendo potuto i suoi congiunti ottenere dal Vicerè la permissione di trasportarlo con pompa e trattamento Regale, che pretendevano le si dovesse, come Duchessa di Sabioneta, fu dopo qualche tempo privatamente condotta nella Cappella della sua famiglia posta nella Real Chiesa di S. Domenico Maggiore di Napoli.
CAPITOLO VII
Del breve Governo di D. Giovanni Alfonso Enriquez Almirante di Castiglia
Giunto l'Ammiraglio in Napoli, e preso il possesso della sua carica a' 7 maggio di quest'anno 1644, non tardò guari ad accorgersi in che stato lagrimevole era il Regno ridotto: vide le miserie estreme dei sudditi gravati di tante imposizioni e gabelle: esausti tutti i fonti, e l'Erario Regale tutto voto. Ma le sue maggiori afflizioni erano, che non solamente non vedeva mezzi convenienti a potervi rimediare, ma che tuttavia più crescendo i bisogni per nuove cagioni, nè cessando i Ministri della Corte di Spagna, avvezzi a ricevere somme immense da' suoi predecessori, di cercar nuovi donativi di milioni, l'avean posto in agitazioni tali, che cominciava già a confondersi.
Pure in questi principj non sgomentandosi in tutto, colla sua prudenza e vigilanza suppliva, come si poteva meglio, a' nuovi bisogni, che occorrevano. Ancorchè per la pace fatta da Papa Urbano fin dal mese di marzo di quest'anno col Duca di Parma, colla scambievole restituzione de' luoghi presi, si fosse spento quel fuoco, che s'era acceso in Italia per l'occupazione e demolizione di Castro, appartenente al Duca; con tutto ciò non aveano i Barberini lasciate l'arme, nè licenziati i quattromila pedoni, co' dodicimila cavalli, che tenevano in piedi sotto il Duca di Buglione; ed essendosi gravemente infermato il Papa in questo mese di luglio, il nostro Vicerè, prima che spirasse, fece fare in Roma premurose istanze, che i nepoti del Papa deponessero l'armi, ed offerì ancora al Collegio de' Cardinali la sua persona e le forze del Regno per la libertà del futuro Conclave; onde essendo seguita già la morte d'Urbano a' 29 dell'istesso mese di luglio, non tardò di spingere a' confini del Regno le soldatesche; ma fattosi disarmare dal Concistoro il Prefetto di Roma, e seguita l'elezione a' 15 di settembre in persona di Giovambattista Cardinal Pamfilio, che si fece chiamare Innocenzio X si richiamarono le milizie a' quartieri30.
Cessati questi timori, ne sopraggiunsero altri assai più gravi; poichè queste milizie istesse bisognò poco da poi sostenerle contra i Turchi, i quali con un'armata di quarantasei galee sotto il comando di Bechir Capitan Bassà s'eran presentati a vista d'Otranto. Gli Spagnuoli divulgavano, che questa mossa fosse per suggestione de' Franzesi, per tener distratte le forze del Regno: altri dicevano, che fosse principio di più alto disegno de' Turchi, per iscoprire la disposizione nella difesa delle marine d'Italia: che che ne sia, ancor che da' venti spinte ne' lidi della Velona, non avessero apportato altro male ad Otranto, che il terrore suscitato dalle rimembranze delle passate invasioni; nulladimeno ritornaron da poi nel Golfo di Taranto, dove saccheggiarono la Rocca Imperiale, e ridussero in ischiavitù quasi ducento persone, che con esso lor ne portarono31. E da poi nel seguente anno avendo investiti i lidi della Calabria, vi saccheggiarono alcune Terre.
La ricca preda, che fecero da poi i Maltesi all'Eunuco Zanbul Agà nel suo viaggio per la Mecca (origine, che fu della guerra di Candia) pose in timore i Maltesi minacciati dal Turco d'invader Malta; onde il Gran Maestro di quella Religione invocando gli ajuti de' Principi vicini, fece premurose istanze a' Vicerè di Napoli e di Sicilia, perchè volessero prontamente soccorrerlo: tanto che all'Ammiraglio fu duopo spedirgli quattro vascelli, due de' quali carichi di munizioni così da guerra, come da bocca, e gli altri due di soldatesche Spagnuole ed Italiane; ma svanito il timore dell'invasione di quell'Isola, per essersi gittati i Turchi sopra il Regno di Candia, furono rimandate dal Gran Maestro le soldatesche speditegli dal Vicerè, ma non già le munizioni da guerra e le vettovaglie.
Ma questi soccorsi s'avrebber potuto con non molta difficoltà tollerare: altri maggiori se ne richiedevano per altre guerre e particolarmente per quella di Catalogna, che teneva angustiata la Spagna: bisognò dunque spedir da Napoli ottocento cavalli e quattromila pedoni sopra ventisei navi per quella volta, sotto il comando del Generale D. Melchior Borgia: soccorso quanto valido, altrettanto ruinoso al Regno, che 'l finì d'impoverire. Pure con tutto ciò non cessavano i Ministri della Corte di Spagna premere l'Ammiraglio con nuove dimande di donativi di milioni, per accorrere a' bisogni grandi della Corona, ne' quali per la mala condotta degli Spagnuoli si vedeva posta; ma non erano minori le miserie de' sudditi per tante gravezze, che sopportavano, e quando credeva il Vicerè di potergli alleggerire, non già maggiormente aggravargli di nuove imposte, fu costretto per soddisfare a tante e sì continue istanze, di sollecitare le Piazze della Città per l'unione d'un nuovo donativo. Fu conchiuso di farlo per la somma d'un milione; e perchè non vi era altro modo di poterlo con altre gravezze riscuotere dai sudditi, se non sopra le pigioni delle case di Napoli, fu risoluto di prender i nomi da' Cittadini pigionali per quest'effetto e tassargli; ma quando ciò volle mettersi in pratica, si vide una sollevazion universale e ne' borghi di S. Antonio e di Loreto molti della plebe cominciarono a tumultuare; tanto che il Vicerè, prevedendo disordini maggiori, fece sospendere l'esazione. Avvisati di ciò i Ministri di Spagna, ascrivendo questa sospensione a debolezza dell'Ammiraglio, acremente lo ripresero, e col solito fasto ed alterigia gli comandarono la continuazione dell'esazione; ma questo savio Ministro, che più da presso conosceva le pessime disposizioni, ch'erano nella città e nel Regno, con molta costanza stette fermo nella sospensione e scrisse al Re, pregandolo a volerlo rimovere dal Governo, ed a non voler permettere, che volendo cotanto premere un così prezioso cristallo, venisse a rompersi nelle sue mani.
I Ministri Spagnuoli deridendo la timidità dell'Ammiraglio, non diedero orecchio alle sue domande, anzi non lasciavano in Corte di biasimarlo, e di trattarlo da uomo di poco spirito, inabile a governare un Convento di Frati, non che un Regno tanto importante, come quello di Napoli. Ma fermo l'Ammiraglio nel suo proponimento, affermando di voler servire, non tradire il suo Re, rinovò le preghiere, perchè lo lasciassero partire, e gli Spagnuoli di buon animo indussero finalmente il Re a rimoverlo, ed a comandargli, che si portasse in Roma a render in suo nome ubbidienza al nuovo Pontefice; e credendo, che D. Rodrigo Ponz di Leon Duca d'Arcos, come più forte e risoluto potesse riparare alla debolezza, ch'essi imputavano all'Ammiraglio, lo destinarono per suo successore: di che il Duca soleva di poi cotanto dolersi, che s'erano a lui riserbate tutte le sciagure, e ch'egli era venuto a portare le pene delle colpe degli altri Vicerè suoi predecessori.
L'Ammiraglio intesa la risoluzione della Corte, giunto che fu il Duca d'Arcos nel Regno partissi da Napoli nel mese di aprile di quest'anno 1646, ed entrò in Roma a' 25 del medesimo mese, ed a' 28, adempiè la sua commissione col Pontefice; indi, dopo aver fatto un giro per Italia, si ricondusse in Corte ad esercitar la carica di Maggiordomo della Casa Regale, dove poco da poi, infermatosi di mal d'orina, trapassò a' 6 di febbrajo del nuovo anno 1647.
Nel breve tempo del suo Governo, che durò meno di due anni, ci lasciò pure da venti Prammatiche tutte savie e prudenti; attese all'esterminio de' banditi e scorridori di campagna; invigilò perchè non si fraudassero le gabelle e le dogane, vietando a' Monasterj, ed altri luoghi pii la vendita del vino a minuto: vietò la fabbrica, ed asportazion delle armi; e diede altri savj provvedimenti, che sono additati nella tante volte mentovata Cronologia prefissa al tomo primo delle nostre Prammatiche. Ma quello, che nel principio del suo governo gli acquistò maggior plauso, fu l'aver tolto molti abusi, che s'erano introdotti nel precedente dal Medina, infra i quali era scandaloso quello introdotto nel Tribunale della Vicaria per lo gran numero de' Giudici, che vi avea creati, più tosto per soddisfare alle importune raccomandazioni de' parenti della Viceregina D. Anna sua moglie, in quel tempo molto potenti in Palazzo, che per rimunerazion di merito. L'Ammiraglio, lasciato un competente numero a reggere quel Tribunale, mandò gli altri a scrivere nelle Regie Udienze delle Province.
A lui parimente si deve d'essersi tolte le molte brighe con gli Ecclesiastici intorno al ceremoniale, e di essersi allontanate le funzioni Regali dal Duomo, con farle celebrare nelle Chiese Regali, o sottoposte all'immediata protezione del Re. Per la morte accaduta in ottobre dell'anno 1644 della Regina di Spagna Isabella Borbone, ordinò l'Ammiraglio, che se le celebrassero solenni esequie nel Duomo, siccome prima praticavasi; ed avendo ivi fatto innalzare un superbissimo Mausoleo, mentre dovea cominciarsi la funzione, insorse il Cardinal Filamarino Arcivescovo, e pretese, che si dovesse dare il piumaccio a tutti i Vescovi che vi doveano intervenire; ma i Ministri Regj riputando ciò una novità, non vollero acconsentirvi a patto veruno; e dall'altro canto ostinandosi il Cardinale, venne in risoluzione il Vicerè di far disfare il Mausoleo drizzato nel Duomo, e farlo trasportare nella Regal Chiesa di S. Chiara, siccome fu fatto; dove essendosi innalzato ed adornato d'iscrizioni ed elogi composti per la maggior parte da' Gesuiti, e spezialmente dal P. Giulio Recupito di quella Compagnia, furono celebrati i funerali alla defunta Regina a' 21 marzo del seguente anno 1645, recitandovi l'orazione in idioma spagnuolo il P. Antonio Errera della medesima Compagnia; onde da questo tempo in poi le altre consimili funzioni si sono celebrate nella stessa Chiesa, siccome fu fatto ne' funerali di Filippo IV, ed a tempi men a noi lontani, nell'esequie dell'altra Regina di Spagna Borbone, moglie che fu del Re Carlo II e degli altri Regali, come diremo.
Il Duca d'Arcos, avendo preso il governo del Regno, contra il credere de' Ministri di Spagna trovò le cose in istato pur troppo lagrimevole; ed il suo infortunio portò, che le tante cagioni cumulate da' suoi predecessori, avessero da partorire in tempo suo quegli calamitosi effetti e quegli infausti successi che si diranno; il racconto de' quali, per la loro grandezza e novità, fa di mestieri, che si porti nel seguente libro di quest'Istoria.