Kitabı oku: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9», sayfa 9
LIBRO TRENTESIMOSETTIMO
Gli avvenimenti infelici del nostro Reame, che riserbati in tempo del Governo di D. Rodrigo Ponz di Leon Duca d'Arcos, faranno il soggetto di questo libro non meno che le rivoluzioni di Catalogna, la perdita del Regno di Portogallo, delle Fiandre e dei tumulti di Sicilia, potranno esser ben chiaro documento a' Principi, che il reggimento del Mondo raccomandato ad essi da Dio, come a legittimi Rettori, malamente, e contra il suo Divin volere si commette a' Mercenarj, dall'ambiziosa autorità de' quali non solamente i Popoli pruovano stragi e calamità, ma il Principato istesso va in ruina ed in perdizione. Certamente i nostri Re Filippo III e IV furon Principi d'assai religiosi costumi, ma così inabili a reggere il peso gravissimo di una tanta Monarchia, che abbandonatisi in tutto nelle braccia de' Ministri e de' Favoriti, furon contenti della sola ombra, o nome di Re, permettendo, che della potenza, dell'autorità e di tutto il resto si facesse da coloro un pubblico ed ingordissimo mercato; senza che da tanta infingardia avessero mal questi Principi potuto essere rimossi, nè dagli stimoli de' parenti, nè dalle lagrime de' Popoli oppressi, nè dalle percosse di tante sciagure. Veniva anche questo letargo coltivato dall'arte più sopraffina della Corte e de' Favoriti; imperocchè per renderlo più tenace, e che niun rimorso di coscienza fosse mai valevole a riscuoterlo, avevano nelle loro fortune interessati gli istessi Regali Confessori, per tender aguati fino nei penetrali della coscienza, e ne' più riposti colloquj dell'anima.
Videro fin qui da lontano i nostri maggiori questi disordini in molti Stati di quella sì vasta ed ampia Monarchia; ma a questi tempi ne furono ancor essi insieme spettacolo e spettatori. Già per li precedenti libri s'è veduto, che ridotte le cose nell'ultima estremità, non presagivano che ruina e disordini maggiori, e tanto più inevitabili, quanto che in vece di portarvi rimedio, vie più con nuove spinte si acceleravano. Non bastarono le guerre che ardevano nella Germania, nella Catalogna, ne' Paesi bassi e nello Stato di Milano, le quali tennero la Spagna sempre bisognosa d'ajuti, ed avida di continui soccorsi; ma se ne aggiunse a questi tempi una nuova, che s'ebbe quasi colle sole forze del nostro Regno a sostenere, per conservare al Re i Presidj di Toscana invasi dall'arme di Francia: la quale diede l'ultima spinta alle rivolte: ciò che saremo brevemente a narrare.
CAPITOLO I
Del Governo di D. Rodrigo Ponz di Leon Duca d'Arcos; e delle spedizioni che gli convenne di fare per preservare i Presidj di Toscana dalle invasioni dell'armi di Francia
Il Duca d'Arcos entrato in Napoli agli 11 di febbrajo di quest'anno 1646, e veduto lo stato lagrimevole del Regno, i popoli oppressi da tanti pesi, che lor conveniva sovra le proprie forze portare; ed all'incontro ritrovandosi fra le necessità di soccorrere a' bisogni della Corona e le difficoltà di trovare i mezzi per eseguirlo, giudicò minor male applicarsi all'esazione delle somme, delle quali era rimasta creditrice la Corte, per resto de' donativi fatti al Re, sotto il governo del Duca di Medina, che caricare i sudditi di nuove imposte. A questo fine deputò due Giunte di Ministri, perchè l'una vegghiasse a vietare i contrabbandi col rigor del gastigo; l'altra a trovare spedienti per l'accennata esazione, dalla quale sperava di tirar somme immense, senza incorrere nell'odio de' Popoli, imponendo loro nuove gravezze sul principio del suo governo.
Ma la nuova guerra, che bisognò sostenere per difender le Piazze di Toscana da' Franzesi assalite, lo costrinse a proseguire il costume de' suoi predecessori: e per supplire alle nuove spese, venire a' mezzi di nuove gravezze.
Il Cardinal Mazzarini, che nell'infanzia del Re Luigi XIV governava la Francia, crucciato col nuovo Pontefice Innocenzio, che nonostante gli ufficj fatti portare dalla Repubblica di Venezia, proseguiva negli atti giudiziarj contro a' Barberini: covrendo la privata vendetta per la repulsa data dal Pontefice in voler acconsentire alla nominazione fatta al Cardinalato di suo fratello dal Re di Polonia, diede ad intendere alla Regina Reggente ed al Consiglio Regale, che il Papa si era già scoverto d'inclinazione contraria agl'interessi della Francia, e troppo affezionato alla Corona di Spagna, come si vedeva chiaro dalla promozione da esso fatta di Cardinali tutti sudditi, o dipendenti da quella Corona; laonde doversi non solamente con esso lui sospendere ogni atto di confidenza, ma anche adoperare ogni mezzo per farlo ritrarre da questa parzialità. A tale oggetto fu risoluto di ricevere sotto la protezione di Francia i Baroni, e d'atterrire il Papa con disporre un grande armamento per l'Italia, e pungere più da vicino Innocenzio. Ricercò egli per tanto il Duca d'Anghien, perchè assumesse il comando dell'armata destinata per l'Italia, per l'impresa delle Piazze Spagnuole della Toscana, come quella, ch'era più valevole a porre il Pontefice in angustie; ma il Condè, padre del Duca, non volle acconsentirvi, onde egli chiamò in Parigi il Principe Tommaso di Savoja, confidandogli, che le sue intenzioni principalmente erano per quella spedizione contra i Regni di Napoli e di Sicilia; ma per diminuire l'invidia di tanto acquisto, voler esibirne gran parte a' Principi d'Italia, ed a lui principalmente offerirla, che per virtù militare e tant'altre doti, meritava di cingere le tempie di corona Regale. Il Principe tutto credendo, o fingendo di credere, n'abbracciò prontamente il carico, e fu stabilito di far l'impresa del Monte Argentaro e delle altre Piazze, che in Toscana vi tengono li Spagnuoli; spinse dunque l'armata a' 10 di maggio di quest'anno da' porti della Provenza, composta di dieci galee, trentacinque navi e settanta legni minori, sotto il comando dell'Ammiraglio Duca di Bressè, sovra la quale furono imbarcati seimila fanti scelti e seicento cavalli. Al Vado vi montò sopra il Principe Tommaso Generalissimo con il suo seguito, ed alquante truppe. Con tal armata scorse le marine d'Italia, arrivò a Telamone, che senza contrasto s'arrese, come pure il Forte delle Saline e di S. Stefano, dove il Governadore volendo difendersi senza forza, perdè nel primo attacco la vita, accingendosi poi per assalire Orbitello, Piazza forte di muro e di sito. A' Vicerè di Napoli spettava la cura e la difesa di quelle Piazze, perciò il Duca d'Arcos, penetrata l'intenzione de' Franzesi, vi avea spedito Carlo della Gatta, celebre Capitano, per comandarvi: poi avendo preparato un soccorso di settecento fanti, tremila dobble in contanti, e molte provvisioni, così da guerra come da bocca, fatto gli uni e l'altre imbarcare sovra cinque ben armate galee e due navi, le spinse a quella volta sotto il comando del Marchese del Viso e di D. Niccolò Doria, figliuolo del Duca di Tursi, li quali ebbero la fortuna d'introdurre le provvisioni e la gente in Portercole, e ritornarsene con la medesima felicità. Ma volendo ritentare la sorte con la spedizione di quaranta filuche ed un bergantino, sopra le quali andavano molti ufficiali, e quattrocento soldati; fatti accorti i Franzesi dall'antecedente successo, furono lor sovra con le galee, e sotto la Fortezza di Palo, ne presero 27, onde stringendo il Principe Tommaso la Piazza, non bastando alla sua difesa così lenti e scarsi soccorsi, fu astretto il Duca d'Arcos d'ammassar nuove milizie e di spingervi più valevole soccorso, affine di far levar l'assedio.
Fra questo mentre comparve l'armata raccolta in Ispagna con grandissima fama sotto il comando del General Pimiento, la quale era composta di trentuna galee e venticinque grandissimi galeoni, oltre alcuni incendiarj, ma così mal fornita di gente da guerra, che i Franzesi, rinforzati da altre dieci galee, non dubitarono, benchè inferiori di numero e di qualità di vascelli, di venire a battaglia; sfuggivano per ciò li Spagnuoli l'abbordo, contentandosi di battersi col cannone, col quale maltrattarono due galee nemiche e conquassarono il restante; ma il colpo fortunato, che loro diede la vittoria, fu quello di cannonata, che levò la testa al Duca di Bressè, Grand'Ammiraglio di Francia; perchè quell'armata, restando senza Capo, e non avendo pronto ricovero, s'allargò subito, ed alzate le vele si ricondusse in Provenza.
Potè allora il Duca d'Arcos, risoluto di far levar l'assedio, far imbarcare le fanterie sotto il comando del Marchese di Torrecuso, Capitano di gran nome in que' tempi, e mandar la gente a cavallo per terra sotto la scorta del Mastro di Campo Luigi Poderico, il quale prendendo il passo, senza richiederlo, per lo Stato Ecclesiastico, per Castro e per la Toscana (dolendosene in apparenza que' Principi, ma godendone ognuno, ingelositi del troppo potere che acquistavano in Italia i Franzesi, e tacitamente additando a' Spagnuoli la strada) si condusse ad unirsi col Torrecuso; il quale appena sbarcato, ed incendiati a Telamone quasi tutti i legni da carico che vi avevano lasciati i Franzesi, incamminandosi verso la Piazza, astrinse il Principe Tommaso a levarsi. Costui avendo perduta molta gente nelle fazioni, e l'altra resa quasi inutile per l'infermità nell'aria corrotta delle Maremme, ritrovandosi con deboli forze, si ritirò a Telamone, e ritornata l'armata Navale, che il Mazzarini con ordini pressanti vi avea spedita, s'imbarcò, ed andato in Piemonte co' suoi, rimandò il rimanente dell'esercito a riposarsi in Provenza. Carlo della Gatta, uscito nell'abbandonate trincere, guadagnò ricche spoglie e venti cannoni: e l'armata del Pimiento, contenta del conseguito vantaggio, ritornò subito verso i Porti di Spagna, contro il parere degli altri Ministri della Corona, che stimavano dovesse fermarsi.
Del successo d'Orbitello godè altrettanto l'Italia, quantochè penetrati i disegni vastissimi del Cardinal Mazzarini, avea mirata l'impresa con gelosia, ma sopra tutti ne giubilò il Pontefice, che secondava, ancorchè cautamente, gl'interessi della Spagna. All'incontro se ne crucciava il Mazzarini, irritato da' rimproveri, che abbandonati gl'interessi di Catalogna ed indebolite le armi in Fiandra, avesse atteso solamente a pascere le sue private vendette in Italia. Ma egli avendo inteso che l'armata nemica se ne ritornava in Spagna, chiamato in Fonteneblò d'improvviso il Consiglio della Reggenza, vi fece deliberare l'impresa di Piombino e di Portolongone, credendo con doppio colpo ferir vivamente non meno il Pontefice, che gli Spagnuoli; poichè la piazza di Piombino, tenuta da guarnigione di Spagna, apparteneva nondimeno col suo picciolo Principato al Lodovisio nipote del Papa.
Si vide allora quanto valesse la forza, quando in particolare veniva spinta dalla passione; poichè in momenti rimessa l'armata, e raccolte le truppe, riuscita al Cardinale sospetta la condotta del Principe Tommaso, ne consegnò il comando a' Marescialli della Melleraye e di Plessis Plarin, li quali con ugual premura apprestandosi, sciolsero speditamente da' Porti. Appena in Italia se n'era divulgato il disegno, che l'armata comparve, e subito sforzato Piombino, dove erano a guardia soli ottanta soldati, sbarcò sopra l'Elba, ed investendo Portolongone non mal difeso, ma scarsamente munito, l'obbligò ad arrendersi a' 29 d'ottobre di quest'anno 1646. Con tal acquisto si rallegrò il Cardinale, che avesse con larga usura cambiato Orbitello per Portolongone: il quale, come fortissima cittadella del Mediterraneo, separando la comunicazione della Spagna co' Regni d'Italia, dava Porto all'armata Franzese, e ricoverò a' legni, che infestassero la navigazione a' nemici. Il Papa ora atterrito, vedendo muoversi di nuovo le armi, chiamato a se il Cardinale Grimaldi parzialissimo della Francia, gli accordò il perdono per li Barbarini, e la restituzione delle cariche e de' beni, rivocando le Bolle, e le pene, a condizione, che si restituissero nello Stato d'Avignone e di là rendessero con lettere il dovuto ossequio al Pontefice. Ma la speranza da lui concepita di preservare con ciò lo Stato al nipote, fu dal Mazzarini delusa, il quale conoscendo col Papa poter più il timore, lasciò correr l'impresa, scusandosi, che partiti i Marescialli non avea potuto a tempo rivocare le commessioni.
La perdita di Portolongone attristò grandemente il Duca d'Arcos, vedendo i Franzesi annidati in un luogo, donde con facilità potevano assalire il Regno; onde gli convenne applicarsi a fortificare le Piazze di maggior gelosia, ed a far grosse provvisioni, per accingersi a riacquistare il perduto. A questo fine fece nuove fortificazioni intorno Gaeta, imponendo per far ciò una tassa a' benestanti: e diede fuori patenti per arrolare dodicimila persone. Dovevano fra queste trovarsi cinquemila Tedeschi, che con grossi stipendj si fecero venire d'Alemagna. Chiamò in Napoli le milizie del Battaglione del Regno; ma queste si dichiararono, che essendo esse destinate per guardia del proprio paese, non intendevano uscirne. Ma mentre il Vicerè sopra galee e vascelli era tutto inteso per far imbarcar le milizie per l'espedizione di Portolongone e di Piombino; i Capitani Franzesi, che comandavano queste Piazze, meditavano altre spedizioni per invadere i Porti del Regno, e spezialmente il Porto di Napoli ed incendiar le Navi, che vi si trovavano. Con tal disegno partitosi il Cavalier Pol dal Canale di Piombino con una squadra di cinque navi e due barche da fuoco, giunse nel Golfo di Napoli nel primo giorno d'aprile di questo nuovo, e funestissimo anno 1647. Fece egli preda a vista della città d'alcune barche: ciò che pose Napoli in non picciolo scompiglio; ma trovandosi allora nel Porto tredici vascelli, e dodici galee, fecer sollecitamente partire di que' legni armati, sopra i quali montativi molti nobili Napoletani, usciti dal Porto, fecero ritirare le navi Franzesi; ma poichè le nostre sciagure eran fatali, ciò che i francesi non fecero, fece contra di noi il caso, o la malizia; poichè accesosi fuoco nell'Ammiraglio delle navi Spagnuole alle 3 della notte de' 12 maggio, si consumò tutte le munizioni, che v'erano, con rimaner abbruciati quattro cento soldati, e quel ch'è più, si perderono trecentomila ducati contanti, che ivi erano. Quest'incendio di notte, ed a vista della città, per lo strepito e rumor grande, apportò agli abitanti un terrore, ed uno spavento grandissimo, e fu reputato un infausto ed infelice presagio d'incendj più lagrimevoli, per le rivoluzioni indi a poco seguite delle quali saremo ora brevemente a narrare.
CAPITOLO II
Sollevazioni accadute nel Regno di Napoli, precedute da quelle di Sicilia, ch'ebbero opposti successi: quelle di Sicilia si placano: quelle di Napoli degenerano in aperte ribellioni
Gli avvenimenti infelici di queste rivoluzioni sono stati descritti da più Autori: alcuni gli vollero far credere portentosi, e fuor del corso della natura; altri con troppo sottili minuzie distraendo i Leggitori, non ne fecero nettamente concepire le vere cagioni, i disegni, il proseguimento ed il fine: noi perciò, seguendo gli Scrittori più serj e prudenti, gli ridurremo alla loro giusta e natural positura.
De' due Regni d'Italia sottoposti alla Corona di Spagna, quello di Sicilia più quietamente soffriva la dominazione Spagnuola, perchè la terra bagnata dal sangue Franzese inspirasse in que' popoli col timore delle vendette, l'avversione a quel nome, ovvero, perchè non erano cotanto premuti ed oppressi, quanto l'opulenza di queste nostre province invitava gli Spagnuoli a praticare co' Napoletani. Non era nemmeno in alcuni de' nostri Baroni cotanto odiosa la Nazion Franzese, poichè alternato più volte il dominio di questo Regno tra le due Case d'Aragona e d'Angiò, restavano ancora le reliquie dell'antiche fazioni, e l'inclinazioni per ciò vacillanti; onde avveniva, che la Francia nutrisse sempre l'intelligenze con alcuni Baroni; ed i Ministri Spagnuoli, ora dissimulandole, ora punendole, proccuravano di regger con tal freno, che divisi gli animi, impoveriti i potenti, introdotti ne' beni e nelle dignità gli stranieri, non conoscessero i Popoli le forze loro, nè sapessero usarle.
Nell'animo de' Popoli alla Monarchia Spagnuola soggetti, era a questi tempi, per tedio di sì lunghe avversità, scaduto il credito del governo; ed il nome del Re, nella felicità e nella potenza già quasi adorato, restava vilipeso nelle disgrazie e per gli aggravj della guerra poco men che abborrito. Si considerava ancora, che essendo morto in età giovanile il Principe D. Baldassare, dal Re Filippo IV procreato colla defunta Regina Isabella Borbone figliuola d'Errico IV e sorella di Lodovico XIII, Re di Francia, era facile, che la Monarchia rimanesse priva d'eredi; onde i sudditi perderono quel conforto, ed insieme il rispetto, con cui l'attesa successione del figlio al padre, suole, o lusingare i malcontenti, o raffrenare gl'inquieti; e per ciò gli spiriti torbidi sopra ciò promoveano discorsi frequenti ed i più quieti con taciti riflessi deploravano la fortuna maligna, che ciecamente trasferirebbe que' nobilissimi Regni ad incerto dominio, tanto più duro, quanto più ignoto.
I Popoli non men dell'uno che dell'altro Regno si dolevano delle imposizioni rese pesanti dal bisogno non solo, ma dall'avarizia de' Vicerè, e de' Ministri, pe' quali erano stati ridotti a tale stato di miseria e di carestia, che non bastando la fertilità de' nostri campi, nè la Sicilia istessa, che si reputa il Regno fertile di Cerere, ed il granajo d'Italia, potendone esserne esente, si cominciò da per tutto a patirsene penuria. Certamente, che non mai con più chiare pruove si conobbe esser vero, che per stabilire gl'Imperj Dio suscita lo spirito degli Eroi; ma per abbattergli si serve de' più vili e scellerati, quanto che per questi successi.
In Sicilia cominciava la plebe a mormorare per la penuria, che sofferiva di frumenti; ma non curate le sue querele, anzi invece di rimediarvi, impicciolito il pane per nuovi aggravj, diede ella in furore, e dal furore passando all'armi, riempì la città di Palermo di confusione e di tumulti. Il Marchese de los Velez, che governava quel Regno, non ebbe in quel principio forze per reprimerla, nè consiglio per acquietarla; onde lasciando pigliar animo a quella vilissima plebe, vide arder i libri delle gabelle, scacciare gli esattori, levar da' luoghi pubblici l'armi, e fin da' bastioni l'artiglierie; ed udì gridarsi per tutto, che l'imposte s'abolissero, e che nel governo si concedesse al Popolo parte uguale a quella, che teneva la Nobiltà. Il Vicerè accordava ogni cosa, e molto più prometteva; ma il Popolo prima contento, poscia irritato traboccava ad eccessi maggiori ed a più impertinenti domande; o perchè la facilità d'ottenere gli suggerisse pensieri di più pretendere, o perchè non mancassero istigatori, che spargevano essere simulata l'indulgenza e pericolosa la pietà di Nazione, per natura severa e contro i delitti di Stato implacabile per istituto. Se dunque un giorno, accarezzata, deponeva l'armi, l'altro, furiosa, le ripigliava con maggiore strepito, dilatandosi il tumulto anche per lo Regno.
Mancava però un Capo, che con soda direzione regolasse la forza del volgo, il quale se cominciava con rumore, presto languiva, contento d'assaggiare la libertà con qualche insolenza. Ma la nobiltà, poco amata dal popolo, nemmen ella poteva fidarsi di tant'incostanza, e se pur alcuno volle applicar l'animo a servirsi dell'occasione, fu poi fuori di tempo. Tra l'istesso popolo, i più benestanti, esposti agli strazj de' più meschini, da' quali a capriccio venivan lor arse le Case, e saccheggiate le sostanze, sospiravano la quiete primiera. Alla plebe più vile s'univano i delinquenti, da' quali aperte le carceri si cercava franchigia de' debiti ed impunità de' delitti. Fu detto, che in una taverna gettassero alcuni le sorti di chi assumer dovesse la direzione della rivolta, e che toccasse a Giuseppe d'Alessi uno de' più abbietti. Costui molte cose ordinò, e molte n'eseguì d'importanti. Discacciò il Vicerè dal Palazzo, e lo costrinse ad imbarcarsi sopra le Galee del Porto; poi si compose con un trattato solenne, che al popolo concedeva tali privilegj ed esenzioni sì larghe, che anche in Repubblica libera sarebbero stati eccedenti; ma in fine mentre l'Alessi sta con guardie, e tratta con fasto, invidiato da tutti e resosi odioso a' suoi stessi, fu dal popolo ucciso. È però vero, che dal suo sangue di nuovo sorse la sedizione, perchè alcuni credendo, che dagli Spagnuoli gli fossero state tessute l'insidie, altri ambindo quel posto, fluttuarono grandemente le cose, e molto più furono agitate dappoi, che il Vicerè caduto infermo per afflizione d'animo, terminò la sua vita.
Lasciò los Velez il governo al Marchese di Monteallegro, che tutto tollerò per sostenere alla Spagna almeno l'immagine del comando, e guadagnar tempo, sino all'arrivo del Cardinal Trivulzio, che il Re gli avea destinato per successore. Giunto il Cardinale in Palermo mantenne in fede i Siciliani, ed acchetò i romori; tanto che portatosi poi a Messina D. Giovanni d'Austria coll'armata, confermò in quel Regno la quiete, e ridusse le cose in una total calma e tranquillità.
Ma nel Regno di Napoli, non avea tante fiamme il Vesuvio, quanti erano gl'incendj, ne' quali stava involto. In questo Regno, siccome da' precedenti libri si è veduto, avevano gli Spagnuoli riposti i mezzi principali della loro difesa, perchè fertile e ricco forniva danaro ed uomini ad ogni altra provincia assalita. Avrebbe la fecondità e l'opulenza supplito al bisogno, se l'avidità de' Ministri, sempre premendo, non avesse del tutto esauste ed espilate le ricchezze istesse della natura; ma in Ispagna essendo più stimato quel Vicerè, che sapeva ricavare più danaro, non v'era macchina, che non s'adoperasse, per aver il consenso della nobiltà e del popolo, ch'era necessario per deliberare l'imposte, e per cavarne la maggior somma che si potesse. Vendevansi le gabelle a chi più offeriva, e con ciò perpetuando il peso, s'aggravavano le estorsioni, perch'essendo i compratori stranieri, e per lo più Genovesi, avidi sol di guadagno, non era sorta di vessazione, che, trascurate le calamità de' miseri popoli, crudelmente non si praticasse. Non restava più, che imporre, e pur il bisogno cresceva: poichè tentato da' Franzesi Orbitello, ed occupato Portolongone, si richiedevano, e per supplire altrove e per difender il Regno, grandissime provvisioni.
Il Vicerè Duca d'Arcos, trovandosi angustiato dalla necessità del danaro, per porre in piedi nuove soldatesche, e mantenere in mare Armate, non essendo sufficienti le somme, che, senza impor nuovi dazj, pensava di ricavare dagli espedienti sopra accennati, venne alla risoluzione di convocare un Parlamento: dove avendo esposti li bisogni della Corona, e sopra tutto, che bisognava mantener eserciti armati per la vicinanza molesta de' Franzesi, annidati in Toscana, estorse un donativo d'un milione di ducati; ma per ridurlo in contanti era necessario venire all'abborrito rimedio delle gabelle. Con imprudente consiglio, scordatisi così presto di quel, ch'era accaduto sotto il governo del Conte di Benavente, fu proposta la gabella sopra i frutti, altre volte imposta e poi tolta, come gravosa per lo modo di praticarla, ed odiosa alla plebe, e più da lei sentita, quanto ch'ella nell'abbondanza del paese, e sotto clima caldo, non si nutre quasi d'altro alimento, massimamente nell'estate; ad ogni modo trovandosi tutte l'altre cose aggravate ad un segno, che non potevano sopportar maggior peso, vi diedero le Piazze l'assenso, ed il Vicerè abbracciò l'espediente. Ma pubblicato a pena, nel terzo dì di gennajo di quest'anno 1647, l'editto per l'esazione d'essa, che cominciò il Popolo a mormorare, e tumultuosamente ad unirsi, e sempre che usciva il Vicerè, circondavano il suo cocchio, ad alta voce gridando, che si levasse: s'udivano minacce tra' denti, si trovavano affissi molti cartelli, dove si esecrava la gabella, ed una notte fu bruciata la casa, posta in mezzo al Mercato, dove se ne faceva l'esazione.
Il Duca d'Arcos, temendo da tali insolenze disordini maggiori, fece trattar dalle Piazze l'abolizione della gabella, e cercare espedienti di soddisfare coloro, che avevano sopra di quella somministrato il denaro, con imposizione d'altre gabelle meno gravose; ma non si poteva rinvenir alcun mezzo, per le altre maggiori e più gravi difficoltà, che s'incontravano, volendo imporne altre nuove; onde tutte le assemblee riuscivano vane e senz'effetto; e tanto più crescevano i tumultuosi discorsi del popolo; nè mancavano malcontenti, che servivano di mantice per accender maggior fuoco, fra' quali il più istigatore era il Sacerdote Giulio Genuino, il quale avea a se tratti molti della sua condizione, e non men di lui d'ingegni torbidi e sediziosi. Fra la vil plebe era surto ancora un tal Tommaso Aniello, chiamato comunemente Masaniello, d'Amalfi, uomo vilissimo, che serviva ad un venditor di pesce a vender cartocci per riporvelo; giovane di primo pelo, ma vivace ed ardito, il quale, soprammodo crucciato dal pessimo trattamento, ch'era stato fatto da' Gabellieri alla moglie, trovata con una calza piena di farina in contrabbando, minacciava vendicarsene, e meditava di trovar occasione di suscitar in mezzo al Mercato qualche tumulto nel dì della festività del Carmine, solita celebrarsi nella metà del mese di luglio. A tal fine, col pretesto di doversi assalire un Castello di legno nel dì della festa, avea provveduto ad alcuni ragazzi di canne col denaro somministrato da Fr. Salvino Frate Carmelitano, il quale o per propria perfidia, o per suggestione de' malcontenti, era il principal istigatore e fomentatore al Masaniello di farsi Capo del meditato tumulto.
Ma non bisognò aspettare la metà di quel mese, perchè a' 7 di luglio un picciolo ed impensato accidente gli aprì la strada. Alcuni contadini della città di Pozzuoli, avendo la mattina di quel giorno portate alcune sporte di fichi al Mercato, erano sollecitati dagli esattori del dazio al pagamento; ed insorta contesa tra essi, ed i bottegai, che doveano comprarle, intorno a chi dovesse pagarlo; essendo accorso Andrea Nauclerio Eletto del Popolo a darne giudicio, decise, che conveniva si sborsasse da chi le portava dalla campagna: uno de' contadini, che non aveva danaro, versò con imprecazioni un cesto di fichi per terra, rabbiosamente calpestandoli. Accorsero molti a rapirli, con risa, altri con collera, ma tutti compatendo quel misero, ed odiando la cagione. Allo strepito essendo sopravvenuto Masaniello con altri ragazzi armati di canne, cominciarono tutti, da costui animati a saccheggiar il posto della gabella, scacciandone co' sassi i ministri. Da ciò accesi gli animi, ricevendo forza dall'unione e dal numero, svaligiarono tutti gli altri luoghi de' dazj; e guidati da cieco furore, senza saperne i motivi, nè discernere il fine, corsero al Palazzo del Vicerè con proteste d'ubbidienza al Re, ma con esclamazioni contro il mal governo.
Le guardie, deridendo quel puerile trasporto, non vi s'opposero, ed il Vicerè impaurito lo fomentò, esibendo prodigamente ogni grazia. Cresciuta con ciò la licenza, e cominciando i più risoluti a porre a sacco il Palazzo, egli tentò di salvarsi nel Castel Nuovo; ma trovato alzato il ponte, non sapendo per lo timore dove ridursi, corse in carrozza chiusa verso quello dell'Uovo: scoperto però dalla plebe, poco mancò, che non restasse oppresso, se non si fosse ricovrato nel Convento di S. Luigi, nè quivi tampoco sarebbe potuto giugnere, se per la breve strada non fosse andato gettando monete d'oro al popolo per trattenerlo, che non lo seguitasse. Di là fece sparger editti, che abolivano la nuova gabella delle frutta; ma ciò non ostante, il tumulto a guisa di un torrente che inondi cresceva, e suggerendo i più torbidi al volgo semplice varie cose, chiedevano ad alta voce, che si levassero tutte l'altre gabelle, e che si consegnasse al Popolo il privilegio di Carlo V. Quelli che lo dimandavano, sapevano meno degli altri dove fosse, e ciò che contenesse, perchè il dominio lungo degli Spagnuoli, e la sofferenza de' sudditi, abolita ogni memoria d'indulto, avea reso arbitrario ed assoluto il comando.
A tanta commozione essendo accorso il Cardinal Filomarino Arcivescovo, per quietar il tumulto, s'interpose col Vicerè: il quale trovandosi in quell'arduo procinto, in cui era pericolosa la severità e l'indulgenza, e se si negava ogni cosa, e se tutto si concedeva: credè in fine meglio consegnargli un foglio in cui prometteva quanto sapevan pretendere, con speranza, che sedato il romore, e sciolta l'unione di que' scalzi, tutto prestamente si rimettesse in buon ordine e quiete. Ma il contrario avveniva, perchè la maggior parte confusa da que' fantasmi di libertà, senza saper ciò che volesse, voleva più, onde il male peggiorava coi rimedj, e s'irritava co' lenitivi.
Scoppiò in oltre l'odio fierissimo, che la plebe contro la Nobiltà lungo tempo nutrito avea: onde i sollevati scorrendo per le strade, trucidarono alcuni Nobili, arsero le case d'altri, proscrissero i principali, e bramando di sterminarli tutti, stava la città in procinto d'andar a fuoco, ed a sangue. E pure il Popolo stolto credeva di mantenersi fedele al Re, e solo di correggere il cattivo governo, e risentirsi de' strazj patiti da' Nobili superbi e da' Ministri malvagi.
Masaniello lacero e seminudo, avendo per teatro un palco e per scettro la spada, con centocinquantamila uomini dietro, armati in varie foggie, ma tutte terribili, comandava con assoluto imperio ogni cosa. Egli Capo de' sollevati, anima del tumulto, suggeriva le pretensioni, imponeva silenzio, disponeva le mosse, e quasi che tenesse in mano il destino di tutti, trucidava co' cenni, ed incendiava co' sguardi; perchè dove egli inchinava, si recidevan le teste e si portavan le fiamme. Il Vicerè per tanto, per la mediazione del Cardinal Arcivescovo, fu indotto a dar in potere del Popolo istesso il privilegio richiesto, ed accordare un solenne trattato, in cui s'abolivano quelle gabelle, ch'erano state imposte dopo le grazie di Carlo V, e si proibiva d'imporne nell'avvenire altre nuove: si concedeva parità di voti al Popolo con la Nobiltà: si prometteva oblivion d'ogni cosa, e si permetteva, che ne' tre mesi, ne' quali si doveva attendere la confermazione del Re, stesse armata la plebe. Fu tutto ciò ratificato con solenne giuramento nella Chiesa del Carmine, onde si diede qualche breve respiro.