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Kitabı oku: «Odi barbare», sayfa 2

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ROMA

 
Roma, ne l’aer tuo lancio l’anima altera volante:
accogli, o Roma, e avvolgi l’anima mia di luce.
 
 
Non curïoso a te de le cose piccole io vengo:
chi le farfalle cerca sotto l’arco di Tito?
 
 
Che importa a me se l’irto spettral vinattier di Stradella
mesce in Montecitorio celie allobroghe e ambagi?
 
 
e se il lungi operoso tessitor di Biella s’impiglia,
ragno attirante in vano, dentro le reti sue?
 
 
Cingimi, o Roma, d’azzurro, di sole m’illumina, o Roma:
raggia divino il sole pe’ larghi azzurri tuoi.
 
 
Ei benedice al fosco Vaticano, al bel Quirinale,
al vecchio Capitolio santo fra le ruine;
 
 
e tu da i sette colli protendi, o Roma, le braccia
a l’amor che diffuso splende per l’aure chete.
 
 
Oh talamo grande, solitudini de la Campagna!
e tu Soratte grigio, testimone in eterno!
 
 
Monti d’Alba, cantate sorridenti l’epitalamio;
Tuscolo verde, canta; canta, irrigua Tivoli;
 
 
mentr’io da ‘l Gianicolo ammiro l’imagin de l’urbe,
nave immensa lanciata vèr’ l’impero del mondo.
 
 
O nave che attingi con la poppa l’alto infinito,
varca a’ misterïosi liti l’anima mia.
 
 
Ne’ crepuscoli a sera di gemmeo candore fulgenti
tranquillamente lunghi su la Flaminia via,
 
 
l’ora suprema calando con tacita ala mi sfiori
la fronte, e ignoto io passi ne la serena pace;
 
 
passi a i concilii de l’ombre, rivegga li spiriti magni
de i padri conversanti lungh’esso il fiume sacro.
 

ALESSANDRIA

A GIUSEPPE REGALDI QUANDO PUBBLICÒ «L’EGITTO»
 
Ne l’aula immensa di Lussor, su ‘l capo
roggio di Ramse il mistico serpente
sibilò ritto e ‘l vulture a sinistra
volò stridendo,
 
 
e da l’immenso serapèo di Memfi,
cui stanno a guardia sotto il sol candente
seicento sfingi nel granito argute,
Api muggío,
 
 
quando da i verdi immobili papiri
di Mareoti al livido deserto
sonò, tacendo l’aure intorno, questo
greco peana.
 
 
– Ecco, venimmo a salutarti, Egitto,
noi figli d’Elle, con le cetre e l’aste.
Tebe, dischiudi le tue cento porte
ad Alessandro.
 
 
Noi radduciamo a Giove Ammone un figlio
ch’ei riconosca; questo caro alunno
de la Tessaglia, questa bella e fiera
stirpe d’Achille.
 
 
Come odoroso läureto ondeggia
a lui la chioma: la sua rosea guancia
par Tempe in fiore: ha ne’ grand’occhi il sole
ch’ a Olimpia ride:
 
 
ha de l’Egeo la radïante in viso
pace diffusa; se non quando, bianche
nuvole, i sogni passanvi di gloria
e poesia.
 
 
Ei de la Grecia a la vendetta balza
leon da l’aspra tessala falange,
sgomina carri ed elefanti, abbatte
satrapi e regi.
 
 
Salve, Alessandro, in pace e in guerra iddio!
A te la cetra fra le eburnee dita,
a te d’argento il fulgid’arco in pugno,
presente Apollo!
 
 
A te i colloqui di Stagira, i baci
a te co’ serti de le ionie donne,
a te la coppa di Lieo spumante,
a te l’Olimpo.
 
 
Lisippo in bronzo ed in colori Apelle
ti tragga eterno: ti sollevi Atene,
chete de’ torvi demagoghi l’ire,
al Partenone.
 
 
Noi ti seguiamo: il Nilo in vano occulta
i dogmi e il capo a la possanza nostra:
noi farem pace qui tra i numi e al mondo
luce comune.
 
 
E se ti piaccia aggiogar tigri e linci,
Bacco novello, noi verrem cantando,
te duce, in riva al sacro Gange i sacri
canti d’Omero. —
 
 
Tale il peana de gli achei sonava.
E il giovin duce, liberato il biondo
capo da l’elmo, in fronte a la falange
guardava il mare.
 
 
Guardava il mare e l’isola di Faro
innanzi, a torno il libico deserto
interminato: dal sudato petto
l’aurea corazza
 
 
sciolse, e gittolla splendida nel piano:
– Come la mia macedone corazza
stia nel deserto e a’ barbari ed a gli anni
regga Alessandria. —
 
 
Disse; ed i solchi a le nascenti mura
ei disegnava per ottanta stadi,
bianco spargendo su le flave arene
fior di farina.
 
 
Tale il nipote del Pelíde estrusse
la sua cittade; e Faro, inclito nome
di luce al mondo, illuminò le vie
d’Africa e d’Asia.
 
 
E non il flutto del deserto urtante
e non la fuga de i barbarici anni
valse a domare quella balda figlia
del greco eroe.
 
 
Alacre, industre, a la sua terza vita
ella sorgea, sollecitando i fati,
qual la vedesti, o pellegrin poeta,
ammiratore,
 
 
quando fuggendo la incombente notte
di tirannia, pien d’inni il caldo ingegno,
ivi chiedendo libertade e luce
a l’orïente,
 
 
e su le tombe di turbanti insculte
star la colonna di Pompeo vedesti
come la forza del pensier latino
su ‘l torbid’evo.
 
 
Deh, le speranze de l’Egitto e i vanti
nel tuo volume vivano, o poeta!
Oggi Tifone l’ire del deserto
agita e spira.
 
 
Sepolto Osiri, il latratore Anubi
morde a i calcagni la fuggente Europa,
e avanti chiama i bestïali numi
a le vendette.
 
 
Ahi vecchia Europa, che su ‘l mondo spargi
l’irrequïeta debolezza tua,
come la triste fisa a l’orïente
sfinge sorride!
 

IN UNA CHIESA GOTICA

 
Sorgono e in agili file dilungano
gl’immani ed ardui steli marmorei,
e ne la tenebra sacra somigliano
di giganti un esercito
 
 
che guerra mediti con l’invisibile:
le arcate salgono chete, si slanciano
quindi a vol rapide, poi si rabbracciano
prone per l’alto e pendule.
 
 
Ne la discordia cosí de gli uomini
di fra i barbarici tumuli salgono
a Dio gli aneliti di solinghe anime
che in lui si ricongiungono.
 
 
Io non Dio chieggovi, steli marmorei,
arcate aeree: tremo, ma vigile
al suon d’un cognito passo che piccolo
i solenni echi suscita.
 
 
È Lidia, e volgesi: lente nel volgersi
le chiome lucide mi si disegnano,
e amore e il pallido viso fuggevoli
tra il nero velo arridono.
 
 
Anch’ei, tra ‘l dubbio giorno d’un gotico
tempio avvolgendosi, l’Alighier, trepido
cercò l’imagine di Dio nel gemmeo
pallore d’una femina.
 
 
Sott’esso il candido vel, de la vergine
la fronte limpida fulgea ne l’estasi,
mentre fra nuvoli d’incenso fervide
le litanie salíano;
 
 
salian co’ murmuri molli, co’ fremiti
lieti saliano d’un vol di tortore,
e poi con l’ululo di turbe misere
che al ciel le braccia tendono.
 
 
Mandava l’organo pe’ cupi spazii
sospiri e strepiti: da l’arche candide
parea che l’anime de’ consanguinei
sotterra rispondessero.
 
 
Ma da le mitiche vette di Fiesole
tra le pie storie pe’ vetri roseo
guardava Apolline: su l’altar massimo
impallidiano i cerei.
 
 
E Dante ascendere tra inni d’angeli
la tosca vergine transfigurantesi
vedea, sentiasi sotto i piè ruggere
rossi d’inferno i baratri.
 
 
Non io le angeliche glorie né i démoni,
io veggo un fievole baglior che tremola
per l’umid’aere: freddo crepuscolo
fascia di tedio l’anima.
 
 
Addio, semitico nume! Continua
ne’ tuoi misterii la morte domina.
O inaccessibile re de gli spiriti,
tuoi templi il sole escludono.
 
 
Cruciato martire tu cruci gli uomini,
tu di tristizia l’aër contamini:
ma i cieli splendono, ma i campi ridono,
ma d’amore lampeggiano
 
 
gli occhi di Lidia. Vederti, o Lidia,
vorrei tra un candido coro di vergini
danzando cingere l’ara d’Apolline
alta ne’ rosei vesperi
 
 
raggiante in pario marmo tra i lauri,
versare anemoni da le man, gioia
da gli occhi fulgidi, dal labbro armonico
un inno di Bacchilide.
 

NELLA PIAZZA DI SAN PETRONIO

 
Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride.
 
 
È l’ora soave che il sol morituro saluta
le torri e ‘l tempio, divo Petronio, tuo;
 
 
le torri i cui merli tant’ala di secolo lambe,
e del solenne tempio la solitaria cima.
 
 
Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla;
e l’aër come velo d’argento giace
 
 
su ‘l foro, lieve sfumando a torno le moli
che levò cupe il braccio clipeato de gli avi.
 
 
Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando
con un sorriso languido di vïola,
 
 
che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
par che risvegli l’anima de i secoli,
 
 
e un desio mesto pe ‘l rigido aëre sveglia
di rossi maggi, di calde aulenti sere,
 
 
quando le donne gentili danzavano in piazza
e co’ i re vinti i consoli tornavano.
 
 
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
un desiderio vano de la bellezza antica.
 

LE DUE TORRI

Asinella

 
Io d’Italia dal cuor tra impeti d’inni balzai
quando l’Alpi di barbari snebbiarono
e su ‘l populeo Po pe ‘l verde paese i carrocci
tutte le trombe reduci suonavano.
 

Garisenda

 
Memore sospirai sorgendo e la fronte io piegai
su le ruine e su le tombe. Irnerio
curvo tra i gran volumi sedeva e di Roma la grande
lento parlava al palvesato popolo.
 

Asinella

 
Bello di maggio il dí ch’io vidi su ‘l ponte di Reno
passar la gloria libera del popolo,
sangue di Svevia, e te chinare la bionda cervice
a l’ondeggiante rossa croce italica.
 

Garisenda

 
Triste mese di maggio, che intorno al bel corpo d’Imelda
cozzâr le spade de i fratelli e corsero
lunghi quaranta giorni le furie civili crollando
tra ‘l vasto sangue l’ardue torri in polvere.
 

Asinella

 
Dante vid’io levar la giovine fronte a guardarci,
e, come su noi passano le nuvole,
vidi su lui passar fantasmi e fantasmi ed intorno
premergli tutti i secoli d’Italia.
 

Garisenda

 
Sotto vidimi il papa venir con l’imperatore
l’un a l’altro impalmati; ed oh me misera,
in suo giudicio Dio non volle che io ruinassi
su Carlo quinto e su Clemente settimo!
 

FUORI ALLA CERTOSA DI BOLOGNA

 
Oh caro a quelli che escon da le bianche e tacite case
de i morti il sole! Giunge come il bacio d’un dio:
 
 
bacio di luce che inonda la terra, mentre alto ed immenso
cantano le cicale l’inno di messidoro.
 
 
Il piano somiglia un mare superbo di fremiti e d’onde:
ville, città, castelli emergono com’isole.
 
 
Slanciansi lunghe tra ‘l verde polveroso e i pioppi le strade:
varcano i ponti snelli con fughe d’archi il fiume.
 
 
E tutto è fiamma ed azzurro. Da l’alpe là giú di Verona
guardano solitarie due nuvolette bianche.
 
 
Delia, a voi zefiro spira da ‘l colle pio de la Guardia
che incoronato scende da l’Apennino al piano,
 
 
v’agita il candido velo, e i ricci commove scorrenti
giú con le nere anella per la superba fronte.
 
 
Mentre domate i ribelli, gentil, con la mano, chinando
gli occhi onde tante gioie promette in vano Amore,
 
 
udite (a voi de le Muse lo spirito in cuore favella),
udite giú sotterra ciò che dicono i morti.
 
 
dormono a piè qui del colle gli avi umbri che ruppero primi
a suon di scuri i sacri tuoi silenzi, Apennino:
 
 
dormon gli etruschi discesi co ‘l liuto con l’asta con fermi
gli occhi ne l’alto a’ verdi misterïosi clivi,
 
 
e i grandi celti rossastri correnti a lavarsi la strage
ne le fredde acque alpestri ch’ei salutavan Reno,
 
 
e l’alta stirpe di Roma, e il lungo-chiomato lombardo
ch’ultimo accampò sovra le rimboschite cime.
 
 
Dormon con gli ultimi nostri. Fiammeggia il meriggio su ‘l colle:
udite, o Delia, udite ciò che dicono i morti.
 
 
Dicono i morti – Beati, o voi passeggeri del colle
circonfusi da’ caldi raggi de l’aureo sole.
 
 
Fresche a voi mormoran l’acque pe ‘l florido clivo scendenti,
cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al vento.
 
 
A voi sorridono i fiori sempre nuovi sopra la terra:
a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. —
 
 
Dicono i morti – Cogliete i fiori che passano anch’essi,
adorate le stelle che non passano mai.
 
 
Putridi squagliansi i serti d’intorno i nostri umidi teschi:
ponete rose a torno le chiome bionde e nere.
 
 
Freddo è qua giú: siamo soli. Oh amatevi al sole! Risplenda
su la vita che passa l’eternità d’amore. —
 
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
60 s. 1 illüstrasyon
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