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Kitabı oku: «Odi barbare», sayfa 3

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SU L’ADDA

 
Corri, tra’ rosei fuochi del vespero,
corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
fiume, e il tenero amore,
al sole occiduo naviga.
 
 
Ecco, ed il memore ponte dilungasi:
cede l’aereo de gli archi slancio,
e al liquido s’agguaglia
pian che allargasi e mormora.
 
 
Le mura dirute di Lodi fuggono
arrampicandosi nere al declivio
verde e al docile colle.
Addio, storia de gli uomini.
 
 
Quando il romuleo marte ed il barbaro
ruggîr ne’ ferrei cozzi, e qui vindice
la rabbia di Milano
arse in itali incendii,
 
 
tu ancor dal Lario verso l’Eridano
scendevi, o Addua, con desio placido,
con murmure solenne,
giú pe’ taciti pascoli.
 
 
Quando su ‘l dubbio ponte tra i folgori
passava il pallido còrso, recandosi
di due secoli il fato
ne l’esile man giovine,
 
 
tu il molto celtico sangue ed il teutono
lavavi, o Addua, via: su le tremule
acque il nitrico fumo
putrido disperdeasi.
 
 
Moriano gli ultimi tuon de la folgore
franca ne i concavi seni: volgeasi
da i limpidi lavacri
il bue candido, attonito.
 
 
Ov’è or l’aquila di Pompeo? l’aquila
ov’è de l’ispido sir di Soavia
e del pallido còrso?
Tu corri, o Addua cerulo.
 
 
Corri tra’ rosei fuochi del vespero,
corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
fiume, e il tenero amore,
al sole occiduo naviga.
 
 
Sotto l’olimpico riso de l’aere
la terra palpita: ogni onda accendesi
e trepida risalta
di fulgidi amor turgida.
 
 
Molle de’ giovani prati l’effluvio
va sopra l’umido pian: l’acque a’ margini
di gemiti e sorrisi
un suon morbido frangono.
 
 
E il legno scivola lieve: tra le uberi
sponde lo splendido fiume devolvesi:
trascorrono de’ campi
i grandi alberi, e accennano,
 
 
e giú da gli alberi, su da le floride
siepi, per l’auree strisce e le rosee,
s’inseguono gli augelli
e amore ilari mescono.
 
 
Corri tra’ rosei fuochi del vespero,
corri, Addua cerulo: Lidia su ‘l placido
fiume naviga, e amore
d’ambrosia irriga l’aure.
 
 
Tra’ pingui pascoli sotto il sole aureo
tu con Eridano scendi a confonderti:
precipita a l’occaso
il sole infaticabile.
 
 
O sole, o Addua corrente, l’anima
per un elisio dietro voi naviga:
ove ella e il mutuo amore,
o Lidia, perderannosi?
 
 
Non so; ma perdermi lungi da gli uomini
amo or di Lidia nel guardo languido,
ove nuotano ignoti
desiderii e misterii.
 

DA DESENZANO

A G. R.


 
Gino, che fai sotto i felsinei portici?
mediti come il gentil fior de l’Ellade
d’Omero al canto e a lo scalpel di Fidia
lieto sorgesse nel mattin de i popoli?
 
 
Da l’Asinella gufi e nibbi stridono
invidïando e i cari studi rompono.
Fuggi, deh fuggi da coteste tenebre
e al tuo poeta, o dolce amico, vientene.
 
 
Vienne qui dove l’onda ampia del lidio
lago tra i monti azzurreggiando palpita:
vieni: con voce di faleuci chiàmati
Sirmio che ancor del suo signore allegrasi.
 
 
Vuole Manerba a te rasene istorie,
vuole Muníga attiche fole intessere,
mentre su i merli barbari fantasimi
armi ed amori con il vento parlano.
 
 
Ascoltiam sotto anacreòntea pergola
o a la platonia verde ombra de’ platani,
freschi votando gl’innovati calici
che la Riviera del suo vino imporpora.
 
 
Dolce tra i vini udir lontane istorie
d’atavi, mentre il divo sol precipita
e le pie stelle sopra noi viaggiano
e tra l’onde e le fronde l’aura mormora.
 
 
Essi che queste amene rive tennero
te, come noi, bel sole, un dí goderono,
o ti gittasser belve umane un fremito
da le lacustri palafitte, o agili
 
 
Veneti a l’onda le cavalle dessero
trepida e fredda nel mattino roseo,
o co ‘l tirreno lituo segnassero
nel mezzogiorno le pietrose acropoli.
 
 
Gino, ove inteso a le vittorie retiche
o da le dacie glorïoso il milite
in vigil ozio l’aquile romulee
su ‘l lago affisse ricantando Cesare,
 
 
ivi in fremente selva Desiderio
agitò a caccia poi cignali e daini,
fermo il pensiero a la corona ferrea
fulgida in Roma per la via de’ Cesari.
 
 
Gino, ove il giambo di Catullo rapido
l’ala aprí sovra la distesa cerula,
Lesbia chiamando tra l’odor de’ lauri
con un saliente gemito per l’aere,
 
 
ivi il compianto di lombarde monache
salmodïando ascese vèr’ la candida
luna e la requie mormorò su i giovani
pallidi stesi sotto l’asta francica.
 
 
E calerem noi pur giú tra i fantasimi
cui né il sol veste di fulgor purpureo
né le pie stelle sovra il capo ridono
né de la vite il frutto i cuor letifica.
 
 
Duci e poeti allor, fronti sideree,
ne moveranno incontro, e «Di qual secolo
– dimanderanno – di qual triste secolo
a noi venite, pallida progenie?
 
 
A voi tra’ cigli torva cura infóscasi
e da l’angusto petto il cuore fumiga.
Non ne la vita esercitammo il muscolo,
e discendemmo grandi ombre tra gl’inferi».
 
 
Gino, qui sotto anacreòntea pergola
o a la platonia verde ombra de’ platani,
qui, tra i bicchieri che il vin fresco imporpora,
degna risposta meditiamo. Versasi
 
 
cerula notte sovra il piano argenteo,
move da Sirmio una canora imagine
giú via per l’onda che soave mormora
riscintillando a al curvo lido infrangesi.
 

SIRMIONE

 
Ecco: la verde Sirmio nel lucido lago sorride,
fiore de le penisole.
 
 
Il sol la guarda e vezzeggia: somiglia d’intorno il Benaco
una gran tazza argentea,
 
 
cui placido olivo per gli orli nitidi corre
misto a l’eterno lauro.
 
 
Questa raggiante coppa Italia madre protende,
alte le braccia, a i superi;
 
 
ed essi da i cieli cadere vi lasciano Sirmio,
gemma de le penisole.
 
 
Baldo, paterno monte, protegge la bella da l’alto
co ‘l sopracciglio torbido:
 
 
il Gu sembra un titano per lei caduto in battaglia,
supino e minaccevole.
 
 
Ma incontro le porge dal seno lunato a sinistra
Salò le braccia candide,
 
 
lieta come fanciulla che in danza entrando abbandona
le chiome e il velo a l’aure,
 
 
e ride e gitta fiori con le man piene, e di fiori
le esulta il capo giovine.
 
 
Garda là in fondo solleva la ròcca sua fosca
sovra lo specchio liquido,
 
 
cantando una saga d’antiche cittadi sepolte
e di regine barbare.
 
 
Ma qui, Lalage, donde per tanta pia gioia d’azzurro
tu mandi il guardo e l’anima,
 
 
qui Valerio Catullo, legato giú a’ nitidi sassi
il fasèlo britinico,
 
 
sedeasi i lunghi giorni, e gli occhi di Lesbia ne l’onda
fosforescente e tremula,
 
 
e ‘l perfido riso di Lesbia e i multivoli ardori
vedea ne l’onda vitrea,
 
 
mentr’ella stancava pe’ neri angiporti le reni
a i nepoti di Romolo.
 
 
A lui da gli umidi fondi la ninfa del lago cantava
– Vieni, o Quinto Valerio.
 
 
Qui ne le nostre grotte discende anche il sole, ma bianco
e mite come Cintia.
 
 
Qui de la vostra vita gli assidui tumulti un lontano
d’api sussurro paiono,
 
 
e nel silenzio freddo le insanie e le trepide cure
in lento oblio si sciolgono.
 
 
Qui ‘l fresco, qui ‘l sonno, qui musiche leni ed i cori
de le cerule vergini,
 
 
mentr’Espero allunga la rosea face su l’acque
e i flutti al lido gemono. —
 
 
Ahi triste Amore! egli odia le Muse, e lascivo i poeti
frange o li spegne tragico.
 
 
Ma chi da gli occhi tuoi, che lunghe intentano guerre,
chi ne assecura, o Lalage?
 
 
Cogli a le pure Muse tre rami di lauro e di mirto,
e al Sole eterno li agita.
 
 
Non da Peschiera vedi natanti le schiere de’ cigni
giú per il Mincio argenteo?
 
 
da’ verdi paschi dove Bianore dorme non odi
la voce di Virgilio?
 
 
Volgiti, Lalage, e adora. Un grande severo s’affaccia
a la torre scaligera.
 
 
– Suso in Italia bella – sorridendo ei mormora, e guarda
l’acqua la terra e l’aere.
 

DAVANTI IL CASTEL VECCHIO DI VERONA

 
Tal mormoravi possente e rapido
sotto i romani ponti, o verde Adige,
brillando dal limpido gorgo,
la tua scorrente canzone al sole,
 
 
quando Odoacre dinanzi a l’impeto
di Teodorico cesse, e tra l’erulo
eccidio passavan su i carri
diritte e bionde le donne amàle
 
 
entro la bella Verona, odinici
carmi intonando: raccolta al vescovo
intorno, l’italica plebe
sporgea la croce supplice a’ Goti.
 
 
Tale da i monti di neve rigidi,
ne la diffusa letizia argentea
del placido verno, o fuggente
infaticato, mormori e vai
 
 
sotto il merlato ponte scaligero,
tra nere moli, tra squallidi alberi,
a i colli sereni, a le torri,
onde abbrunate piangon le insegne
 
 
il ritornante giorno funereo
del primo eletto re da l’Italia
francata: tu, Adige, canti
la tua scorrente canzone al sole.
 
 
Anch’io, bel fiume, canto: e il mio cantico
nel picciol verso raccoglie i secoli,
e il cuore al pensiero balzando
segue la strofe che sorge e trema.
 
 
Ma la mia strofe vanirà torbida
ne gli anni: eterno poeta, o Adige,
tu ancor tra le sparse macerie
di questi colli turriti, quando
 
 
su le rovine de la basilica
di Zeno al sole sibili il còlubro,
ancor canterai nel deserto
i tedi insonni de l’infinito.
 

PER LA MORTE DI NAPOLEONE EUGENIO

 
Questo la inconscia zagaglia barbara
prostrò, spegnendo li occhi di fulgida
vita sorrisi da i fantasmi
fluttuanti ne l’azzurro immenso.
 
 
L’altro, di baci sazio in austriache
piume e sognante su l’albe gelide
le dïane e il rullo pugnace,
piegò come pallido giacinto.
 
 
Ambo a le madri lungi; e le morbide
chiome fiorenti di puerizia
pareano aspettare anche il solco
de la materna carezza. In vece
 
 
balzâr ne ‘l buio, giovinette anime,
senza conforti; né de la patria
l’eloquio seguivali al passo
co’ i suon de l’amore e de la gloria.
 
 
Non questo, o fosco figlio d’Ortensia,
non questo avevi promesso al parvolo:
gli pregasti in faccia a Parigi
lontani i fati del re di Roma.
 
 
Vittoria e pace da Sebastopoli
sopían co ‘l rombo de l’ali candide
il piccolo: Europa ammirava:
la Colonna splendea come un faro.
 
 
Ma di decembre, ma di brumaio
cruento è il fango, la nebbia è perfida:
non crescono arbusti a quell’aure,
o dan frutti di cenere e tòsco.
 
 
O solitaria casa d’Aiaccio,
cui verdi e grandi le querce ombreggiano
e i poggi coronan sereni
e davanti le risuona il mare!
 
 
Ivi Letizia, bel nome italico
che omai sventura suona ne i secoli,
fu sposa, fu madre felice,
ahi troppo breve stagione! ed ivi,
 
 
lanciata a i troni l’ultima folgore,
date concordi leggi tra i popoli,
dovevi, o consol, ritrarti
fra il mare e Dio cui tu credevi.
 
 
Domestica ombra Letizia or abita
la vuota casa; non lei di Cesare
il raggio precinse: la còrsa
madre visse fra le tombe e l’are.
 
 
Il suo fatale da gli occhi d’aquila,
le figlie come l’aurora splendide,
frementi speranza i nepoti,
tutti giacquer, tutti a lei lontano.
 
 
Sta ne la notte la còrsa Niobe,
sta sulla porta donde al battesimo
le uscïano i figli, e le braccia
fiera tende su ‘l selvaggio mare:
 
 
e chiama, chiama, se da l’Americhe,
se di Britannia, se da l’arsa Africa
alcun di sua tragica prole
spinto da morte le approdi in seno.
 

A GIUSEPPE GARIBALDI

III NOVEMBRE MDCCCLXXX


 
Il dittatore, solo, a la lugubre
schiera d’avanti, ravvolto e tacito
cavalca: la terra ed il cielo
squallidi, plumbei, freddi intorno.
 
 
Del suo cavallo la pésta udivasi
guazzar nel fango: dietro s’udivano
passi in cadenza, ed i sospiri
de’ petti eroici ne la notte.
 
 
Ma da le zolle di strage livide,
ma da i cespugli di sangue roridi,
dovunque era un povero brano,
o madri italiche, de i cuor vostri,
 
 
saliano fiamme ch’astri parevano,
sorgeano voci ch’inni suonavano:
splendea Roma olimpica in fondo,
correa per l’aëre un peana.
 
 
– Surse in Mentana l’onta de i secoli
dal triste amplesso di Pietro e Cesare:
tu hai, Garibaldi, in Mentana
su Pietro e Cesare posto il piede.
 
 
O d’Aspromonte ribelle splendido,
o di Mentana superbo vindice,
vieni e narra Palermo e Roma
in Capitolïo a Camillo. —
 
 
Tale un’arcana voce di spiriti
correa solenne pe ‘l ciel d’Italia
quel dí che guairono i vili,
botoli timidi de la verga.
 
 
Oggi l’Italia t’adora. Invòcati
la nuova Roma novello Romolo:
tu ascendi, o divino: di morte
lunge i silenzii dal tuo capo.
 
 
Sopra il comune gorgo de l’anime
te rifulgente chiamano i secoli
a le altezze, al puro concilio
de i numi indigeti su la patria.
 
 
Tu ascendi. E Dante dice a Virgilio
«Mai non pensammo a forma piú nobile
d’eroe». Dice Livio, e sorride,
«È de la storïa, o poeti.
 
 
De la civile storia d’Italia
è quest’audacia tenace ligure,
che posa nel giusto, ed a l’alto
mira, e s’irradia ne l’ideale».
 
 
Gloria a te, padre. Nel torvo fremito
spira de l’Etna, spira ne’ turbini
de l’alpe il tuo cor di leone
incontro a’ barbari ed a’ tiranni.
 
 
Splende il soave tuo cor nel cerulo
riso del mare del ciel de i floridi
maggi diffuso su le tombe
su’ marmi memori de gli eroi.
 
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
60 s. 1 illüstrasyon
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