Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2», sayfa 7

Yazı tipi:

Ma a questo dubbio mi pare si possa in cosí fatta maniera rispondere: essere di necessitá i meriti e le colpe per gli autori di quelle convenirsi discrivere, accioché piú pienamente si possan comprendere: e queste non per ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama che, non essendo conosciuti, non sarebbono intese; ma per eccellenti e famosi uomini intorno a quelle cose le quali alcun vuole che intese sieno; e perciò, e qui e per tutto il suo libro, lʼautore quasi altra gente non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo non intenda che alcuno creda che egli alcun deʼ nominati vedesse, né in inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, sʼintenda essere in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e gli altri detti, stati peccatori, qui descritti dallʼautore, intende esso autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le colpe, quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere chiunque fu in opera simile a Giulio, in quanto virtuoso e non battezzato, e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in alcune cose peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo testo.

«Io non posso ritrar», cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti uomini che io vidi in quel luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché molti erano. E soggiugne la ragione perché di tutti ritrarre non può, dicendo: «Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti, «il lungo tema», di voler discrivere lʼuniversale stato degli spiriti dannati, di queʼ che si purgano e deʼ beati: «Che molte volte», non solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose che vedute ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il raccontare, «vien meno». E ciò non è maraviglia, percioché, volendo appieno raccontare le particularitá di qualunque nostra operazione, quantunque piccola sia, si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno.

«La sesta compagnia». In questa quinta e ultima particella della seconda parte principale della suddivisione del presente canto, dimostra lʼautore come, partiti daʼ quattro poeti, procedettero avanti, e dice: «La sesta compagnia», cioè deʼ sei poeti, dʼOmero e di Orazio e degli altri, «in due», cioè poeti, in Virgilio e nellʼautore, «si scema», cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella per la quale venuti eravamo, «mi mena ʼl savio duca», Virgilio, «Fuor della cheta», aura; percioché, come assai è nelle precedenti cose apparito, niun tumulto, niun romore era in quel cerchio; «nellʼaura che trema», sí come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da pianti e da dolori. «E vengo in luogo, ove non è», né sole, né stella, né lumiera «che luca», cioè faccia lume.

II
Senso Allegorico

[«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. La continuazione del senso allegorico del precedente canto con quella di questo nella fine del precedente, è dimostrata in quanto, avendo di sopra mostrato come talvolta lʼuomo, ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi e per conseguente diventi servo del peccato, nel principio di questo dimostra come, per quello, nella prigione del diavolo si ritruovi; e di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in lui mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal mortal sonno, e fatto ravvedere lá dove per lo peccato è pervenuto, cioè in luogo tenebroso, oscuro e pien di dolore e di pene. Delle quali accioché egli abbia piena esperienza, e ammaestrato pervenga con disiderio alla penitenza, seguendo la ragione, procede e vede, dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di Dio è punita nel primo cerchio dello ʼnferno. E questa, come assai è manifestato nel testo, dico che è il peccato originale, il quale, per lo lavacro del battesimo, da quegli cotali, che in questo cerchio pena ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la morte nel mondo; per questo peccato fu lʼumana spezie cacciata di paradiso; per questo peccato son sempre poi gli uomini stati e saranno, mentre durerá il mondo, in angoscia e in tribulazione e in mala ventura; per questo peccato Cristo figliuol di Dio ricevette passione e morte, e risurgendo nʼaperse la porta del paradiso, lungamente stata serrata.]

[Dico adunque che, per lo non avere ricevuto il battesimo, al quale sʼaspetta di tôr via il peccato originale, quelli, che in questo cerchio si dolgono, sono dannati, quantunque per altro innocenti sieno, e ancora, per le buone opere, di molti paiano degni di merito. Ed è qui da sapere il battesimo essere di quattro maniere. La prima delle quali è il battesimo della prefigurazione, nel quale insieme con Moisé furon battezzati tutti i giudei passando il mar Rosso. E di questo dice san Paolo: «Patres nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare transierunt: et omnes in Moyse baptizati sunt, in nube et mare». La seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale attualmente neʼ suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice nellʼEvangelio aʼ suoi discepoli: «Euntes ergo, docete omnes gentes, et baptizate eos», ecc. La terza maniera si chiama «flaminis», cioè di spirito: e di questa parla lʼEvangelio dove dice: «Super quem videris Spiritum descendentem et manentem: hic est qui baptizat». E di questa spezie di battesimo credo esser battezzati quegli, se alcuni ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo della Chiesa usitato, e non pertanto si credono essere, ed in ogni atto vivono come cristiani veramente battezzati, né per alcuna cosa posson presumere che battezzati non sieno. La quarta maniera si chiama «sanguinis», e di questa dice lʼEvangelio: «Baptismo habeo baptizari, et quomodo coarcor, usque dum perficiatur?» E in questo credo esser battezzati coloro li quali, disposti a ricevere il battesimo, sʼavacciano di pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico li può battezzare, e in questo avacciarsi, sopraprenderli alcuni nemici uomini che gli uccidono, o altro caso, avanti che al luogo destinato possan venire. Nel primo, come detto è, furon battezzati i giudei: Esodo: «Divisa est aqua, et ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris». Nel secondo son battezzati quegli li quali noi chiamiamo rinati, deʼ quali dice lʼEvangelio: «Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit». Nel terzo son battezzati quegli li quali delle lor colpe pentuti sono, e di questi dice lʼ Evangelio: «Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non intrabit in regnum caelorum». Nel quarto sono battezzati i martiri, deʼ quali similmente dice lʼEvangelio: «Calicem quidem meum bibetis», ecc. E se in quegli, che in questo cerchio dannati sono, ben si riguarda, alcuno non ve nʼè, se non fosse giá Seneca, del quale è assai detto nella lettera, che dʼalcuno di questi battesimi battezzato fosse.]

Sono adunque questi cotali solamente per continui sospiri e per difetto di speranza puniti; la qual pena assai pare che si confaccia al peccato. Fu il peccato originale con soavitá e dolcezza di gusto commesso, e però qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori si punisce; cioè per dolorosa compunzione, in perpetuo, quegli, che con esso in questo mondo muoiono, menano amara vita nellʼaltro: e come i primi parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire, cosí qui sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati dʼogni speranza di mai doverlo vedere; e come la disonesta speranza gli sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, cosí qui lʼonesta nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire lʼafflizione recata in loro dal martíre. E, oltre a ciò, come quello per noi non fu commesso, ma, come spesse volte è detto, per li primi nostri parenti; punito non è, in quegli neʼ quali la sua infezione persevera, per alcuna pena impressa in loro per alcuno esteriore ministro della giustizia di Dio. Né creda alcuno questa pena essere di piccola gravezza o poco cocente, cioè il dolersi coʼ sospiri, senza speranza dʼalcuno futuro o disiderato riposo; anzi, se ben riguarderemo, è gravissima; e, se gli spiriti fossero mortali, essi la dimostrerebbono intollerabile, sí come i mortali hanno spesse volte mostrato. Assai ci puote essere manifesto alcuni essere stati che, ferventemente disiderando alcuna cosa (come creder dobbiamo che questi spiriti, deʼ quali parliamo, disiderano di veder Iddio), come conosciuto hanno esser lor tolta ogni speranza di doverla ottenere, essere in tanto dolor divenuti, che essi, stoltamente eleggendo per molto minor pena la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi, e crudelmente, trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai certo che, se morir potessono gli spiriti, come non possono, assai in quella estrema miseria incorrerebbono. [E questi cotali dico esser tutti quegli che alcuno deʼ sopra detti battesimi avuto non hanno, li quali qui in tre maniere distingue, cioè in pargoli e in uomini e femmine non famose, e come son tutti coloro li quali esso nominatamente discrive.] [Intorno alla qual discrizione, son certi eccellenti uomini aʼ quali non pare che in questa parte lʼautore senta tanto bene, cioè in quanto mostra opinare una medesima pena convenirsi per lo peccato originale a quegli li quali ad etá perfetta pervennero, e a quegli, i quali avanti che a quella pervenissero, morirono. E la ragione, che a questo gli muove, par che sia questa: che i primi, cioè gli uomini, pare che, dalla ragione naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio, e cosí lavarsi della macchia del peccato originale; e peroché nol fecero, non pare che la ignoranza gli scusi, come fa coloro li quali anzi lʼetá perfetta morirono: e per conseguente, per la negligenza in ciò avuta, meritano maggior pena. E perciò in ciò non pare che lʼautore abbia tanto bene opinato.]

[Egli è assai manifesta cosa che la ignoranza, in coloro massimamente neʼ quali dee essere intera cognizione, e per etá e per ingegno, non scusa il peccato: conciosiacosaché noi leggiamo quella essere stata redarguita da Dio in nostro ammaestramento, lá dove dice per Ieremia: «Milvus in caelo et hirundo et ciconia cognoverunt tempus suum; Israël autem me non cognovit». Per che meritamente segue aglʼignoranti quello che san Paolo dice: «Ignorans, ignorabitur», e massimamente a quegli deʼ quali pare che senta il salmista, dove dice: «Noluit intelligere, ut bonum ageret». Per che senza alcun dubbio si dee credere che a questi cotali, li quali di conoscere Iddio non si son curati, né lʼhanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi comandamenti, sará nellʼestremo giudizio detto da Cristo: «Non novi vos, discedite a me, operarii iniquitatis». La qual cosa accioché avvenir non possa, con ogni studio, con ogni vigilanza si dee cercare di conoscere Iddio, e credere che chi questo non fa, non potrá per ignoranza in alcuna maniera scusarsi.]

[Ma nondimeno io non credo che ogni ignoranza igualmente sia riprensibile: e dico «ogni ignoranza», percioché questi signori giuristi e canonisti distinguono, e ottimamente al mio parere, tra ignoranza e ignoranza, chiamandone alcuna «ignoranza facti» ed alcunʼaltra «ignoranza iuris». E vogliono che ignoranza facti sia quella dʼalcuna cosa, la quale verisimilmente non debbia esser pervenuta alla notizia degli uomini: verbi gratia, il papa col collegio deʼ suoi fratelli cardinali segretamente avranno per legge fermato che, sotto pena di scomunicazione, alcun cristiano per alcuna cagione non vada né mandi in alcuna terra dʼalcuno infedele; e, stante questa legge ancor secreta, questo o quel mercatante vʼandranno o vi manderanno: direm noi che per questa ignoranza, che è ignoranza facti, questo cotal sia escomunicato? Certo no; ché ciò sarebbe manifestamente fuor dʼogni ragione, percioché gli uomini non sanno indovinare.]

[Adunque è questa ignoranza escusabile; percioché noi non possiam sapere quello che il papa sʼabbia fatto, né prima dobbiamo il suo secreto voler sapere, che esso medesimo nel voglia manifestare. Ma, poi che esso avrá diliberato che questa legge si palesi, e promulgatala, e per li suoi messaggieri mandatala per tutto, e fattala nunziare e predicare; senza dubbio non può alcun dire che il non saperlo il debbia rendere scusato: sí come talvolta fanno alcuni che, sospicando non si dica cosa che essi non voglian sapere, si partono deʼ luoghi dove ciò si pronunzia; ché fuggono, e poi credono essere scusati per dire e per giurare: – Io non fui mai in parte dove questa proibizion si facesse; – percioché a ciascun sʼappartiene di stare attento dʼinvestigare e di sapere i comandamenti deʼ suoi maggiori, e quegli con ogni reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta, cioè che aʼ nominati dallʼautore, conciosiacosaché per ignoranza iscusati non sieno, si convenga piú grieve pena che a quegli che per la piccola etá cercar non poterono dʼavere la notizia di Dio, e di seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto, si possa rispondere e mostrare in loro essere stata ignoranza facti, e per conseguente dover da essa e potersi con ragione scusare. E che neʼ nominati dallʼautore e neʼ simili fosse ignoranza facti, si può in questa maniera comprendere.]

[Fu il mondo, sí come noi possiamo per lo testo della santa Scrittura cognoscere, molte centinaia dʼanni prima lavato dal diluvio universale, che Dio alcuna legge desse ad alcuno uomo. E la moltitudine della gente da Noé procreata e daʼ figliuoli, era ampliata molto, e in diversi popoli sʼera sparta sopra la faccia della terra: e non solamente la terra continua, ma ancora molte isole aveva ripiene, e ciascheduno secondo il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui il quale in prencipe avea sublimato, vivea: e cotal vita estimava ottima e laudevole, quantunque molti pessimamente estimassono. Nondimeno i piú lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni, che piú di sentimento cominciarono a prendere «a naturali», una brieve legge aggiunsero, cioè: – Non far quello ad altrui, che tu non volessi che fosse fatto a te. – E da questa nacque un modo di vivere piú universale, il quale essi chiamarono «ius gentium»: per lo quale assai oneste cose si servavano diligentemente tra lʼuniversitá deʼ popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi municipali, e secondo quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra le leggi umane avevano alcune divine leggi, per lʼammaestramento delle quali essi onoravano e adoravano Iddio; e cosí perseverarono e ancora perseverano molte nazioni.]

[Ma, poi che a nostro signore Iddio piacque volere le sue leggi ad alcun popolo dare, dalle quali non solamente il popolo, al quale dare le intendea, ma eziandio qualunque altro, volendo, potesse prender regola e norma da piacere a Dio; primieramente fece Abraam degno della sua amicizia, e a lui aperse parte del suo secreto, cioè di quello che fare intendeva nel seme suo: né a lui perciò alcune singulari leggi diede, se non in tanto che, a distinzione deʼ suoi discendenti dagli altri popoli, gli comandò la circuncisione, la qual sempre perseverò e persevera in quegli che deʼ suoi discendenti si dicono. E questa medesima amicizia ritenne con Isaac e con Iacob, discendenti dʼAbraam. Ma poi Iacob, con quegli che di lui eran nati, andatone in Egitto, e in grandissima moltitudine cresciuti, per piú centinaia dʼanni servato il rito della circuncisione, sotto le leggi e sotto la servitudine delli re dʼEgitto furono; della quale Moisé per comandamento di Dio, carichi delle piú care cose degli egiziaci, per lo mar Rosso gli trasse, e menògli neʼ diserti dʼArabia: e quivi dimorando ancora senza legge, se non quella che arbitrariamente in bene e in riposo di loro sʼusava; Moisé, sí come loro duca e giudice, salito sopra il monte Senai, in due tavole gli diede Iddio scritta la legge, la qual voleva servasse il popol suo: e cosí cominciâro gli ebrei ad essere sotto propria legge, che mai infino a quel tempo stato non vʼera. E questo fu, secondo Eusebio in libro Temporum, regnante appo gli assiri Ascadis, lʼanno del regno suo ottavo, e regnante Cecrope appo gli ateniesi, lʼanno quarantacinquesimo del regno suo: il quale anno fu lʼanno del mondo tremilaseicentottantadue, neʼ quali tempi nacque dʼIside Epafo in Egitto, e il tempio dʼApollo Delio fu edificato da Cristone. Quindi, morto Moisé, sotto il ducato di Giosué piú fattisi avanti, per forza cacciaron delle lor sedie i cananei e il loro paese occuparon tutto, e intra sé il divisono, e poi per certo tempo possederono: e secondo la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in continue guerre coʼ vicini da torno, or vincendo e or perdendo, e in grandissime avversitá e tribulazioni divisi dimorando, quantunque alcun nome acquistassero, non fu perciò di tanta fama, che guari per lo mondo si dilatasse: e quanto essi erano daʼ riti degli altri uomini separati, tanto dallʼaltre nazioni erano reputati da meno.]

[Se adunque, avanti che la giudaica legge fosse, vissero i mortali sotto lʼarbitrio loro, o sotto quelle leggi che essi medesimi si dettavano; a cui direm noi che essi dovessero andar cercando per le leggi divine, e di conoscere Iddio? E, oltre a ciò, pur dopo la legge data a Moisé, qual maraviglia è se, abituati in quella maniera di vivere che detta è, non sentirono, né si misono a sentire quello che Iddio sʼavesse detto o fatto con Abraam, o coʼ suoi successori, o con Moisé nelle solitudini del mondo, né poi ancora col popolo suo? Conciofossecosaché quegli, aʼ quali deʼ fatti deʼ giudei pervenne alcuna notizia, gli avessero per servi fuggitivi e per ladri, e Moisé per uomo magico e seduttore. E se per cosí gli aveano, a che ora si dee credere che a loro fossero andate le nazioni strane a consigliarsi della divinitá e deʼ beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto queʼ furti e sotto i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della futura incarnazion del Figliuolo e della resurrezione: questo credo io ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e, come dice Isaia: «Quis enim cognoscit sensum Domini, aut quis consiliarius eius fuit?» E se quelle leggi e quelle operazioni di Dio, che noi tutto il dí leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi singulari amici dʼadoperare; come il dee aver saputo lʼindiano, come lo spagnuolo, come lʼetiopo o il sauromata, aʼ quali per alcuno mai significato non fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual giustizia dannerá la loro ignoranza in questo? Chi non vedrá questa essere stata ignoranza facti, la qual davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso, presupposto che alcuna altra nazione avesse voluto dagli ebrei sapere questo secreto, il quale a loro solo Iddio avea dimostrato, lʼavrebbe ella potuto credere, essendoci per le loro medesime lettere manifesto che essi ebrei, essendo lungamente stati pasciuti di manna, e udendo gli ammaestramenti di Moisé (il quale per la loro liberazione avean veduto percuotere Faraone di dieci crudelissime piaghe, e veduto da lui essere stato nel deserto elevato un serpente di rame, al quale mostrate le lor piaghe, daʼ serpenti del luogo dove erano, ricevute, tutti guerivano; avevangli veduto con la verga percuotere una pietra viva, e di quella a saziar la sete loro uscire un fiume): non gli prestavan però interamente fede, ma, or con una ritrosia, or con unʼaltra, non facevano altro che mormorare e chiedere che nella servitudine, della quale tratti gli avea, gli ritornasse? E ultimamente, elevato un toro dʼariento, contro al comandamento suo quello adorarono, onorarono e magnificarono per loro Iddio?]

[Non fu mai alcun messo di Dio mandato, che il suo piacere loro annunziasse e chiamassegli ad obbidienza della sua legge. E chi dubita che Domeneddio non conoscesse alcun da sé a ciò non dover venire non chiamato, quando i chiamati con ostinata pertinacia recusavan dʼudire i suoi comandamenti e dʼubbidirlo? Se forse volesse alcun dire: – Iona fu mandato da Dio a Ninive; – ma esso non andò ad ammaestrargli della legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dí si disfarebbe. E se gli ebrei furono in Babilonia lungamente in prigione, e vi furono reputati bestie; estimando i caldei che se savi fossero stati, o fosser sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe lasciati venire in quella miseria; e perciò creduti non erano: eʼ non pare che dubitar si debba che non fossero i gentili molto piú prestamente venuti, che non fecero gli ebrei. E questo pare si possa comprendere da ciò che seguí, quando chiamati furono, poi che Cristo incarnato recò in terra quella celeste luce della dottrina evangelica, la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo, che illuminato voglia essere: la quale avendo esso primieramente predicata, e poco dagli ebrei ascoltata, mandò per lʼuniverso i suoi messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita eterna ogni nazione. Né furon chiamati neʼ diserti o nelle solitudini arabiche, né da uomini paurosi o fiochi, ma, come dice di loro il salmista; «Non sunt linguae neque sermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae verba eorum». E queste nel cospetto deʼ re, deʼ prencipi, deʼ tiranni, e nelle cittá grandissime, nelle piazze, neʼ templi, nelle convenzioni e adunanze deʼ popoli: e a questa chiamata prestamente concorsono le nazion gentili e con intera mente senza alcune ritrosie prestaron fede alla dottrina deʼ chiamatori: e non solamente vi prestaron fede, ma per quella se medesimi fecero incontro a tormenti senza la divina grazia intollerabili, e alla morte temporale, senza alcuna paura e con ferma speranza della futura gloria. E cosí si può credere avrebber fatto, se alcuna altra volta fossero stati chiamati. E se essi chiamati non furono, come altra volta è detto, essi non si dovevano né potevano indovinare.]

[Seguirono adunque quello iddio o quegli iddii, quegli riti dʼadorargli e dʼonorargli, che i lor padri, li loro amici, i loro vicini eʼ loro sacerdoti mostravan loro, e a questo, credendosi bene adoperare, eran contenti: conciosiacosaché alcun non sia che cerchi di quello che egli non conosce. E, seguendo il predetto rito dʼadorare Iddio, furono di quegli assai che il seguirono, virtuosamente e moralmente vivendo; avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze, lʼozio, la concupiscenza carnale, le falsitá, i tradimenti e ogni altra operazione meritamente biasimevole; esercitandosi ciascuno di prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben fare alla republica e in divenire glorioso tra gli uomini: e questo con lunghe fatiche e con gran pericoli della propria vita. E cosí si dee credere e ancora molto piú avrebbon fatto in onore del nome di Cristo, per la vita celestiale e per lʼeterna gloria. Ma a doversi di ciò informare non potevan salire in cielo: né in terra era chi lor ne dicesse parole, né che a lor giudicio fosse degno di tanta fede.]

[Se forse volessero alcuni dire: – Cosí come per forza dʼingegno essi adoperarono di conoscere i segreti riposti nel seno della natura e la cagion delle cose, e per saper queste seguivan gli studi caldei, gli egizi, glʼitalici e gli altri quantunque lontani; e cosí per conoscere il vero Iddio si dovean faticare, e andar cercando quegli che maestri e dottori erano della ebraica legge, accioché di ciò gli ammaestrassero – potrebbesi consentire, i gentili dovere aver creduto gli ebrei dover esser maestri di questa veritá. Ma essi non si vedevan tra le nazioni del mondo dʼalcuna preeminenza, né onorato il popolo ebreo, e massimamente a rispetto degli assiri, deʼ greci, degli affricani e ultimamente deʼ romani; anzi si vedea un piccol popolo pieno di vitupèri, di peccati e di scellerate operazioni, e ogni dí essere daʼ caldei e dagli egiziaci presi e straziati e menati in cattivitá e in servitudine, e essi e le lor femmine, e le loro cittá rubate, e ad esse esser disfatte le mura e talvolta tutte abbattute e desolate; per le quali cose assai di fede appo le nazioni strane alla loro religion si toglieva, e per questo essendo avuti in derisione, non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano, oltre a questo, gli ebrei intra se medesimi divisi, ché altra maniera servavano i giudei e altra maniera i sammaritani: e chi meglio di costor si facesse, non potevano le nazioni lontane discernere. Né è da dubitare che molto di fede non togliesse loro appo gli strani la divisione.]

[Che dunque si può dire della ignoranza di coloro che, avanti che Cristo per li suoi messaggeri la legge, da lui data, essere stata data manifestasse, se non quello che davanti è stato detto, cioè che la loro ignoranza, sí come ignoranza facti, si debba potere scusare? E perciò, se per altro ben vissero, non aver altra pena meritata, che quella che semplicemente per lo peccato originale è data a coloro, li quali morirono avanti che essi potesson peccare, e quello sentirne, che par che san Paolo voglia, quando scrive: «Servus nesciens vel ignorans voluntatem Domini sui et non faciens, vapulabit paucis»; e in altra parte: «Facilius consequutus sum veniam, quoniam ignorans feci».]

[De ignorantia iuris non dico cosí; percioché, come di sopra dissi, come la legge, la quale a ciascuno appartiene, è promulgata e manifestata, non puote alcuno con accettevole scusa allegar la ignoranza: percioché tale ignoranza si può meritamente dire crassa e supina, e apparire aperto, colui che ciò non sa, nol sa, perché non lʼha voluto sapere. E però se, dopo la dottrina evangelica predicata per tutto, è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro virtuosamente vivuto sia, sí come degno di maggior supplicio per la sua ignoranza, non dee a simil pena esser punito con glʼinnocenti, ma a molto piú agra. E di questi cotali pone lʼautore alquanti, come è Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno e Averrois; li quali io confesso, tra gli altri dallʼautor nominati, non doversi debitamente nominare, percioché di loro si può dir quello che scrive san Paolo: «A veritate auditum avertent, ad fabulas autem convertentur», ecc. E il salmista: «Sicut aspides surdae et obturantes aures suas, ut non exaudirent voces», ecc. E di questi meritamente si dice quella parola, che di sopra contro aglʼignoranti è allegata da san Paolo: «ignorans ignorabitur», e similmente lʼaltre autoritá quivi poste. Nondimeno, che che qui per me detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto alla cattolica veritá, né alla sentenza deʼ piú savi.]

Resta a vedere quello che lʼautore abbia voluto per lo castello difeso da sette alte mura e da un bel fiumicello, e per lo prato della verdura che dentro vi truova, poi che con quegli cinque poeti entrato vʼè. E, secondo il mio giudicio, egli intende questo castello il real trono della maestá della filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo, cioè in su la circunferenza della terra: conciosiacosaché queste due spezie di filosofia, morale e naturale, non trascendano alle sedie deʼ beati, ma solamente di terra speculino, conoscano e dimostrino i naturali effetti deʼ cieli nella terra e gli atti degli uomini: per la cognizion delle quali cose sta sempre verde la fama di quegli uomini e di quelle donne le quali seguíti gli hanno. E, a volere a cosí eccelsa e cosí nobile stanza divenire, si conviene tenere il cammino il quale lʼautore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il quale circunda questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le cose, dimora; e passarlo come terra dura, accioché nellʼacqua di quello non si bagnino i piè nostri. E sono, avanti ad ogni altra cosa, per questo bel fiumicello da intendere le sustanze temporali, cioè le ricchezze, i mondani onori e le mondane preeminenze, le quali sono nella prima apparenza splendide e belle, quantunque in esistenza oscure e tenebrose si truovino: in quanto sono privatrici, e massimamente in coloro che non debitamente lʼamano o guardano o spendono o esercitano. E come lʼacqua spesse volte è aʼ nostri sensi dilettevole, cosí queste sono aglʼingegni e aglʼintelletti nocevoli; e cosí sono flusse e labili come è lʼacqua, la quale è in corso continuo; niun fermo stato hanno; oggi sono, e doman non sono; oggi sono in questo luogo e doman in quellʼaltro; oggi piacciono e domane spiacciono. E chiama lʼautor questʼacqua «fiumicello», che è diminutivo di «fiume», per dare ad intendere queste cose temporali e la lor luce e il lor comodo, a rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa. E perciò, chi vuole pervenire allʼaltezza della fama filosofica, gli convien passar questo fiumicello non con delicatezze, non con morbidezze, non con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini e con lunghi sonni e dannosi ozi; ma tutte queste cose, e simiglianti, non solamente scacciate e rimosse da sé, ma senza bagnarsi i piedi in questʼacqua, cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muover lʼaffezione a quella, e come terra dura passarlo, come il passaron per la temporal gloria Cammillo, Cincinnato, Curzio, Fabbrizio e Scipione e simiglianti, e per la filosofica eminenza Diogene, Democrito, Anassagora e i lor simili: li quali, scalpitate coʼ piedi le ricchezze, ed avutele a vile e disprezzatele, passarono con lieto e libero animo alle lunghe fatiche degli studi, delle virtú e delle scienze: e, passato il fiumicello, cioè le temporali delizie scalpitate, con cinque solenni poeti, cioè con quegli dottori li quali sieno per sofficienza degni a dimostrar quella via, [per la quale] alle filosofiche operazioni e perfezion si perviene. E intendo per le sette porti, per le quali dice che entrò con queʼ savi, le sette arti liberali: e non per quelle sette arti le quali molti intendono esser quelle con le quali i demòni ingannano gli sciocchi. E chiamansi «liberali», percioché in esse non osava, al tempo che i romani signoreggiavano il mondo, studiare altri cheʼ liberi uomini: o vogliam dire che liberali si chiamano, percioché elle rendono liberi molti uomini da molti e vari dubbi, neʼ quali senza esse intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i predetti poeti, se con intera mente si riguarderanno i libri loro, neʼ quali, quantunque esplicitamente le regole, spettanti a dover dare la dottrina di quelle, per avventura non vi si truovino, eʼ vi si truovano le conclusioni vere e gli effetti certi delle regole, per le quali si solvono i dubbi li quali intorno alle regole posson cadere. È nondimeno da sapere non esser di necessitá, a colui che odierno filosofo vuol divenire, sapere perfettamente ciascuna delle liberali arti. Saperne alcuna perfettamente è del tutto opportuno, sí come al filosofo la grammatica e la dialettica, al poeta e allʼoratore la grammatica e la rettorica: poi sapere dellʼaltre i principi, e sapergli bene, è assai a ciascuno.