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Kitabı oku: «Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2», sayfa 8

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Entrò adunque lʼautore, per gli effetti delle liberali arti, con questi cinque dottori (coʼ quali si dee intendere ciascun altro entrare, il qual degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini), nel prato della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi, cioè daʼ valenti uomini, e massimamente daʼ poeti, gli son dimostrati coloro che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale ancora è verde. E dissi «massimamente daʼ poeti», percioché di queste cosí fatte dimostrazioni niun altro par dover essere miglior maestro, che colui il quale col suo artificio sa perpetuare i nomi deʼ valenti uomini, e le glorie deglʼimperadori e deʼ popoli: e questi sono i poeti, deʼ quali è oficio il producere in lunghissimi tempi i nomi e lʼopere deʼ valenti uomini e delle valorose donne. La qual cosa quantunque facciano ancora gli storiografi, percioché nol fanno con cosí fiorito, con cosí rilevato, né con cosí ornato stilo, sono in ciò loro preposti i poeti; li quali in questa parte lʼautore intende per la perseverante dimostrazione, la qual sempre davanti da sé porta i nomi e lʼopere di coloro che son degni di laude.

Ma puossi qui muovere un dubbio e dire: che hanno a fare gli uomini dʼarme e le donne con coloro li quali per filosofia son famosi? Al quale si può cosí rispondere: non essere alcun nostro atto laudevole, che senza filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa è a credere che alcuno imperadore possa il suo esercito guidare ogni dí salvamente, senza prendere i luoghi da accamparsi, trovare le vie per le quali aver con salvocondotto si possano le cose opportune allʼeserciti, guardarsi dalle insidie, prender lʼordine o dare al combattere una cittá, ad assalire i nemici, al venire alla battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere ammaestratissimo, non gliela dimostra; e questa disciplina militare è fondata e stabilita sopra i discreti consigli della filosofia, li quali, quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi, nondimeno, se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si guarderanno tritamente, tutti dal discreto filosofo in sillogistica forma si riduceranno. E perciò se quegli, che ottimi maestri nella disciplina militar furono, coʼ filosafi si ponghino e nominino; come filosafi in quella spezie deʼ loro esercizi vi si pongono. Cosí ancora le donne, le quali castamente e onestamente vivono, e i loro ofici domestici discretamente e con ordine fanno, senza filosofica dimostrazione non gli fanno. E dobbiamo credere non sempre nelle cattedre, non sempre nelle scuole, non sempre nelle disputazioni leggersi e intendersi filosofia. Ella si legge spessissimamente neʼ petti degli uomini e delle donne. Sará la savia donna nella sua camera, e penserá al suo stato, alla sua qualitá: e di questo pensiero trarrá lʼonor suo, oltre ad ogni altra cosa, consistere nella pudicizia, nellʼamor del marito, nella gravitá donnesca, nella parsimonia, nella cura famigliare; trarrá ancora di questo pensiero appartenersi a lei di guardare e di servare con ogni vigilanza quello che il marito, faticando di fuori, acquisterá e recherá in casa; dʼallevare con diligenza i figliuoli, dʼammaestrargli, costumargli; e similmente intorno alle cose opportune dar ordine aʼ servi e allʼaltre cose simili. Che leggerá piú a costei nella scuola, che nella sua etica, che nella politica, che nella iconomica le dimostrerá niuna cosa? Dunque quelle, che cosí hanno adoperato e adoperano, non indegnamente, secondo il grado loro, coʼ filosafi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non dunque fece lʼautor men che bene a discrivere i famosi uomini in arme e le valorose donne in compagnia deʼ solenni filosafi.

CANTO QUINTO

I
Senso Letterale

«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Nel presente canto, sí come negli altri superiori, si continua lʼautore alle precedenti cose: e, avendo nella fine del precedente mostrato come Virgilio ed egli, partitisi dagli altri quattro poeti, erano per altra via venuti fuori di quel luogo luminoso, in parte dove alcuna luce non era; e quinci nel principio di questo, continuandosi alle cose predette, ne mostra come nel secondo cerchio dello ʼnferno discendesse. E fa lʼautore in questo canto sei cose: esso primieramente, come detto è, si continua alle precedenti cose, mostrando dove divenuto sia; nella seconda parte dimostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ peccatori; nella terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca e in che supplicio; nella quarta nomina alquanti deʼ peccatori in quella pena puniti; nella quinta parla con alcuni di quegli spiriti che quivi puniti sono; nella sesta ed ultima descrive quello che di quel ragionar gli seguisse. La seconda comincia quivi: «Stavvi Minos»; la terza quivi: «Ora incomincian»; la quarta quivi: «La prima di color»; la quinta quivi: «Poscia chʼio ebbi»; la sesta e ultima quivi: «Mentre che lʼuno spirto».

Comincia adunque in cotal guisa: «Cosí discesi», cioè partito da queʼ quattro savi, seguitando per altra via Virgilio, «del cerchio primaio», cioè del limbo, il quale è il primiero cerchio dello ʼnferno; e mostra appresso dove discendesse, cioè «Giú nel secondo» cerchio, «che men luoco cinghia», cioè gira. E davanti è mostrata la cagion perché: la quale è percioché la forma dello ʼnferno è ritonda, e, quanto piú in esso si discende, tanto viene piú ristrignendo, tanto che ella diviene aguta in sul centro della terra. «E tanto ha piú dolor», in questo cerchio che nel precedente, «che pugne», cioè tormenta in sí fatta maniera, che egli costrigne i tormentati «a guaio», cioè a trar guai: quello che nel superior cerchio, come mostrato è, non avvenia; per che, sʼegli è questo luogo minore di circunferenza che il superiore, egli è molto maggior di pena.

«Stavvi Minos». Qui comincia la seconda parte, nella quale lʼautor mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ peccatori; e in questo séguita lʼautore lo stilo incominciato di sopra, cioè di trovare ad ogni entrata di cerchio alcun demonio. Di sopra allʼentrare del primo cerchio trovò «Carón dimonio con occhi di bragia»; qui trova Minos. E ciascuno con alcun atto o parola terribile spaventa i peccatori che in quel luogo vengono, percioché Carón, di sopra, forte quegli che alla sua nave vennero spaventò con parole, gridando: – «Guai a voi, anime prave», ecc.; – nellʼentrata di questo cerchio, Minos gli spaventa ringhiando, in quanto dice: «Stavvi Minos orribilmente, e ringhia»; e cosí ancora neʼ cerchi seguenti troveremo. Dice adunque: «Stavvi Minos», cioè in su lʼentrata di quel cerchio secondo. Questo Minos dicono i poeti chʼegli fu figliuolo di Giove e dʼEuropa, e ciò essere in tal maniera avvenuto che, essendo Europa, figliuola dʼAgenore, re deʼ fenici, i quali abitarono il lito della Soría e fu la loro cittá principale Tiro, piaciuta a Giove cretense; e con operazion di Mercurio, secondo che da Giove gli era stato imposto, fosse fatto che questa vergine, avendo egli gli armenti reali dalle pasture della montagna vòlti e condotti alla marina, seguíti gli avesse: quivi essendosi Giove trasformato in un tauro bianchissimo e bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto benigno e mansueto si mostrò a questa vergine, che essa, prendendo della sua mansuetudine piacere, primieramente prese ardire di toccarlo con la mano e pigliarlo per le corna e menarselo appresso; poi, cresciuto lʼardire in lei, dal disiderio tratta, vi montò su. La qual cosa sentendo Giove, soavemente portandola, a poco a poco si cominciò a recare in su il lito del mare, e, quando tempo gli parve, si gittò in alto mare. Di che la vergine, paurosa di non cader nellʼacqua, attenendosi forte alle corna, quanto piú poteva lo strigneva con le ginocchia, e, in questa guisa notando, il toro da quello lito di Soría ne la portò infino in Creti; e quivi, ripresa la sua vera forma dʼuomo, giacque con lei, e in processo di tempo nʼebbe tre figliuoli, Minos e Radamanto e Sarpedone. Minos, divenuto a virile etá, prese per moglie una bellissima giovane chiamata Pasife, figliuola del Sole, e di lei gerrerò figliuoli e figliuole, intraʼ quali fu Androgeo, giovane di mirabile stificanza: il quale, neʼ giuochi palestrici essendo artificioso molto, e di corporal forza oltre ad ogni altro valoroso, percioché ogni uomo vincea, fu per invidia dagli ateniesi e daʼ megaresi ucciso. Per la qual cosa Minos, avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e dʼuomini dʼarme per andare a vendicarlo, e volendo, avanti che andasse, sagrificare al padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli antichi crede a essere iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la qual fosse degna deʼ suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò un toro bianchissimo, e tanto bello quanto piú essere potesse. Il quale come Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di mente quello per che ricevuto lʼavea, il volle piú tosto preporre aʼ suoi armenti, per averne allievi, che ucciderlo per ostia; e, fatto il sacrificio dʼun altro, andò a dare opera alla sua guerra. E, assaliti prima i megaresi, e quegli per malvagitá di Scilla, figliuola di Niso, re deʼ megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi grandissima guerra agli ateniesi, quegli similmente vinse, e alla sua signoria gli sottomise e a detestabile servitudine gli si fece obbligati; tra lʼaltre cose imponendo loro che ogni anno gli dovesson mandare in Creti sette liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse in guiderdone a colui che vincitor fosse neʼ giuochi palestrici, li quali in anniversario dʼAndrogeo avea constituiti. Ma, in questo mezzo tempo che esso gli ateniesi guerreggiava, avvenne, e per lʼira conceputa da Giove contro a Minos, e per lʼodio il quale Venere portava a tutta la schiatta del Sole, il quale il suo adulterio e di Marte aveva fatto palese, che Pasife sʼinnamorò del bel toro, il qual Minos sʼavea riservato, senza averlo sacrificato al padre che mandato glielʼavea; e per opera ed ingegno di Dedalo giacque con lui, in una vacca di legno contraffatta ad una della quale il toro mostrava tra lʼaltre di dilettarsi molto; e di lui concepette e poi partorí una creatura, la quale era mezzo uomo e mezzo toro. Della quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria della vittoria acquistata da Minos. Nondimeno esso fece prendere Dedalo ed Icaro, suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione del laberinto, la quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo laberinto non fu fatto come disegnato lʼabbiamo, cioè di cerchi e di ravvolgimenti di mura, per li quali andando senza volgersi, infallibilmente si perveniva nel mezzo, e cosí, tornando senza volgersi, se ne sarebbe lʼuom senza dubbio uscito fuori: ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro cavato, e tutto fatto ad abituri quadri a modo che camere, e ciascuna di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i quali vanno ciascuno in camere simiglianti a queste, e cosí poco si puote avanti andare, che lʼuomo vi si smarrisce entro senza saperne fuori uscire, se per avventura non è. Poi ivi a certo tempo essendo ad Atene venuto per sorte che Teseo, figliuolo del re Egeo, dovesse, con gli altri che per tributo eran mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondo che Ovidio scrive, con certe arti mostrategli da Adriana, figliuola di Minos, vinse il Minotauro ed ucciselo, e da cosí vituperevol servigio liberò gli ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò Adriana e Fedra, figliuole di Minos. E Dedalo dʼaltra parte, fatte alie a sé e al figliuolo, di prigione uscendo se ne volò in Cicilia, e di quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano incontanente il seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondo che Aristotile scrive nella Politica, fu dalle figliuole di Crocalo ucciso. Dopo la morte del quale, percioché esso avea leggi date aʼ cretensi, e con giustizia ottimamente gli avea governati, i poeti, fingendo, dissero lui essere giudice in inferno. E di lui scrive cosí Virgilio:

 
Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum
conciliumque vocat, vitasque et crimina discit, ecc.
 

Ma, percioché non pare per le fizion sopra dette sʼabbia la veritá dellʼistoria di Minos, par di necessitá di rimuover la corteccia di quella, e lasciare nudo il senso allegorico, nel quale apparirá piú della veritá della storia: dico piú, percioché tra le fizion medesime nʼè parte mescolata.

Vogliono adunque i poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire gli armenti dʼAgenore dalla montagna alla marina, alcuna eloquente persona mandata come mezzana da Giove ad Europa; e, per la forza della eloquenza di questa cotal persona, essere Europa condotta alla marina, dove Giove ciò occultamente aspettando, la prese e portonnela in su una sua nave a ciò menata, la quale o era chiamata «tauro», o avea per segno un tauro bianco, come noi veggiamo fare a questi navicanti, li quali a ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun segno; e cosí ne fu trasportata in Creti, dove essa partorí i detti figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono che, essendo ella in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove senza avere avuto alcun figliuolo di lei, la lasciò: e Asterio, in queʼ tempi re di Creti, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, la prese per moglie, ed ébbene quegli figliuoli, deʼ quali di sopra è detto. E, se cosí fu, possiam comprendere aver gli antichi ficto Minos esser figliuolo di Giove, o per ampliar la gloria della sua progenie, o perché nelle sue operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale noi chiamiamo Giove. Ed esso, tra lʼaltre sue condizioni, ebbe questa, che esso fu aʼ sudditi equale e diritto uomo, e servò severissimamente giustizia in tutti, e diede leggi aʼ cretensi, le quali mai piú avute non aveano. E, accioché a rozzo popolo fossero piú accette, solo se nʼandava in una spelunca, e in quella, poi che composto avea ciò che immaginava esser bene e utilitá deʼ sudditi suoi, uscendo fuori, mostrava al popolo sé, quello che scritto o composto avea, avere avuto da Giove suo padre: donde per avventura seguí, per questa astuzia, che esso fu reputato figliuolo di Giove e le leggi da lui composte furono avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato figliuolo dʼAsterio non pare che in alcun modo il conceda il tempo, conciosiacosaché egli apparisca Asterio aver regnato in Creti neʼ tempi che Danao regnò in Argo, che fu intorno degli anni del mondo tremilasettecentotré, e la guerra, la quale ebbe Minos contro agli ateniesi, fu regnante Egeo in Atene, che fu intorno agli anni del mondo tremilanovecentosessanta. Ed è Minos per ciò stato detto daʼ poeti esser giudice in inferno, percioché noi mortali, avendo rispetto aʼ corpi superiori, ci possiam dire essere in inferno: ed esso, come detto è, appo i mortali compose le leggi, e rendé ragione aʼ domandanti; nelle quali cose esso esercitò uficio di giudice.

Le vestigie deʼ quali imitando lʼautore, qui per giudice ed esaminatore delle colpe il pone appo quegli dʼinferno, dicendo che egli sta quivi «orribilmente»; e, a dimostrare il suo orrore dice: «e ringhia». Ringhiare suole essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo albergo sʼappressi. «Esamina le colpe» dellʼanime di coloro che laggiú caggiono. E qui comincia lʼautore a discrivere lʼuficio di questo Minos, in quanto dice che «esamina»: e cosí appare lui in questo luogo esser posto per giudice, percioché aʼ giudici appartiene lʼesaminare delle cose commesse. E séguita: «nellʼentrata». E qui discrive il luogo conveniente a quellʼufizio, accioché alcuna non possa passare, senza esser sottentrata alla sua esaminazione. «Giudica». Séguita qui lʼautore lʼordine giudiciario; percioché primieramente conviene che il discreto giudice esamini i meriti della quistione, e dopo la esaminazione giudichi quello che la legge o talora lʼequitá vuole; e, dopo il giudicio dato, quello mandi ad esecuzione che avrá giudicato. E però segue: «e manda» ad esecuzione, o comanda che ad esecuzion sia mandato. E qui discrive, a questo demonio posto per giudice, essere una dimostrazione assai strana in dichiarare quello che vuole che ad esecuzion si mandi, in quanto dice: «secondo chʼavvinghia», cioè secondo il numero delle volte chʼegli dá dintorno alla persona la coda sua.

Ora, percioché allʼautore pare aver molto succintamente discritto lʼuficio di questo Minos, per farlo piú chiaro, reassume e dice: «Dico», reassumendo, «che, quando lʼanima mal nata», cioè del peccator dannato («quia melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille»), «Gli vien dinanzi», a questo giudice, «tutta si confessa», cioè tutta sʼapre, senza alcuna riservazion fare delle sue colpe. La qual cosa, cioè riservarsi e nascondere delle sue colpe, eziandio volendo, non potrebbe fare, percioché non veggiono i giudici spirituali con quegli occhi che veggiam noi, ma prestamente e senza alcun velame veggion ciò che al loro uficio appartiene. «E quel cognoscitor delle peccata», cioè Minos; dimostrando in lui essere, tra lʼaltre, una delle condizioni opportune a coloro che preposti sono al giudicio delle colpe dʼalcuno, cioè che essi sieno discreti e cognoscano gli effetti e le qualitá di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio; «Vede qual luogo dʼinferno è da essa», cioè quale supplicio infernale sia conveniente alla sua colpa.

«Cingesi con la coda tante volte, Quantunque gradi vuol che giú sia messa». È qui da sapere lo ʼnferno, secondo che al nostro autor piace, esser distinto in nove cerchi, e quanto piú si discende verso il centro, cioè verso il profondo dellʼinferno, piú sono i cerchi stretti e i tormenti maggiori. E, percioché la faccenda di costui è grande intorno allʼesaminare e al giudicar che fa singularmente di ciascuna anima; per dar piú spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di doversi cingere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi, esso vuole che lʼanima da lui esaminata sia infra lʼinferno messa: e, mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con le parole attende alla esaminazione.

«Sempre dinanzi a lui ne stanno molte»; peroché, come giá dimostrato è, la quantitá di quegli che muoiono nellʼira di Dio è molta: e queste cotali «Vanno a vicenda», cioè ordinatamente lʼuna appresso allʼaltra, come venute sono, «ciascuna al giudizio», che di loro dee esser dato; e quivi, «Dicono», le lor colpe, «e odono», la sentenza data di loro, «e poi son giú vòlte», in inferno neʼ luoghi diterminati daʼ ministri di questo giudice.

– «O tu che vieni». Qui dimostra lʼautore questo Minos, sotto spezie di parole amichevoli, averlo voluto spaventare, dicendo: «O tu, che vieni al doloroso ospizio» dello ʼnferno, – «Disse Minos a me, quando mi vide», esser vivo, «Lasciando lʼatto», cioè lʼesercizio, «di cotanto offizio», quanto è lʼavere ad esaminare e a giudicare tutte lʼanime deʼ dannati: – «Guarda comʼentri», quasi voglia dire che chi entra in questo luogo non ne può mai poi uscire, «e di cui tu ti fide»: volendo che lʼautore per queste parole intenda non esser discrezione il mettersi per sua salute dietro ad alcuno che se medesimo non abbia saputo salvare. Quasi voglia dire: – Virgilio non ha saputo salvar sé, dunque come credi tu che egli salvi te? – Sentiva giá questo dimonio per la natura sua, la quale, come che per lo peccato da lui commesso fosse di grazia privata, non fu però privata di scienza, che lʼautor non doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso dimonio lʼavrebbe volentieri frastornato. «Non tʼinganni lʼampiezza dellʼentrare», – la quale è libera ed espedita a tutti quegli che dentro entrar ci vogliono, ma lʼuscire non è cosí. E par qui che questo dimonio amichevolmente e con fede consigli lʼautore; il che non suole esser di lor natura, e nel vero non è. Non dico perciò che essi alcuna volta non deano deʼ consigli che paiono buoni e utili; ma essi non sono, né furon mai, né buoni né utili, percioché da loro non son dati a salutevol fine, ma, per farsi piú ampio luogo, nella mente di chi crede loro, a potere ingannare, gli dánno talvolta. E perciò è con somma cautela da guardarsi daʼ consigli deʼ malvagi uomini, percioché, quanto miglior paiono, piú è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed inganno.

Poi séguita: «E ʼl duca mio a lui: – Perché pur gride?» Non poté sostener Virgilio di lasciargli compiere lʼorazione, conoscendo che egli non consigliava lʼautore a buon fine; ma sentendo lʼautore, forse per ostupefazione, non aver pronto che rispondere, disse egli con parole alquanto austere: O Minos, «perché pur gride», ingegnandoti di spaventarlo? «Non impedire», con questo tuo sgridare, «il suo fatale andare», cioè il suo andare da divina disposizion procedente.

E questo vocabolo «fatale» e come si debba intendere «fato», si dichiarerá appresso nel nono canto sopra quelle parole: «Che giova nelle fata dar di cozzo?» Ma nondimeno, brievemente alcuna cosa dicendone, dico che è da sapere, secondo che Boezio in libro De consolatione ditermina, fato non è altro che disposizione della divina mente intorno alle cose presenti e future. E questo medesimo par sentire santo Agostino nel quinto De civitate Dei; il quale, poi che in questa conclusione è venuto, dice queste parole: «Sententiam tene, linguam comprime»; volendo che noi tegnamo la sentenza, ma schifiamo il vocabolo, cioè di chiamar «fato» la divina disposizione. E questo non fu neʼ suoi tempi senza cagione: la qual fu, percioché allora venendo moltitudine di gentili alla fede cattolica, e però ancor tenera surgendo la cristiana religione, accioché ogni cosa in quanto si potesse si togliesse via (dico di quelle che alcuna forza paressero avere in rivocare negli errori lasciati i gentili, ancora non molto fermati nella cattolica veritá), e questo e molti altri vocaboli, li quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro predicazioni e nelle loro scritture. Ma oggi, per la grazia di Dio, è sí radicata e sí ferma neʼ petti nostri la dottrina evangelica, che senza sospetto si può traʼ savi ogni vocabolo usare.

«Vuolsi cosí», cioè che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria di te e degli altri dannati. E dove si vuole? Vuolsi «colá dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella mente divina, la qual sola puote ciò che ella vuole; «e piú non dimandare»; – quasi dica: – A te non sʼappartiene di sapere che si muova la divinitá a voler questo. —

«Ora incomincian». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella qual dissi si conteneva qual peccato in questo secondo cerchio si punisca e in qual supplicio; alla quale mostra lʼautore, avendo Virgilio posto silenzio a Minos, dʼesser pervenuto. E, percioché infino a questo luogo era venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza udire alcun rumore di pianti o di lamenti, dice: «Ora incomincian le dolenti note A farmisi sentire», cioè le varietá deʼ pianti, le quali si facevano al suo audito sentire; «or son venuto Lá dove molto pianto mi percuote», gli orecchi. E dice «percuote», percioché, essendo lʼaere percosso dalle voci dolenti deʼ tormentati, è di necessitá che egli si muova, e col suo moto percuota quelle cose le quali movendosi truova, delle quali era la sensualitá dellʼautore che quivi vivendo si trovava.

«Io venni in luogo dʼogni luce muto», cioè privato, «Che mugghia», cioè risuona, questo luogo, per lo ravvolgimento delle strida e deʼ pianti, il suono deʼ quali raccolto insieme, fa un rumore simile a quello che noi diciamo che mugghia il mare neʼ tempi tempestosi, e però dice: «come fa ʼl mar per tempesta, Se da contrari venti è combattuto», cioè infestato. Il che assai volte addiviene, che la contrarietá deʼ venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente «mugghiare»: e, percioché da sé non ha proprio vocabolo, è preso un vocabolo a discriver quel romore che piú verisimilmente gli si confaccia, e questo è «mugghiare», il quale è proprio deʼ buoi; ma percioché è un suono confuso e orribile, par che assai convenientemente sʼadatti al romor del mare.

«La bufera infernal». Bufera, se io ho ben compreso, nellʼusitato parlar delle genti è un vento impetuoso, forte, il qual percuote e rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para; e questo, se io comprendo bene, chiama Aristotile nella Meteora «enephias», il quale è causato da esalazioni calde e secche levantesi dalla terra e saglienti in alto; le quali, come tutte insieme pervengono in aere ad alcuna nuvola, cacciate indietro dalla frigiditá della detta nuvola con impeto, divengon vento, non solamente impetuoso, ma eziandio valido e potente di tanta forza, che, per quella parte dove discorre, egli abbatte case, egli divelle e schianta alberi, egli percuote e uccide uomini e animali. È il vero che questo non è universale, né dura molto; anzi vicino al luogo dove è creato, a guisa dʼuna striscia discorre, e quanto piú dal suo principio si dilunga, piú divien debole, infino a tanto che infra poco tempo si risolve tutto. Questo adunque mi pare che lʼautor voglia sentire per questa «bufera»: e benché nella concavitá della terra questo vento causar non si possa, deʼsi intendere in questo luogo non causato, ma per divina giustizia essere posto e ordinato perpetuo. Dice adunque: «che mai non resta», di soffiare, come fa quello che quassú si genera, «Mena gli spiriti», dannati, «con la sua rapina», cioè col suo rapinoso movimento; «Voltando e percotendo»: per questi effetti si può comprendere, questa bufera esser quel vento che detto è, cioè enephias; «gli molesta», cioè gli tormenta. E in questo, che qui è dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio dato allʼanime, le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon pena.

Le quali anime, cosí menate e percosse insieme da questo cosí impetuoso e forte vento, «Quando giungon», mandate da Minos, «davanti alla ruina», che dallʼimpeto di questo vento procede, «Quivi le strida», comincian grandissime, «il compianto e ʼl lamento», deʼ miseri; «Bestemmian quivi la virtú divina». In questo bestemmiare si dimostra la quantitá grandissima e acerba dellʼafflizione deʼ dolenti che questo tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove che essi bestemmiano Iddio.

«Intesi chʼa cosí fatto tormento». Qui, poi che lʼautore ha posta la qualitá del tormento, dichiara quali sieno i peccatori aʼ quali questo tormento è dato, e dice che intese, da Virgilio si dee credere, «che a cosí fatto tormento», come disegnato è, «Eran dannati i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento», cioè alla volontá. E, come che questo si possa dʼogni peccatore intendere, percioché alcun peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla volontá; vuol nondimeno lʼautore che, per quel vocabolo «carnali», sʼintenda singularmente per li lussuriosi.

Séguita dunque: «E come gli stornei». Qui intende lʼautore per una comparazione discrivere in che maniera in questo luogo. sieno i peccator carnali menati e percossi dalla sopradetta infernal bufera, e dice che, come «lʼali», volando, «ne portan» gli stornelli, «Nel freddo tempo», cioè nel mezzo dellʼautunno, nel qual tempo usano gli stornelli e molti altri uccelli, secondo lor natura, di convenirsi insieme e di passare dalle regioni fredde nelle piú calde per loro scampo, e in quelle ne vanno, «a schiera larga e piena», cioè molti adunati insieme: «Cosí quel fiato», cioè quella bufera, ne porta «gli spiriti mali», cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel cerchio, «Di qua, di lá, di giú, di su gli mena», senza servare alcun modo o ordine, lʼuno contro allʼaltro nello scontrarsi crudelmente percotendo. E oltre a questo cosí faticoso tormento, dice: «Nulla speranza gli conforta mai», questi cotali miseri e percossi, «Non che di posa», cioè dʼavere alcuna volta riposo, «ma» ancora non gli conforta «di» dovere aver mai «minor pena», che quella la quale hanno percotendosi insieme.

«E come i grú». Qui per unʼaltra comparazione ne discrive una brigata di quegli spiriti dannati aver veduti venire verso quella parte, dove esso e Virgilio erano; e dice quegli esser da quel vento menati in quella forma che volano per aere i grú. «Van cantando lor lai», cioè lor versi. Ed è questo vocabolo preso, cioè «lai», per parlar francesco, nel quale si chiamano «lai» certi versi in forma di lamentazione nel lor volgare composti. «Facendo in aer di sé», medesimi volando, «lunga riga», percioché stendono il collo, il quale essi hanno lungo, innanzi, e le gambe, le quali similmente hanno lunghe, e cosí fanno di sé lunga riga. «Cosí vidʼio venir» spirti, li quali facevan lunga riga di sé, cioè di tutta la persona, «traendo guai, Ombre portate dalla detta briga», cioè dalla detta bufera. «Per chʼio dissi: – Maestro, chi son quelle Genti, che lʼaura nera sí gastiga?» – cioè tormenta, impetuosamente portandole.

– «La prima di color». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella qual dissi che lʼautore nominava alquanti degli spiriti dannati a questa pena. Dice adunque: – «La prima di color», che cosí son portati, e «di cui novelle Tu vuoʼ saper» – , cioè la condizione e la cagione perché a questo supplicio dannata sia, «mi disse quegli allotta – Fu imperadrice di molte favelle», cioè fu donna di molte nazioni, nelle quali erano molti e diversi modi di parlare. «A vizio di lussuria fu sí rotta», sí inchinevole «Che il libito», cioè il beneplacito, intorno a ciò che a quel vizio apparteneva, «feʼ licito», cioè concedette che lecito fosse in tutte le nazioni che ella signoreggiava; e questo fece «in sua legge», cioè per sua legge. E appresso dice la cagione perché questa legge cosí abominevole fece, cioè, «Per tôrre», per levar via «il biasmo», la infamia «in che era condotta», per le sue disoneste operazioni in quel peccato. «Ella è Semiramis» (poi che detto ha il vizio nel quale condotta fu, la nomina: Semiramis), «di cui si legge», appo molti antichi istoriografi, «Che succedette a Nino», suo marito, dopo la morte di lui nel regno, «e fu sua sposa», mentre esso Nino visse.

Ma, accioché piú pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali fossero le sue operazioni, è da dire alquanto piú pienamente la sua istoria. Dico adunque che, chi che Semiramis si fosse per nazione, non si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano lei essere stata figliuola di Nettuno; ma che essa fosse moglie di Nino, re degli assiri, per lo testimonio di molti istoriografi appare. Concepette costei di Nino, suo marito, un figliuolo, il quale nato nominaron Ninia; ed avendosi giá Nino per forza dʼarme soggiogata quasi tutta Asia, ed ultimamente ucciso Zoroastre eʼ battri, suoi sudditi, avvenne che, fedito nella coscia dʼuna saetta, si morí. Per la qual cosa la donna, temendo di sottomettere alla tenera etá del figliuolo cosí grande imperio, e di tanta e cosí strana gente e nuovamente acquistato, pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover potere reggere i popoli, li quali Nino, ferocissimo uomo, sʼaveva con armi sottomessi e alla sua obbedienza costretti. E, avendo riguardo che essa in alcune cose era simile al figliuolo, e massimamente in ciò che esso ancora non avea barba, e che nella voce puerile era simile a lei, e similmente nella lineatura del viso; estimò potere sé, in persona del figliuolo, presentare agli eserciti del padre. E, per poter meglio celare lʼeffigie giovanile, si coperse la testa con una mitra, la quale essi chiamavan «tiara», e le braccia e le gambe si nascose con certi velamenti. E, accioché la novitá dellʼabito non avesse a generare alcuna ammirazione di lei in coloro che da torno le fossero, comandò a tutti che quello medesimo abito usassero. E in questa forma, dicendo sé esser Ninia, se medesima presentò agli eserciti; e cosí, avendo acquistata real maestá, severissimamente servò la disciplina militare, e con virile animo ardí non solamente di servare lo ʼmperio acquistato da Nino, ma ancora dʼaccrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo debba poter sofferire, perdonando, si sottomise Etiopia, e assalí India, nella quale alcun altro mortale, fuor che il marito, non era stato insino a quel tempo ardito dʼentrar con arme. Ed essendole in molte cose ben succeduto del suo ardire, non dubitò di manifestarsi esser Semiramis, e non Ninia, aʼ suoi eserciti. Essa, oltre alle predette cose, pervenuta in Babillonia, antichissima cittá da Nembrot edificata, e veggendola in grandissima diminuzione divenuta, a quella tutte le mura riedificò di mattoni, e quelle rifece di mirabile grossezza, dʼaltezza e di circúito. E, parendole aver molto fatto, e posto tutto il suo imperio in riposo, tutta si diede alla lascivia carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per piacere. E, tra lʼaltre volte, facendosi ella con grandissima diligenza le trecce, avvenne che, avendo ella giá composta lʼuna, le fu raccontato che Babillonia le sʼera ribellata e venuta nella signoria dʼun suo figliastro. La qual cosa ella sí impazientemente ascoltò, che, lasciato stare il componimento delle sue trecce, e i pettini e gli specchi gittati via, prese subitamente lʼarmi, e, convocati i suoi eserciti, con velocissimo corso nʼandò a Babillonia, e quella assediò; né mai dallʼassedio si mosse, infino a tanto che presa lʼebbe e rivocata sotto la sua signoria: ed allora si fece la treccia, la quale ancora fatta non avea, quando la ribellione della cittá le fu detta. E questa cosí animosa operazione, per molte centinaia dʼanni testimoniò una statua grandissima fatta di bronzo, dʼuna femmina la quale dallʼun deʼ lati avea i capelli sciolti, e dallʼaltro composti in una treccia, la quale nella piazza di Babillonia fu elevata. E, oltre a questa cosí laudabile operazione, molte altre ne fece degne di loda, le quali tutte bruttò e disonestò con la sua libidine. La quale ancora, secondo che lʼantichitá testimonia, crudelmente usò; percioché, come alquanti dicono, quegli giovani, li quali essa eleggeva al suo disonesto servigio, poi che quello aveva usato, accioché occulto fosse, quegli faceva uccidere. Ma nondimeno, quantunque ella crudelmente occultasse gli adultèri, i parti conceputi di loro non poté occultare. E sono di quegli che affermano, lei in questo scellerato servigio aver tirato il figliuolo: e, accioché alcuna delle sue femmine non gli potesse lui col suo servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata quel vestimento, il quale gli uomini fra noi usano a ricoprire le parti inferiori, e di quello aver le sue femmine vestite, e ancora con chiave fermatolo. Dicono ultimamente alcuni che, avendo ella a questa disonestá richiesto il figliuolo, che il figliuolo, avendo ella giá regnato trentadue anni, lʼuccise. Alcuni altri dicono esser vero che il figliuolo lʼuccidesse, ma non per questa cagione: anzi o perché esso se ne vergognasse, o perché egli temesse non forse ella partorisse figliuolo, che con opera di lei il privasse del regno.