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Kitabı oku: «Poesie scelte», sayfa 6

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A GIORGIO BYRON

 
Nato nel grembo di nebbiose lande,
Bello apparisti e formidabil tanto,
Che spesso i lauri delle tue ghirlande
Andar bagnati del femmineo pianto.
Varia del viver tuo per varie bande
Suonò la fama, e talor fosca, ahi! quanto.
Ma chi t’intese, ti compianse, o grande
E giovin re del desolato canto!
Uomini, fede ei vi chiedea, e tacque
Lo steril mondo. Amor gli fu venduto.
L’ebbe senz’oro e non gli die’ conforto.
Allor lanciossi dell’Egèo sull’acque.
Non vi giovi indagar com’è vissuto;
Pensate sol dove il poeta è morto!
 

A M….

I.
 
Donna! Se gli occhi recherai su questi
Carmi infelici, ch’io vado cantando,
Perchè di me qualche memoria resti,
Di me, che or vivo da ogni gioia in bando
Chi sa che il cor non ti si turbi, quando
Vedrai come per segni manifesti
Di te parla talora e lacrimando
L’anima mia, che tu non conoscesti.
Credei che il mondo non avesse eguale
Al tuo cuor nessun altro; e t’amai come
Cor nessun altro amar non ti potea.
Oh! non prevista mia piaga mortale!
Oh! lusinga terribile d’un nome!
Oh! in angeliche membra alma sì rea!
 
II.
 
Però senti, se viva è nel mio petto
Di te la rimembranza! Allor ch’io m’era
Così presso alla morte, e l’intelletto
Già delirando in misera maniera,
I’ pur sempre correa (così m’han detto),
Sempre del Lario alla gentil riviera,
E ti parlava con quel grande affetto,
Che si ha per donna infortunata e altera.
Ed eran teco i due bimbi innocenti;
E profonde dal cor lacrime sparsi,
Lungamente baciandoli nel viso.
Poi desto della vita ai sentimenti,
Vedea tutte le cose incolorarsi
D’un soave color di paradiso!
 
III.
 
Pace, o memorie dell’età fiorita!
E gioisca ella, se altro amor le adorni
D’altri sogni il pensier. Ma se romita
Trascorre in solitudine i suoi giorni,
Comprenda allor come una volta uscita
Dal cor la gioventù rado è che torni;
E come e quanto alla deserta vita
Pesino questi inutili soggiorni.
Inutili, se il cor tutta aveva posto
La sua dolcezza in una larva cara,
E che poi se ne andò miseramente!
Ahimè! come dal sogno è il ver discosto.
Ahimè! come nel tempo si prepara
L’acerbo disinganno della mente.
 
IV.
 
Sentimi, o donna. Su quest’ampio vano,
Che diciam terra, ove i presenti guai
Fan gemer l’alme a qualche ben lontano,
S’io ti scontrassi un’altra volta mai,
Sarò nel viso amicamente umano
Pensando al dolce tempo che t’amai.
Ti porgerò senza terror la mano,
E tu senza terror la stringerai.
Forse negli occhi nostri alcuna stilla
Verrà di pianto a ripensar qual’era
L’antica speme e il bel tempo fuggito.
E a quella mesta visïon tranquilla
Avrem compagne l’aure della sera,
E il sor nell’occidente impietosito.
 

SONETTO

 
I’ vo con l’aria fresca e con la piova,
Coll’alba azzurra e il vespero rosato,
Modulando armonie qual chi non trova
Altro usbergo miglior contra il suo fato.
E mi conforta nella varia prova
La mesta musa che mi vien da lato;
Musa in ira ai codardi, e a cui sol giova
Gir raminga e cantar senza peccato.
Ch’ella tien salde le ragion del vero,
Nè cala a tregua coi potenti, o lega
Mobili patti con la vil fortuna.
Tal che, fragile giunco, o cedro altero,
Può spezzarsi ella sì, ma non si piega.
Di tal tempra, perdio! fatta è quest’una.
 

LA MORTE

 
Dolce pittor, dipingimi costei
Non circondata di spavento e d’ira,
Come gli sciocchi se l’han finta e i rei;
Ma quale il mesto mio pensier la mira.
In bianca veste avvolgila, e le spira
La serena bellezza degli dei;
E tolta in guardia la fedel mia lira,
Chiuda soavemente gli occhi miei!
Così, nell’alto fantasie del core,
Sempre mi piacque immaginar la morte;
Amica e madre ai figli del dolore.
Perchè vestirla di sì tetro velo,
Scarno fantasma sulle nostre porte,
Quand’ella è cosa che ci vien dal cielo?…
 

UN GIGLIO

 
Oh il più soave e il più gentil tra i fiori,
Che pur divelto al povero tuo stelo,
Su un nero crin modestamente odori,
O in fra le pieghe d’un virgineo velo;
Ti dà la terra i suoi tepenti umori,
Lo schietto lume e le rugiade il cielo,
E ahimè! sì presto, o fiorellin, tu muori
Per poca vampa o lieve orma di gelo.
Così passa la bella giovinezza,
Vergini care. E il nappo oggi ripieno
D’ambrosia, all’alba del diman si spezza.
Tal che quand’io ne’ chiusi orti vi miro
Correr gioconde con un giglio in seno,
Come a dolente visïon, sospiro.
 

ZULIA

 
Sull’incantato Bosforo,
Passeggiava Zulìa, la rosellana,
Rapita in mesto fantasie d’amor.
Un dì la vide il giovane
Sir di Bisanzio, e la creò sultana;
Ma pria di tutto aver voleane il cor.
Ambre, alabastri e porpore
Sparse dovunque; e agli occhi di Zulìa
Mostrò d’ori e di gemme ampio tesor,
E dalla intenta vergine
Il bellissimo re della Turchia
Ottenne gli occhi, ma non n’ebbe il cor.
Volò in battaglia; e i perfidi
Vinse fratelli di Zulìa: ma festa
Non menò de’ caduti il vincitor:
Tolti alla morte e liberi
Anzi li volle: e dalla vergin mesta
Ottenne i baci, ma non n’ebbe il cor.
Dimenticò le vigili
Cure del regno; e in erma navicella
Errò con lei degli astri allo splendor;
Pianse alle sue ginocchia,
E dalla frale giovinetta bella
Ebbe gli amplessi, ma non n’ebbe il cor!
Ecco, una sera i portici
Dell’assopito Arème
Suonar di grida, e un turbine
Di spade, e cento fiaccole
Per le agitate tenebre
Confusamente errar;
E il regnator che freme
Cieco, e l’orrenda sciabola
Sfonda de’ suoi giannizzeri
Nel petto; e quasi l’angelo
Dello sterminio appar!,
Che fu?… Zulìa, la tenera
Zulìa deluso ha tutti.
E quella notte naviga
Dell’Ellesponto i flutti,
Fuggendo alle inamabili
Cortine e ai minareti
Lieti – di luce e fior,
Per ricercar men cerule
Onde, men dolci venti,
Ma più serene e libere
Gioie, e più santi gemiti,
E non spïati accenti
E non temuti amor!
E questi amori arrisero
Alla fuggente?… E il roseo
Labbro di lei s’aperse
Più molle vita a suggere
Da meno ardente ciel?…
No. Sue parole agli alberi
Selvaggi, alle stellate
Tenebre, al mar proferse,
Ma sempre inascoltate.
E un bruno e mesto viso,
E un core e un intelletto,
Che indovinasse i subiti
Misterii delle lacrime
E i lampi del sorriso
Con delicato affetto
D’amante e di fratel
Mai più non ebbe. Oh povera
Zulìa, tu passi e canti
Lunghesso le fantastiche
Riviere di Granata:
E le fanciulle amanti
Ti credono la fata,
Che giunge a vol dai floridi
Paesi delle Urì
Per rivelare ai forti
Le pugne e le vittorie,
E sulle aperte e timide
Palme spïar le sorti,
E solvere i segreti
Dal calice dei fiori,
E derivar gli oroscopi
Dal raggio dei pianeti,
E a quïetar gli ardori
Notturni delle vergini,
Vaticinarne i talami
Allo spuntar del dì.
Così tu passi; e il crine hai sempre in fiore.
Ma il povero tuo core
Vuoto è d’amore!
E vai pregando. che il dolor ti porti
Giù nell’anguste e forti
Case dei morti!
Pur ti credon felice allor che suoni,
O meni danze, o doni
Filtri e canzoni;
Ma nessuno, del mondo a esplorar viene
Di che rea febbre piene
T’ardon le vene.
Nessun vede, cogli occhi, il miserando
Stral che ti piaga, quando
Passi cantando,
E miri un giovincel, che l’orme affretta
Sull’orme alla diletta
Sua giovinetta,
E tra le siepi e le solinghe aiuole,
Al tramontar del sole,
Cerca vïole,
Per poi deporle dolcemente nelle
Mani odorose e belle;
Due gigli anch’elle.
«T’amo,» ella disse al venticel segreto,
«T’amo,» al lucente e lieto
Fior del roseto:
Ma un triste grido il venticel rispose,
E curve e dolorose
Pianser le rose.
Allor con quella brama intima acuta
Del cor che risaluta
L’età perduta,
Pensò la mesta al suo golfo lontano.
E sospirò, che in vano
Piacque al sultano.
Dell’incantato Bosforo
Ai palmeti tornò la rosellana.
Ma non più accesa in fantasie d’amor.
Ben la rivide il giovine
Sir di Turchia. Ma un’altra era sultana,
Che insiem cogli occhi gli avea dato il cor.
Ambre, alabastri e porpore
I sogni della povera Zulìa
Turbano adesso, e i drappi assiri e l’ôr:
Ma gli ebbe un’altra vergine
Dal bellissimo re della Turchia,
Che insiem coi baci gli avea dato il cor:
Mesta Zulìa rivisita
I noti calli, e va soletta a sera,
Or sospirando al roseo color
D’una fuggente nuvola,
Ora al vol d’una rondine leggiera,
Ora alle foglie pallide d’un fior.
Oh fiorellino! oh rondine
Cara! oh rosata nuvola fuggente!
Fate un canto di morte e di dolor:
Poi lo cantate al gelido
Origlier della vergine, che sente
L’amaro tedio della vita, e muor.
 

GALOPPO NOTTURNO

 
Ruello, Ruello, divora la via;
Portateci a volo, bufere del ciel.
È presso alla morte la vergine mia;
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
Se a forza di sprone li fianchi t’ho aperti,
Coi lunghi nitriti non dirmi crudel;
Son molte a varcarsi pianure e deserti,
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
Non senti nell’aria che perfido riso?
Non senti che fischi d’orrendo flagel?
L’odor dei sepolti mi soffia nel viso,
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
Ah! questa, ch’io sento, sarebbe la voce
Del coro, che mesto la porta all’avel?
Dio santo!.. che veggo!.. la bara e la croce!..
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
T’arresti, Ruello?… Coraggio e speranza!
Per Dio, vuoi tradirmi, cavallo infedel?..
Laggiù la tempesta ruggendo s’avanza;
Galoppa galoppa galoppa, Ruel.
Galoppa, Ruello; più forte, più forte;
Dio santo, che foco! Dio santo, che gel!..
Ormai sulle ciglia mi pesa la morte:
Galoppa… galoppa… galoppa… Ruel.
E qui cadde orribilmente
Fulminato sul sentiero;
E il cavallo, che non sente
Più lo spron del cavaliero,
E che ha libera la groppa,
Vola vola e non galoppa.
Scossa al vento la criniera,
Va più sempre inferocito.
Animata è l’ombra nera
Da una pesta e da un nitrito,
Egli ha libera la groppa,
Vola vola e non galoppa.
Sbuffa ansante. Il fumo s’alza
Della febbre e del sudore;
Polve e ghiaia in alto sbalza
Sotto i piè del corridore,
Egli ha libera la groppa,
Vola vola e non galoppa.
Dal dirupo alla boscaglia
Cento leghe ha divorato.
Finalmente a una muraglia
Batte i fianchi il disperato…
Sta la morte sulla groppa,
E il caval più non galoppa!..
E frattanto sulle pallide
Scarne guance alla morente,
Che sussurra un dolce nome,
L’agil tinta ricompar;
E levata in sulla coltrice
La persona amabilmente,
Le bellissime sue chiome
Ricomincia a inanellar.
«Madre mia! sì forte l’anima
Tu non sai chi mi riscosse,
Oh! dell’abito più bello
Io mi voglio rivestir!
Questa notte per le tenebre,
Non so dir come ciò fosse,
Ma la pesta di Ruello
M’è sembrato di sentir.
Guarda, o madre, tra quegli alberi
Dove accenna la mia mano!…
Non ti par che un picciol punto
Si avvicini?… Osserva ancor.
Ah!… non vedi quella polvere
Che s’innalza di lontano?…
Non conosci?… È giunto! è giunto!
Madre mia… mi fugge il cor.»
Poveretta! in giro i languidi
Occhi aperse un’altra volta;
Cercò il sole; e uscì di guerra
Nominando il suo fedel.
Poveretta! ai casti talami
Lo aspettava… e fu sepolta.
Oh speranze della terra!
Voi finite in un avel.
 

SOGNI D’AMORE

 
Canto di Rodolfo.
Poiché le stelle, o incognita
Amica, lor più bella,
A visitar ti vengono
Nella magion novella,
Non senti un malinconico
Spirto vagar tra i fiori,
E i suoi notturni amori
Gemer, pensando a te?
Odilo: ei canta. Un esule
Dal ciel son io. Nessuna
Gioia m’allegra. Ai pallidi
Riflessi della luna
Erro solingo; e memore
Che il mio destino è questo,
Vo modulando il mesto
Canto che Dio mi diè.
Oh, potess’io d’un zeffiro
Lene vestir le tempre!
Il molle crin baciandoti,
Con te vivrei pur sempre.
E per terror d’intendere
Qualche crudel richiamo,
Non ti direi che t’amo.
Ma gemerei d’amor.
Fossi una rosa, un umile
Bruno giacinto almeno!
E si affrettasse a portelo
Anche un amante in seno,
Purché suggessi gli atomi
Dei mio romito incenso,
Lieto del dono immenso
Ti languirei sul cor.
Nel dì d’un’agil rondine
Mutassi i giorni miei!
Sempre dall’alba al vespero
Sul tuo balcon sarei,
E respirando l’aere
Della tua dolce stanza,
Di pena e di speranza
Là bramerei morir.
Ma tutto indarno. Un esule
Spinto dal ciel son io,
Che di dolenti musiche
Rivesto il pensier mio.
La ingrata solitudine,
L’ira, il dolor sostenni:
Come nel mondo venni
Dovrò dal mondo uscir.
Ah! se nel grembo a un’isola,
O in un remoto speco
Chi die’ la vita agli angeli
Ti facea nascer meco!
Stati sarien partecipi,
In quelle verdi chiostre,
Delle allegrezze nostre
Il mare immenso e il ciel.
Noi passeggiando il pelago
Lunghesso i fior del lito,
Ebri di gioie insolite
Avremmo sempre udito
Tutto d’amor sorriderci,
D’amor parlarci tutto,
La luna errante, il flutto,
La barca e il venticel.
Quando alle dubbie tenebre
Chiuso tu avessi gli occhi,
T’avrei raccolto, angelica
Donna, su’ miei ginocchi,
Rasciutto avrei le roride
Stille dei tuo sudore,
T’avria battuto il core
Sotto una conscia man.
T’avrei chiamata in lacrime;
E tu, gentil, da tanto
Sonno d’amor svegliandoti,
Terso m’avresti il pianto.
E le tue labbra, indocili
E per pudor tenaci,
Dai prorompenti baci
Sarian fuggite invan.
Terribil Dio, rispondimi;
Perchè a crearmi questi
Vani fantasmi un lucido
Strano poter mi desti?
Ah, le gioconde imagini
Hanno un balen di vita,
E l’anima assopita
Ritorna a lacrimar.
Addio, fanciulla. In tramiti
Contrari il ciel ne pose.
Spine sul mio germoglino:
Sul tuo fioriscan rose.
La gondoletta i placidi
Seni attraversi ancora,
La fulminata prora
Nuoti in balìa del mar.
Addio, fanciulla. Un intimo
Di me pensier ti resti.
Lontani ancor ricordati
Che son fratelli i mesti.
Altri pur sua ti nomini
«Ne’ tuoi felici giorni,
«Purché tu mia ritorni,
Quando il dolor verrà.
Oh! se dispersi fossimo
Anche alle plaghe estreme,
L’orme affrettiamo e i palpiti,
Per ricercarci insieme.
Questa, tremando, è l’ultima
Ch’io t’oso dir parola,
Questo pensier consola
La mia raminga età.
 

IL CALUNNIATORE

 
Sai tu chi sei, che livido
Per tenebrosi studi,
Nel ferraiuol di Satana
Le brutte membra chiudi,
E con lo sguardo d’aspide
Metti ribrezzo al sol?
O dalla bella immagine
Così di Dio scaduto,
Tra i più codardi spiriti
Che placan l’ire a Pluto,
Va. Con la bava e gli aliti
L’aure avvelena e il suol.
Va. Nella dubbia tenebra
La rea caldaia accendi.
Gittavi l’erbe, adunale,
Spremine i sughi orrendi;
E l’infernal tuo farmaco
Distilla, o traditor.
Indi col ghigno e il facile
Motto e l’ambiguo riso,
Spruzza le turpi gocciole
All’innocente in viso,
Che passeran dall’intimo
Sangue mortali al cor.
Giuda! Co’ tuoi satelliti
Tu al fatal orto ascendi,
E accenni; l’incolpabile
Sangue d’un giusto vendi.
Giuda tre volte!… Accelera
Via per la selva il piè;
Cerca tremando un albero,
Poiché perduta hai l’alma,
E da quel tronco spenzoli
La disperata salma,
E la bufera e il turbine
Fremano intorno a te.
E i fiori e gli astri e i placidi
Rivi tramutin tempre
E come trombe squillino
Per maledirti sempre,
Giuda, che avesti i perfidi
Occhi gelati in don,
Non a mirar la florida
Beltà de’ campi, e il velo
Ampio de’ mari, e i liberi
Monti, e l’immenso cielo;
Ma a tossicar le vergini
Gioie, che tue non son.
Giuda! che non a sciogliere
Detti giocondi o mesti,
Non a cantar di gloria
La infame lingua avesti,
Ma tenebrosi e memori
Menzogne a modular;
Che rechi il piè di demone
Pel calle obliquo e muto
Nell’aure sacre a compiere
Opre, ch’io dir rifiuto,
Perchè la terra e l’aere
Non s’abbia a macular.
Senti! Se pena in carcere
Un ladro, un omicida,
So che la fame o l’impeto
Cieco al fallir fu guida,
E un’indulgente lacrima
Forse dal cor, mi vien.
Quando una trista femmina
Dalle native glebe
Reca l’infamia e transita
Fra la ghignante plebe
Che la fa rea del tenero
Bimbo che chiude in sen;
Io chino il capo e medito
Che donna ella pur nacque,
Come colei che in Magdalo
Troppo fu bella e piacque;
E pentimento e venia
Spero all’infausto error.
Qualunque fallo un gemito
Risveglia nel cor mio,
Sento il dolor dei miseri,
Perchè lo impose il Dio
Che visse in mansuetudine,
E comandò l’amor.
Ma te ribaldo e livido
Per tenebrosi studi,
Che nel mantel di Satana
Le brutte membra chiudi,
E con lo sguardo d’aspide
Metti ribrezzo al dì,
Te maledetto artefice
Di filtri all’aer cieco,
Te solamente abbomino,
Te veramente impreco:
E Dio perdoni al cantico
Che nel dolor m’usci.
 

A LUIGIA ABBADIA

 
Cara e gentil penisola
Nel riso dei pianeti,
Nel bacio delle vergini,
Nel canto dei poeti;
Cara e gentil, siccome
Il musical tuo nome
Proferto in ogni barbara
Lingua con dolce suon;
Ama costei, che ogn’intima
Aura di tua favella
Sente, e la fa dall’agili
Corde vibrar più bella;
Ama costei, che tanto
Coglie sorriso e pianto,
Quant’è dall’Etna al Vèsulo,
E te lo reca in don.
Ella vagì tra i liguri
Fior, sotto l’ombre care
De’ cedri. E i malinconici
Venti, le stelle, il mare,
Il turbine, la calma,
Tutto sonò in quell’alma;
E una spontanea musica
Furono i suoi pensier.
Si fe’ narrar le istorie
D’Imelda e di Giulietta.
E, in voluttà fantastiche
Chiusa la giovinetta,
Il doloroso arcano
Pensò del pianto umano,
E in quella facil estasi
Pianse, e conobbe il ver.
Con tutti allora il parvolo
Suo cor tremò diviso.
Ebbe pei mesti un gemito,
Pei fortunati un riso,
E da quel vario moto
Agile, ardente, ignoto,
Come da sacra tenebra,
L’arte, raggiando, uscì.
Così questa ineffabile
Forza, che sente e crea,
Chiude in eterne immagini
La fuggitiva idea;
Ed è vittoria e regno
Dell’ispirato ingegno
Quella parola artefice,
Che al mondo e al ciel rapì.
Ed è parola il gelido
Marmo, la pinta tela;
Questo color, quest’impeto,
Che il mio pensier rivela,
E la canzon d’amore,
Che pria ti nasce in core,
Poi sulle ardenti porpore
Delle tue labbra vien.
Canta, sì, canta; e provoca
Col musical tesoro
Le rigid’alme. Immemore
Di chi l’invôlga, onoro
L’arte del canto unita
Con un pensier di vita,
Come fremea sugli attici
Campi a Tirtèo nel sen.
Italia mia, di martiri
Divino asil, bagnato
Dalle immortali lacrime
Di Dante e di Torquato,
Misera e sacra terra
Piena d’orrenda guerra,
Che die’ retaggio ai popoli
D’ignavia e di dolor.
Su te si volve un secolo
Lieto di molta speme.
Ma nel tuo sen combattono
Avverse forze insieme.
Voleri accesi e lenti,
Coraggi e pentimenti,
Pie le parole, e indomito
L’acre desío dell’or.
Forse un immenso palpito
In questo dubbio mondo
Desterà Dio. Dell’inclite
Acque eridanie in fondo
Fors’è la gemma ascosa,
Che all’indolente sposa
Più glorïosi talami
Desiderar farà.
E tu, fanciulla, indocile
Degli evirati accenti,
Cantar tu possa il cantico
Che aspettano le genti!
E in quell’eccelso agone
Raccoglierai, corone,
Quai non fioriro al libero
Sol della greca età.
 

ULTIME ORE DI TORQUATO TASSO

 
Era la notte d’un morente aprile,
Ben remota da noi, ma con eterne
Lacrime degna che la pianga il mondo.
Sovresso i campi dell’eccelsa Roma
Ridea tutto di stelle il firmamento.
Biancheggiavano in lungo ordine i templi.
Eran l’urne de’ Cesari percosse
Dalla imminente luna. E i sette colli,
Cui si curvò la trïonfata terra,
Come sette giganti eran sepolti
In altissimo sonno. E per l’immenso
Aër nulla s’udia, fuorchè il sonante
Precipitar del Tevere divino.
Dai mordaci dolori e dalle colpe
Han requie nella notte imi e superbi.
Sul suo greppo natal l’aquila posa.
Giace tra i giunchi della siepe il verme.
E con le gigantesche ombre cadenti
Sotto l’interminato arco dei cieli
Dormon tutte le cose. Unica vive,
Custode eterna della razza umana,
La Sventura. E con lei, coronatrice
Degli afflitti, la Morte.
Ahi! verdeggiava
Un bel ramo di lauro in Campidoglio
Per il crin di Torquato; e dai convessi
Padiglioni del ciel questi pianeti
Non fuggiranno, che la illustre chioma
Si stenderà sui miseri guanciali
Dalla man della morte irrigidita.
Oh nuvoletta, che laggiù rispunti
Nell’azzurro occidente, apri e dilata
Pietosamente il grembo, e tanto chiudi
Lume di ciel, che i mesti occhi mortali
Non offenda così! Però che al mondo
Volge un’ora di lutto; e della sua
Più nobil pianta rimarrà diserto
Il giardin della terra.
Eccolo!… Ahi quanto
Da quel di pria diverso! Or non più vita
Cavalleresca e splendida; non alto
Di destrieri nitrito, e pompe e giostre
E baldanze magnanime, e superbe
Glorie di giovinezza. Una parete
Squallida; il raggio d’una dubbia lampa;
Una povera coltre, e pochi intorno
Pii fratelli d’un chiostro. – Ardono i polsi;
Ardon le fibre; e nel consunto aspetto
Lampeggia l’occhio immobile. Non batte
Palpebra; e in vaghe visïon rapito
Par tuttavia l’infermo. E gli s’infiora
Tra le pallide labbra un dolce riso,
Come accenni al disio d’altro elemento
Più dei nostro felice
«Oh quegli schermi
(Supplicò dolcemente il moribondo
La finestra affisando) oh! quegli schermi,
Che mi vietano il bel lume del cielo,
Apritemi, fratelli!… Io veder voglio
Anco una volta le mie dolci stelle,
Compagne agli estri dei passati tempi.
Anco una volta le mie dolci stelle!»
D’un pietoso la man subitamente
Schiuse le imposte. E le sue dolci stelle
Vide Torquato; e per lo scarno volto
Una cocente lacrima gli scese.
«Come soavi brillano!… Che pace,
Nel firmamento!… Che dolcezza ignota
Tutto quanto mi penetra!… Fratelli,
Meco resti un di voi!… Sento una forte
Necessità di favellar con Dio.
Meco resti un di voi.» —
Sommessamente
Si ritrassero gli altri. E il più canuto
D’anni e di senno alla mortal cortina
Taciturno rimase.
Alzò Torquato
La mano a stento, e si segnò. Poi chiuso
Come in lungo pensier parve; nell’alma
Sentì venir le ricordanze; aperse
Le labbra indarno a favellar; sul fronte
Che ardea cacciò la destra… e in disperate
Lagrime ruppe.
– Ve le conta il cielo
Queste lagrime, o Tasso. Or via; conforto
Datevi e pace. Misero i mortali
Vi fecer, sì; ma Iddio v’ha dato un’alma
Libera e grande. —
«Una terribil croce
Ei m’ha dato… e null’altro. Oh mia materna
Casa!… Oh felice oscurità degli anni
Senza gloria vissuti!…»
– Il sacrosanto
Dono di Dio non maledite in queste
Ore, o Torquato. Ei ve lo diede; Ei seppe
Cui dato era un tal dono; e vi ha creduto
Di possederlo degno. Oh vi rimembri
D’Alighieri infelice! —
Arse Torquato
Di vergogna a un tal nome; e si. ristette
Dal penoso lamento.
«È ver!… Codarda
Debolezza mi vince. Oh! ma non era
Così la tempra del mio spirto. I lunghi
Odii, gli sfregi, il carcere, la morte
D’ogni idea più sublime, e il mio settenne
Non udito lamento, ecco i feroci
Percussori del mio misero spirto!
Ah!… Non era così!…»
– Tasso, gli sguardi
In quel svolto affissate: Egli v’insegni
Il calice a votar dei patimenti
Voi sapete Chi fu! —
Giunse la mani
In silenzio il poeta; e con ardente
Confidenza pregò:
«Re dei dolori,
E Dio della fortezza! A un travïato
Spirito infermo che domanda pace,
Perdona omai questo corruccio. In petto
Tu mi ponesti una terribil fiamma:
Ella arder volle: ma da me non venne
Custodita abbastanza; e in lampi d’ira,
E in pensieri d’orgoglio, e in ardimenti
Insensati ella ruppe. Il tuo cammino
D’umiltà, di coraggio e di dolcezza
Io seguitar non valsi; e al cor ne sento
Penitenza amarissima. Sublime
Era il patir tacendo; e vil mi parve;
E non seppi domar la insofferente
Anima; e caddi da quell’alto loco,
Donde forse io potea schiudere al. mondo
Più gran tesori d’armonie, più nova
Luce di carmi, e d’opere gentili
Più mirabile esempio.»
– Ecco, Torquato.
(Il monaco proruppe.) Ecco l’eccelso
Spirito che ti sente e ti confessa,
O Artefice dell’alte intelligenze,
Dio, signor della gloria e della morte.
Ben è questi il cantor della tua santa
Gerusalemme. —
«Si! son io. (Proruppe
Il poeta infiammandosi.) Due lustri
Piansi; due lustri meditai; la mente
Per due lustri m’accese una potenza
Glorïosa, indomabile, divina.
Sognai campi e battaglie, armi ed amori;
Le infernali falangi e le celesti
Mi lampeggiâr nel concitato spirto;
E in quell’ore fantastiche e sublimi
D’abbracciar mi parea secoli e mondi
Non conosciuti… e confidai che un giorno
Qui sulla fronte mia, qui deporrebbe
Italia il premio di tant’anni, il lungo
Desiderio dei vati, il glorïoso
Lauro di Dante. Oh sogni miei! Cadeste,
Come fior, nella polve; e le mie corde,
Non risposer le mie corde infelici
Al pensiero di Dio!…»
– V’inganna il troppo
Delirar della mente, o sventurato,
Nei febbrili tumulti. E non vi è noto
Quanti plausi dall’Alpe all’Appennino
Mandi Italia a Torquato… e come pianga
Però che sa che il conceduto alloro…
Forse… —
«Il mio crin non cingerà. Lo sento
Che al mio letto s’approssima la morte.
Meglio così! Qual dono inaspettato
La ricevo da Dio, che questo peso
D’ira, di tedio e di dolor mi toglie.
Da Dio, che m’apre (i’ n’ho speranza) un loco
Di salvamento a’ miei liberi affetti,
Che l’odio umano incatenò. Fra tanti
Angeli al limitar del paradiso
Un mi sorride e le amorose braccia
In me tende… e mi chiama. Ahi… che vaneggio?
O fratel, proteggetemi. Profano
Pensier di colpa è questo mio!… Non posso
Veramente domarlo! Io ben sospiro
Al cielo, io sì; ma per colei sospiro,
Per colei, che nel mondo ebbe la parte
Di me più viva; per colei che accese
I malinconici estri del mio canto;
Per colei che mi fa dolce la morte.
Ah, senz’essa, per me lume non splende
Di Paradiso!»
– Acquetati, infelice!…
Anche di questo il Dio misericorde
Perdonerà l’anima tua. Fu grande,
Alto l’affetto che ti vinse, ed ella
Fatta è celeste; e la vedrai co’ prodi
Che tu cantasti. —
«Oh mio Tancredi! oh mio
Valoroso Rinaldo! oh mia Clorinda!
Oh Elëonora mia! Vi risaluto
Io vostro un tempo, eternamente io vostro.
Quanti dolori, Elëonora, in quella
Bolgia terrestre! E come piansi in dura
Solitudin rimaso! E che cocente
Disío di rivederti, e d’aver pace!
Sorridi, amica; il tuo Torquato è giunto.
Giunto?… Via quegli sgherri! Oh mi togliete
Dal piè questa catena! Oh questo cencio
Strappatemi! Smovetemi dal fronte
Queste chiome che m’ardono! La mia
Gerusalem rendetemi!… Non voglio
Supplicar. Non ho colpe. Ho spasimato;
Ho lacrimato lacrime di sangue!
Vil, per Dio! quella terra ove si nasce
O deboli, o feroci; ove si debbe
Chiudere gli occhi o martiri, o codardi!» —
Orava il frate perchè requie avesse
Quel tormentato spirito. Rinvenne
Pur finalmente l’infelice; e molto
Affermò di patir.
«Grazie vi rendo
Della vostra pietà!… Mi liberaste
Da terribili aspetti, ond’ebbi l’alma
Sì travagliata!… Quel gentil conforto
Che porgete a chi muor, vi sia renduto
Nell’ora vostra! Io benedico il cielo,
Che qui compio la mia. Qualche momento,
In ver, sperai di sollevar le accese
Membra da queste spine, e bever l’aura
Libera… e il passo per gli aperti campi
Riportar novamente. Oh!… fûr pietose,
Ingannatrici fantasie. Che intensa
Febbre passa qui dentro e mi consuma!…
M’arde Il cerebro! Ho sete!»
Il venerando
Vecchio porgendo il refrigerio all’arse
Labbra del moribondo, e consolato
Veggendolo così per quelle poche
Stille ottenute, ripensò l’orrendo
Spasimo di Colui, che invan le chiese
Sulla rupe del Golgota.
«Fratello!…
Ch’io vi stringa la man. Riconoscente
Ha l’anima Torquato. Ha, se non altro,
Questa ricchezza. E d’una grazia ancora
Dato mi sia di supplicarvi. Un giorno,
Se mai da questi solitari chiostri
Voi moverete a visitar tant’altre
Città d’Italia, e vi verran negli occhi
Le dolci rive della mia Sorrento…
Salutate quell’aure. Indi cogliete,
Cogliete, in nome mio, da quelle sponde
Pochi fior dolorosi; e con gentile
Reverenza versateli, in mio nome,
Sul materno sepolcro! Indi alla dolce
Sorella mia raccomandate pace
Nell’infortunio. E ditele che questo
Dolor della mia morte ella riceva
Da quella man, che tutto dona e toglie,
E sa perchè.»
– Queste parole vostre,
Questi pii desiderii obbligo sacro
Per me saranno. —
«E ven ricambi il cielo
D’ampia mercede!… E ancor di questo io voglio
Supplicarvi. Se mai vi si conceda
Di veder l’Eridàno, e la superba
Città d’Alfonso… la fatal Ferrara…
Colà vedrete il carcere nefando
Ov’io giacqui tant’anni; e i maledetti
Ferri, e le turpi vesti onde coperto
Venni. Vedrete; e piangerete, io spero,
Ricordando l’amico a cui si volle
Toglier persino l’intelletto, il dono
Sacrosanto di Dio. Però, non sento
Odio o rancor per essi. Il mio perdono
Ampiamente recate! E così possa
L’età ventura perdonar… nè avanti
Al suo giudicio, come suol, dall’urne
Trarre i sepolti!… Perocchè Torquato,
In quell’ora remota, assai più grande
Sarà dei prenci.» —
Lampeggiaron gli occhi
Del poeta, e si tacque. – Indi, più sempre
Si fèr pallidi i labbri; e una divina
Aura spirògli nell’aperta fronte,
Che da un alto pensier parve occupata.
Era una fantasia dolce e potente,
Che per l’ultima volta il sospingea
Pietosamente a delirar.
Sorrise
Non umil troppo, nè superbo il vate,
Ma pien di nobiltà gli occhi e l’aspetto.
Indi, siccome il commovesse un alto
Rapimento di gioia, ei bello apparve
Fuor del costume di mortal persona,
E sui cubiti ergendosi:
«Vi sento,
Aure del Campidoglio! (egli proruppe)
Come è dolce spirarvi in questa altezza!…
Come rapido ascesi!… Io vi contemplo,
Divine onde del Tebro!… Oh! che diffusa
Moltitudine intorno! È del mio nome
Che la città dei sette colli esulta!…
Son per me questi canti!… Anch’io mi posso
Del mio trionfo inebriar!… Quel lauro
Datemi!… È mio!… Non è potenza in terra
Che rapirmelo possa!»
Brancolando
Pel vuoto aêr stese la man. Gli parve
Di possederlo. Lo baciò. Sul fronte
Se lo depose. —
Addio, Torquato. Il tuo
Secol ti piange e avrà lacrime e canti
Per te sempre la Terra.
Dai convessi
Padiglioni del cielo ivan fuggendo
Le bianche stelle; e quella illustre chioma.
Nereggiando scendea sull’origliero
Dalla man della Morte irrigidita.
 
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Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
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