Kitabı oku: «Poesie scelte», sayfa 7
CONTRASTO
(Canto di Rodolfo)
Io di due femmine
Schiavo son fatto,
D’occhi fantastiche,
Brune di crin:
In così misera
Forma è distratto
Questo dell’anima
Senso divin.
Ma in me la candida
Fede non langue,
Chè ad esse io prodigo
Diverso amor:
Ad una i fremiti
Del caldo sangue,
All’altra i palpiti
Del mesto cor.
Se una, com’edera,
A me s’implica,
Sull’altra un nuvolo
Veggio cader;
Se rido e lacrimo
Coll’altra amica,
La prima involasi
Dal mio pensier.
Io così m’agito
Fra due diviso,
Or piuma all’aëre,
Or pietra al suol:
Una mi provoca
L’ore del riso,
L’altra mi genera
Quelle del duol.
Quando una candida
Nuvola lieve
Sfiora le cerule
Vôlte del ciel,
Penso a quell’angelo,
Che un vel di neve
Porta sull’agile
Suo corpicel.
Ma quando un subito
Baglior celeste
Di fiamme il vespero
Tingendo va,
Penso alla fervida
Fata, che veste
Di fosche porpore
La sua beltà.
D’una mi parlano
Gli astri lucenti,
Le aurette celeri
Men del suo piè;
Dell’altra il lugubre
Fischio dei venti,
Le selve e i turbini
Parlano a me.
Così quest’anime
D’opposte tempre
Di gaudio o collera
Muse a me son;
E in me coll’italo
Canto pur sempre
Suona la nordica
Buia canzon.
Ma quando spasimi,
Con varia vice,
Nelle delizie
Del doppio amor,
Su via, rispondimi:
Sei tu felice,
Felice, o povero
Svïato cor?
Dio! che terribile
Smania ti frange,
Se il grido elevasi
De’ tuoi pensier!
Dio! di che lacrime
Fra noi si piange
Nella inamabile
Ora del ver!
Ma non ti parvero,
Con rossor molto,
Di ferro i vincoli
Più che di fior?
E perchè, improvido,
Non dare ascolto
Ai fieri gemiti
Del tuo rossor?
Spesso da torbida
Malinconia
Mi sento rodere
L’intimo sen;
E allora il calice,
Sì dolce pria,
Di amari aconiti
Mi sembra pien.
Ah! il solitario
Ben degli affetti
Sparge di balsamo
Questi egri dì;
Perchè col tossico
Di rei diletti
La mente e l’anima
Tradir così!
Ma quelle d’ebano
Funeste chiome
Mi stan com’aspide
Rattorte al piè;
E invan le misere
Potenze dome
Gridano al suddito
Che torni re.
Oh caccie! oh vertici
Montani! oh clivi!
Oh ingenuo vivere
Che dileguò!
Oh selve! oh memori
Campi nativi,
Quando quest’anima
Voi soli amò!
Dai tetri fascini
Per liberarmi
Stendo alla docile
Arte la man;
E come un profugo,
Cantando carmi,
Dai patri margini
Mi svio lontan.
E il mio fulmineo
Corsier galoppa,
Nuove mostrandomi
Ville e città;
Ma dell’inutile
Corsiero in groppa
Sempre il mio demone
Seduto sta.
Talor negl’impeti,
Rotta la briglia,
Le membra insanguino
Sul duro suol;
Ma il bieco spirito
Di là mi piglia,
E per la tenebra
Mi porta a vol.
Pari a quel nomade
Giudeo fuggente,
Che sol coi secoli
S’arresterà,
Forse il mio demone,
Forza inclemente,
Vuol ch’io precipiti
D’età in età.
Signor, che debole
Così m’hai fatto,
Di me sovvengati,
Dolce Signor;
Pensa alla gloria
Del tuo riscatto,
La mente solvimi
Da tanti error.
Per sabbie inospiti
Cieco e malvivo,
Lunga mi stempera
Sete crudel.
Deh! scopri il murmure
D’un picciol rivo
A questo esanime
Novo Ismael.
Signor, le nebule
Da me disgombra,
E col tuo cantico
Ti canterò,
Sinchè dei salici
Paterni all’ombra,
Tranquillo e libero
Morir potrò.
ALLA SANTITÀ DI PIO IX
Guardia dei santi oracoli,
Re del più nobil soglio,
Posto a seder dai secoli
Sull’angolar tuo scoglio,
Del superato inferno
Visibil segno eterno,
Propagator dei Golgota
Per quanti ha lidi il mar;
Uno tra quei che pregano
Nella magion di Dio,
Padre a: tutti i popoli,
Un de’ tuoi figli anch’io,
Pei crismi e per la fede
Giustificato erede,
Poste le man sui codici
Del tuo perpetuo altar;
Confesso il Dio che predichi
Dal duro Trace al Moro,
Credo alle sue vittorie,
I suoi potenti adoro;
Soavemente doma
Dalla ragion di Roma,
Figlia de suoi segnacoli
La mia ragion si fa.
E reverente e supplice
Della tua gloria al trono,
Chieggo le fresche e vivide
Acque del tuo perdono.
Ribenedici il figlio,
Che dall’incerto esiglio
Torna alle fonti e ai margini
Della immortal città.
Quel mite Iddio, che l’umile
Cor dei credenti affida,
Nell’incorrotto e mistico
Tempio, che è tuo, mi guida:
Ma con un’altra speme
Che favellar non teme,
Padre di quei che piangono,
Io m’inginocchio a te.
V’è tra te genti un’Inclita
D’ogni miseria al fondo,
Le cui frementi lacrime
Toccan d’affanno il mondo;
Porta di gemme e spine
Un duro fregio al crine,
E sul regal suo lastrico
Trae catenata il piè!
Madre di tanti martiri,
Nido di tanti eroi,
Casa dei gran Pontefici
Data per patria a noi,
Su tutti i campi e i mari
Fe’ balenar gli acciari,
Croce e parola al barbaro
Figlia di Dio portò.
Ma Dio che versa il giubilo
In chi da lui s’appella,
Con egual destra il calice
Versò dell’ira; ed Ella
Dove l’acciar portava
Sentì ’l cordon di schiava,
Usa a vestir le porpore
Carca di cenci andò.
Così, dannata a scendere
Coi barbari mariti,
Giacque tremante adultera
Sui talami abortiti;
E ier piangea peranco
Stesa sull’egro fianco,
Rimemorando i floridi
Tempi che Dio le diè,
Quando sui vasti oceani
Fe’ navigar le prore,
E all’orba Terra inospita
Rese la mente e il core,
Rese le tele e i marmi,
Gl’inni, le leggi e l’armi
Confederata ed arbitra
D’una legion di re.
Ahi, nell’amaro incorrere
Delle memorie, il cielo
Guatò fremendo e al pallido
Viso fe’ il pianto un velo!
Ma nella Donna, offesa,
Qual nova forza è scesa?…
Dal Tebro insuperabile
Che novo grido uscì?…
Sui quattro fiumi ei valica,
Dai quattro venti suona;
L’ode ogni lingua; inchinasi
Ogni europea corona;
Dall’afre selve ai poli,
Dove ha pur Dio figliuoli,
Quel nuovo grido inaugura
Più benedetti dì.
Pio, ti nomasti. E il memore
Pallio regal s’è messa
La eterna primogenita
Del tuo gran tempio anch’essa:
Sulla disparsa prole
Oggi è risorto il sole,
Oggi il promesso arcangelo
Dato è all’Italia in cor.
Pio, che la casa incardini
Dove ruggiano i flutti,
Nave del mondo ed ancora
Della speranza a tutti
Il cor deh! poni in Questa,
Che i tuoi sigilli attesta:
Pensa ch’è il fior più splendido
Degli orti del Signor.
Da lei Tu nato, e principe
Vero, tu regni in lei,
L’opre tue sante annunciano
Chi ti mandò, chi sei.
Dove fremea lo sdegno
L’augusta pace ha regno,
Cantan letizia i pargoli
Col mite ulivo al crin.
Padre, più assai che giudice
Pensando a Cui somigli,
Sceso il perdon sugli esuli
Tu li nomasti figli:
Dal Tevere alle genti
Getti le strade ardenti,
Perchè più presto arrivino
Nel tuo gran tempio alfin.
Ma tu, che all’ira, e all’odio
Mite pastor fai guerra,
Che annodi i prenci ai sudditi,
Sappi che in questa terra,
Nella fedel tua vigna,
Un seme d’odio alligna,
Che la contrista e macera,
Ma ch’estirpar non può.
Padre, ella piange, o supplica
Le tue ginocchia sante:
Tu che possiedi i folgori
Della parola amante,
Che col segnal che porti
Puoi favellar coi forti
Nel nome o nella imagine
Del Dio che ti mandò;
Pensa che questa Vittima,
Tesor della tua Chiesa,
Snidò l’infausto pungolo
Che l’ha tant’anni offesa;
Pace del lungo scempio,
Pace ella chiede al tempio.
Stringere i brandi abbomina
Non benedetti in ciel.
Padre, chi sangue semina
Messe di sangue coglie.
Pace vogliam. Presentati
Sulle tue sacre soglie;
E al possessor straniero,
Che ha già sì largo impero,
Prega che cetre e Solima
Ridoni ad Israel.
Pensa che un altro apostolo
De’ fregi tuoi s’è cinto,
Servi tra i servi; e il barbaro
Flagel di Dio fu vinto.
Di quel Lione eletto
Tanto fra noi s’è detto;
E ne diranno i posteri,
Fin ch’abbia lume il sol.
Prostrato sui vestiboli
Della tua casa o Santo,
Come il sentii con l’anima
Posi alle labbra il canto:
Ma s’io dicendo errai,
Opra tu sol, che sai,
Più della rea mia polvere,
Quel che da Dio si vuol.
A CARLO ALBERTO
CARLO, che sotto ai liberi
Venti dell’Alpe antica,
Le arcane sorti armarono
Di scettro e di lorica,
Pei crismi e per le vivide
Fontane della fede
Fatto di Cristo erede,
Figlio d’Italia e re;
Quando cavalchi intrepido
Per le tue file ardenti,
Dimmi: l’assalto all’anima
D’un gran desio non senti?
E il breve suol che scalpiti,
L’aura natal che spiri,
L’arco di ciel che miri
Non è minor di te?
Oltre il Ticin, due popoli
Posti a fatal tributo,
Che s’han, nell’ozio, il calice
D’ogni dolor bevuto,
Ei, che una volta spinsero
Fra suon di tube e lampi
Uno i destrieri ai campi,
L’altro le tolde al mar:
A ogni romor che elevisi
Sulla regal tua via,
L’avide orecchie intendono
Per ascoltar che sia:
«Fossero mai le vindici
Ugne de’ suoi cavalli?
Fosser le tende e i valli,
L’aste e i percossi acciar?»
Poi se nell’aura immobile
Quel suon si perde e muore,
Non sa ristarsi il pungolo
Del generoso errore;
Speran che s’oggi un facile
Varco è al desio mancato,
Saprà domani il fato
Un altro varco aprir.
Côlti così due profughi
Per boschi incerti e neri
Dalla crescente tenebra,
Fanno e rifan sentieri;
Chè un’acre infaticabile
Speranza li conduce,
Sin che vedran la luce
Dai patrii tetti uscir.
Ah! se a costor che il chieggono
D’un tuo pensier fai dono,
CARLO, mio re, due splendide
Gemme tu innesti al trono:
Dio degli eventi è l’arbitro,
Ma sul regal tuo fiume
Tu le frementi piume
Tien preparate al vol.
Odi a quell’Alpe! Il barbaro
Eco de’ brandi e i passi
Suonano ancor sul vertice
Di quegli eterni sassi:
Di là son giunte, o principi,
Le avare torme estrane
Per assaggiar che pane
Fioria sul vostro suol.
E l’assaggiaro! e dissero:
«Prenci, la terra è nostra:
Bene avrà scettro e porpora
Ognun che a noi si prostra;
Ma saran nostri i codici,
Nostre le messi e i brandi,
Farvi tapini o grandi
In nostra forza è già!»
E voi taceste. E despota
Sin dalla trista aurora
V’è la fatal progenie
Sulla cervice ancora.
Ma ognun di voi consolasi
Almen, tenendo un regno;
E il vecchio giogo indegno
Su noi gementi sta.
CARLO, se è ver che l’itale
Ire nel cor tu covi,
Se con l’antica ingiuria
Senti gl’insulti nuovi,
Se quel desio, che t’agita
Fiero e gentil, non langue,
Se de’ tuoi padri al sangue
Degna ragion vuoi far;
Co’ mille tuoi presentati
Alle lombarde prode;
Vieni a snidar quest’aquila
Che il senno e il cor ci rode;
E non temer che al folgore
Della regal tua spada
S’abbia d’ostil rugiada
Italia a imporporar.
Spaventa i consapevoli
De’ brandi tuoi la possa:
San la occupata Ausonia
Per qual bandiera è mossa;
Pende la spada a tedio
Dai femori alemanni,
La ruggine degli anni
Il fil ne consumò.
Pria che pugnar, da un provido
Alto terror disfatti,
Ei scenderanno a chiederti
La pia ragion dei patti;
Allor tu sai, magnanimo,
Alla sant’opra accinto,
Quali abbia dritti il vinto
Che al vincitor pregò.
Sai che un’illustre vergine
Del sangue lorenese
Con umil gioia al talamo
D’un de’ tuoi figli ascese:
Da una gentil vittoria
Il grande augurio prendi,
Tu ch’ogni altezza intendi
Di prence e di guerrier:
Alza la mano al Brennero
Che qua tant’odii ha scarchi,
Grave intimando all’ospite,
Che in pace lo rivarchi;
Indi a sperar confortalo,
Che Dio, cui toglie un trono,
Forse più largo dono
Serba nel suo pensier.
E se nel cor gli penetra
Quel facil detto umano,
Onora il vinto e stringigli,
Qual debbe un pio, la mano;
Ma s’ei ti porta indocili
Ire e querele intorno,
Digli che questo il giorno
Del lamentar non è:
Digli ch’ei tolse un inclito
Serto alla sacra chioma
D’Italia, e in cambio barbaro
Le diè catena e soma;
Digli che a lui toccarono
Le gioie, ad essa i lutti;
E che il Signor di tutti
Due leggi all’uom non fe’.
Tenacemente memori
Dei lieti e persi luoghi,
Rivarcheran le teutone
Schiere torrenti e gioghi;
Pur affrettando i torbidi
Passi dell’ira oh quanto!
Per non udir quel canto,
Che a CARLO echeggerà.
Sarà canzon di vergini,
Inni di pii soldati,
Fragor di trombe e d’organi,
Sacra armonia di vati:
Vedrà l’Italia assurgere
Dopo la gran vittoria
Un nuovo sol di gloria
Sopra le sue città.
Rinati i cor, gli spiriti,
Liberi i campi e i mari,
Stretti in amor coi nobili
Troni saran gli altari;
E questa umil Penisola
Posta dei mali in fondo,
Farà temuta al mondo
La sua bandiera ancor.
Di conculcato palmite
Resa mirabil pianta,
Braccio de’ suoi pontefici,
Sarà guerriera e santa.
CARLO! per te dai secoli
Fatta è la via che vedi;
Credi una volta, oh credi
Nel tuo possente cor!
ARMI! ARMI!
Popoli! La speranza anco ci splende
Con allato il trionfo e l’avvenir,
Armi in subita furia, or che le tende
Scellerate atterrò l’ungaro ardir.
Armi! Chè in sen della lombarda terra
Torna il cupo vulcano a rimugghiar
Principi, a voi. La benedetta guerra
Riscota l’Alpe e risollevi il mar.
Su le bandiere. Chi un’Italia brama
Scordi il dissidio delle sue città.
Intento è il mondo sulla nostra fama.
Quest’è un’ora di gloria o di viltà.
Svegliati, Alberto. Alzatevi, per Dio,
Popoli tutti della nostra fè.
So dal sonno ti desti. alma di Pio,
La cattolica Italia è ancor con te!
Di Goito e Curtaton sacri soldati,
Ricingete la spada. Eccovi il dì.
Sento i destrier della battaglia. Irati
Tuonano i venti. La vittoria è qui.
Volve il Danubio furibondi i flutti,
Scintillano per voi l’Adige e il Po;
Voi questo giorno l’attendeste tutti,
E per tutti il Signor ve lo creò.
Nella città, del maledetto impero
Il Tumulto e la Morte ospiti stan:
Chi non torna a gridar: Via lo Straniero,
Stringe nell’ombra allo stranier la man.
Siepe feroce di fraterne spade
Chiuda la spaventata oste infedel.
E l’orbe madri delle pie contrade,
Svestan la chioma del funereo vel.
Qua convengano i vecchi e i sacerdoti
I drappelli furenti a benedir,
E sui vessilli caramente noti
Scrivan le donne: Vincere o morir!
Vincere. È questa la parola, o forti,
Che v’è tuonata dall’ausonio suol,
Perchè sott’esso è una legion di morti.
Che invendicata riposar non vuol.
Armi! V’è chiesta una battaglia ancora.
Armi freman le piazze, armi gli altar.
Chi crede a un brando, chi una croce adora,
Chi una patria desia, scenda a pugnar.
Mandi ogni monte un fremito. Ogni villa
Faccia il suo bronzo all’altre ville udir.
Popoli, in arme, dal Cenisio a Scilla!
Non lasciam la seconda ora svanir.
È infido il tempo, o Principi. Nè possa
D’uom lo ripiglia quando in fuga egli è.
Principi! Italia che di sangue è rossa,
Può chieder conto a chi versar gliel fe’.
E guai se indarno e’ fu versato. Ahi, tetra
Veggio un’imago dei futuri dì,
Se il vostro passo, o paürosi, indietra
Dai sacri campi che li Signor v’aprì.
Regie fughe, man ladre, anime oscene
Veggio, orrendi fantasimi. Non più
Viver civil; non queta ora di bene:
E, ultim’ira di Dio, la servitù.
Quindi tolta la fè; spento l’amore;
Velati a bruno la giustizia e il ver.
Notte rea di spavento e di furore…
Questo, questo mi varca entro al pensier.
Come a mendichi mal sofferti, il pane
Ci fia gittato; poi l’insulto vil;
Poi la verga; l’esilio; e le lontane
Carceri; e il palco, per mondar l’ovil.
E dirà il mondo: «Neghittosi e ignavi!
Non han saputo esser concordi un dì.
Ponghiam le spade; e non curiam gli schiavi!»
T’allegra, Italia. Parleran così.
Deh! non sia ver che la terribil voce,
Come foco di Dio, piombi su te:
Tu che aduni nel brando e nella croce
Sofi, vati, guerrier, popoli, e re.
Armi, o prenci d’Italia, anco una volta,
Armi, o leoni del sabaudo sir.
O Italia grande, o parricida e stolta.
Eleggere v’è d’uopo. Armi, o perir.
Maladetto colui che non oblia
Torti patiti, o chi li torna a far.
Maladetto chi vanta, o chi per via
Mena il sospetto e il cicalio volgar.
Tra l’aule e i fôri, tra i sepolcri e l’are
Tuoni un sol grido italico e guerrier;
«NOSTRA È LA TERRA DALLE REZIE AL MARE!
VIA LO STRANIER, PERDIO, VIA LO STRANIER!»
Armi!! E la stirpe che’ verrà. da noi
Possa aver detto a chi da lei verrà:
Giacque l’Italia per tre giorni; e poi,
Come Cristo, è risorta a libertà.
DOLORI E GIUSTIZIE
Elegia
Emilio mio,
Ti scrivo col tramonto del sole; quando l’anima torna per dolce istinto di una sua tristezza dagli oggetti del mondo nella sua intima vita. Di me dunque ti parlo: e, non so perchè, ma una voce misteriosa mi dice di consegnarti questa pagina, come si consegna il rotolo al mare nell’ora del naufragio.
Come son fatto, tu il sai: impetuoso, malinconico, bizzarro; ma schietto e buono. Sai che mia suprema ricchezza è il mio canto; e ch’io riposo nella benevolenza di pochi, come in asilo più sicuro dalle tiepidezze e dai mutamenti umani. Non son poverissimo, nè infelicissimo, perché ho modesti desiderî e coscienza pura. Pellegrinando passo di terra in terra: e raccolgo le esperienze degli uomini e delle cose; esperienze che quasi sempre si conchiusero per me con un segnalato dolore. Non mi lagno però: alcuni uomini somigliano alle pietruzze poste in riva all’Oceano: le fascia il sole un momento, e poi son travolte dai cavalloni del turbine. Chi sa se torneranno più al lido, e se di nuovo il sole le fascierà? Per me lieve preoccupazione è cotesta. Credo saldamente in Dio; adoro la verità; aspetto il regno della giustizia; parlo con la consapevole natura; e penso e vivo poetando. Fieramente assetato di libertà, giocai a quel gioco nei dì del pericolo: e per il profondo amore di essa non mi duole di aver patito; o dirò meglio, mi duole di non aver patito di più. Ma certe superlative novità mi conturbano, e non le comprendo. Ciò vuol dire che la mia giovinezza è passata. Nella guerra italiana mi eccitò una profonda e riverente simpatia Carlo Alberto, magnanimo ed infelice: mi parve un re cavalleresco della grandezza antica: e lo cantai come si canta la virtù, la lealtà e la sventura. Ciò spiacque ad uomini di partito; anime tormentate dalla diffidenza, dalla superbia e, dall’odio; e mi guardarono con sospetti degni di loro. Contento del mio cammino, non mi son cacciato sulla via delle volgari ambizioni. Il poeta non può averne che una sola ed insigne; quella di vivere concittadino dei posteri. Se ciò gli è conteso, canti e si spenga come il rosignolo sulla frasca del suo boschetto natale. Non amico di tumulti e rabbie di popolo, credetti sempre italiana virtù il condannarli. Quando la parola del coraggio mi parve più debito che ostentazione, parlai senza paura; quando il silenzio mi fu consigliato da sdegnoso pudore, tacqui senza viltà. Questo bel regno della concorde Italia era la mia fede e il mio voto; fede e voto veramente degni della persecuzione d’uomini nati in Italia! Quando parlai del Piemonte, come della gente più forte e virtuosa della penisola, e ne parlai con quell’omaggio che inspira la grandezza de’ sacrificii, parecchi dottori pubblicani e farisei del mondo politico, mi ghignarono intorno; nè il lutto delle madri e il sangue dei martiri valse a impor loro, non dirò il debito dell’ammirazione, come a giusti fratelli, ma neppure la dignità del silenzio, come ad emuli offesi. Oh astiosi e superbi; quanti mali infliggete alla patria, e quante piccole atrocità consumate contro chi vi è spina e martello! L’uomo schietto tra voi è l’uomo importuno. Io mi onoro di esservi importunissimo. Non repubblicano in Venezia repubblicana, ebbi il carcere; non democratico in Firenze democratica, ebbi l’esilio. Quell’idea di repubblica era in Venezia un error di buon senso e una colpa d’ingratitudine: larva di democrazia era in Firenze un assurdo di fatto e una cagione di scandalo. Combattei l’una e l’altra, come valsi, col diritto del mio libero pensiero; e mi risposero di tal mercede quei repubblicani santi e democratici puri, che ne avrebbe arrossito il più impudico sgherro imperiale. Ma l’uom fa le ingiurie e il tempo le vendica. Io però benedico ed amo Venezia che persiste, generosa Termopili, contro al barbaro; ringrazio ed amo Firenze che fece italianamente suo l’oltraggio a me fatto. Gli uomini che governano queste due nobilissime città passeranno come l’ombra. Lasciamoli passare. Troppo gravi cose maturano nelle convulsioni del mondo, per insistere sui ricordi d’un proprio dolore, o d’un’altrui vergogna. Emilio mio, amari giorni corrono agli onesti che tacciono per sdegno, e agli sdegnosi che parlano per onestà. Con audacie dolorose si contamina tutto. Si grida fede, libertà, popolo, patria; e poi alla fede si vela l’altare, alla libertà si toglie il pudore, al popolo s’insegna il tumulto, alla patria si ribadiscono le catene. Se andasse perduta la fiducia nell’Onnipotente, che resterebbe oggi agli uomini? Addio; sovvengati dell’amico tuo, che recherà nel sepolcro i canti, il volto e la coscienza immutabili. E tu sta più solo che puoi. Oggi la solitudine è dignità di sè stessi.
Firenze, 21 dicembre 1848.
DOLORI E GIUSTIZIE
Dunque sui sacri margini .
Velati dalla bruna
Ombra dell’Alpe, il languido
Mio capo adagerò,
Svegliando ai consapevoli
Silenzii della luna
Di melodie fantastiche
L’onda regal del Po?
Grazie a’ miei fati. Un intimo
Desio, come d’amante,
Di voi pur sempre, o memori
Plaghe, mi punse il cor;
Tornerò dunque a premervi,
Piagge dilette e sante,
Che un dì sull’orme al profugo
Lauri cresceste e fior.
Come la bruna rondine,
Fida del mar veliera,
Drizza pur sempre al cognito
Trave l’affetto, e il vol;
Io vi drizzai la trepida
Piuma del cor leggiera,
Più che alle stelle e ai zeffiri
Dei mio materno suol.
Chè voi mi amaste: e un gelido
Cor non amaste. O giorni
Miei desolati! oh vedove
Notti del mio pensier!
Oh ingrate veglie! oh inutile
Sogno de’ miei ritorni!
In che nefandi calici
Dio mi costrinse a ber!
Le fresche aurore, i limpidi
Miei vespri alla collina,
L’eco de’ corni e il fervido
Moto de’ veltri al pian,
Gli antri, le coste, i floridi
Boschetti e la marina
Sul mesto cor dell’esule
Versâr lusinghe invan.
Sin di due trecce il morbido
Nerissimo volume,
E il canto, per la tenebra
Ignea colonna a me,
Mai più rifar non seppero
Agli estri miei le piume,
Dacché il poeta, o libere
Alpi, l’addio vi die’.
Oh, quante volte, un arido
Crespo mirando, un fiore,
Sveglie bizzarre al cupido
Latente sovvenir,
Di procellosi palpiti
Sentii balzarmi il core,
E il pronto viso in porpora
Mutarsi e tramortir!
Oh, quante volte, armigero
Nido di prodi antico,
Di te parlando, un gemito
L’anima mia levò,
Siccome avvien nei facili
Momenti, che all’amico,
Si vuol narrar d’un misero
Nodo che Dio spezzò!
Con sì fiero tormento io t’amai;
E negli occhi dell’esule, oh credi,
La letizia non venne più mai!
Solitario nell’erme mie sedi,
Non curando la infida ventura,
Ai pensosi silenzii mi diedi!
E là presso alla pia sepoltura,
Che raccoglie il mio dolce parente,
Lacrimai colla mesta natura!
Ma pur sempre dal petto fremente
Misi un grido sul molto e nefando
Cimiterio dell’itala gente.
E il ben vigile sgherro esecrando
Per quel grido mi ordì la catena,
Poi le tetre miserie del bando.
Ti ringrazio, o mia gloria e mia pena,
Fedel musa, che meco hai diviso
Gli ardui giorni, costante e serena;
Ti ringrazio, chè il mesto mio viso
Più ti valse dell’intima acuta
Ricordanza del tuo paradiso.
Ahi! la fede dell’uom si tramuta,
Non la tua; così splendida e forte
Come l’ora in ch’io t’ho conosciuta!
Dolce amica, alle pallide e corte
Mie giornate, te sola vogl’io,
Dolce amica, al mio letto di morte.
Ché in te sola del nido natio
Più m’accese l’indomito affetto,
Chè in te sola conobbi più Dio.
Ahimè! d’odio rigurgita il petto
De’ mortali, e l’un verme si scaglia
Sovra l’altro a rapirsi il banchetto!
No, mia musa. È una giusta battaglia
Quella ch’odi sul sacro Ticino:
Ben fu cinto ogni brando, ogni maglia .
Là si pugna pel nostro destino,
Là son vòlti dell’Alpe i leoni
Nelle reni all’estranio Caino.
E tu pensa le grandi canzoni,
Musa mia, quando l’aquila infame
Fia respinta nei patrii burroni.
E coperta di barbaro ossame
Splenda Italia, e a quel pasto s’allegri
Delle cagne notturne la fame.
Oh speranza!… Ondeggiavano i negri
Battaglioni, fremevan le squille,
Ruggìa l’ira nel polso degli egri,
Era un rombo di campi e di ville,
Dardeggiavan di guerra sin’anco
Le pensose virginee pupille;
Di purpureo, di verde e di bianco
Colorata era l’aria d’intorno,
Luccicava d’un ferro ogni fianco.
Oh speranza! fior breve d’un giorno!
Tu cadesti coll’ombra… e rimase
Di percossi un funereo soggiorno.
Quanto lutto di vedove case!
Quante mense deserte di figli!
Quante piagge di tenebra invase!
Che tumulto di fughe e d’esigli!
Segno d’odio è re Carlo frattanto.
Io cantato lo avea nei perigli…
E pei tristi fu colpa il mio canto!
Arca di sette popoli,
Re de’ sabaudi e mio,
Chi ti contrista, o martire,
Sfregia l’Italia e Dio.
Ma tu, mio re, consolati,
Ch’ebra o demente voce
La savoiarda croce
Contaminar non può.
Io ti cantai. Sacrileghe
Mani scagliâr la pietra
Sulla raminga e povera,
Ma liberal, mia cetra;
E fèr sinedrio, e dissero
Le iene del deserto
Che il fulgid’òr d’Alberto
I canti miei comprò!
Vili! dannate il perfido
Labbro a sigillo eterno.
Me la latrata ingiuria
Fa sogghignar di scherno.
Vili! le meste pagine
Rigo de’ miei sudori,
Ma non ha gemme ed ori
Per comperarle un re!
Che se dall’umil polvere,
Dove obbliato io sono,
Più il capitan che il principe
Canto e l’acciar che il trono;
Se incito i forti a sperdere
Degli Amorrei le tende,
Chi la mia cetra offende
Quanto è minor di me!
Sì, ti cantai, magnanimo
D’Italia mia soldato,
Caro al Signor, di splendidi
Dolori incoronato!
Là ti cantai sul veneto
Mar, che tu re guardavi;
E, premio al canto, i savi
Le carceri m’aprir.
Mastri in foggiar repubbliche,
Non certo a voi m’atterro.
Amo il furor di Spartaco;
Odio de’ Gracchi il ferro:
Piango al destin di Cesare,
Qual di leon caduto,
E del pugnal di Bruto
M’è orrendo il sovvenir.
Ribalenò sul memore
Tebro quell’arme ancora…
Ma che nefanda tenebra
Dopo la bieca aurora!
Più Samuel non vigila
Di Solima alle porte;
E un bruno vel di morte
Copre di Dio l’altar.
Pietà, Signor! Terribili
Son questi giorni al mondo!
Vasto è l’abisso; e Satana
Ride dall’empio fondo:
E consegnato ai turbini
Quell’esecrabil riso,
La terra e il paradiso
S’avventa a separar.
De’ miei fratelli o fêretri,
Quanto v’invidia il core!
Bella è la morte a vespero
Quando col sol si muore
Colà sui campi! Il bambolo
Oggi a dolor si vesta;
E coronata a festa
Sia la caduca età.
Meglio morir che incedere
Su maladetta arena,
Dietro recando il sonito
Della servil catena!
Liberi no, ma despoti
Veggio dovunque e sento;
E chi un ne abborre, a cento
Come obbedir potrà?
Meglio recar nei gelidi
Regni dell’ombra i lumi
Stanchi ed offesi. O picciolo
Ma pur divin tra i fiumi,
Che a questa bella Italia
Crescon le rose indarno,
Oh insuperabil Arno,
Sulle cui rive un dì
Trasse Alighier dall’ispide
Guance il dolor più vero,
E poi dall’arco i numeri
Dell’immortal pensiero,
Tu pur sei tetro! e il margine
Però di fiori hai cinto.
La bara dell’estinto
Sparsa è di fior così.
È parricida l’alito
Dei vïolenti, il credi,
Fiume gentil. Nè all’umide
Or più vagar mi vedi
Stelle nascenti, o attendere
Cogli occhi inebrïati
Gli splendidi e rosati
Tramonti del tuo ciel.
Nè mi vedrai. La libera
Mia verità dispiacque.
Meglio fidar le subite
Ire alle nubi e all’acque,
Meglio che all’uom. Difficile
Pei coraggiosi è il giorno
Che ruota il pazzo intorno
La daga od il fiagel.
Savi tu cerchi, o misera
Italia mia; nè trovi
Che rotte plebi, e cupide
Rabbie, e tumulti nuovi:
E in cenci da postribolo,
Tra fescennine mazze,
Tratta per l’ebbre piazze
La casta libertà.
Oh! di cocenti lacrime
Righiam sommessi il ciglio,
Miei generosi. È tramite
Per me d’onor l’esiglio.
Date le spalle al pelago
Delle città frementi,
O arcani fiumi! o venti!
Tra noi si parlerà.
Coll’alba e coi crepuscoli,
Per fide selve e piani,
Si parlerà, dal mobile
Tetto dell’uom lontani.
Si parlerà coll’aquila
Della petrosa vetta,
Coll’erma lodoletta
Dal canto mattinier.
Parte di sè quest’Iside
Bella ed arcana a noi
Rivelerà. Col novero
Poco de’ figli suoi,
Dall’ombre malinconiche
Esce la dea talora,
E parla a chi l’adora,
Verginalmente il ver.
Là sulle balze inospite,
Campo a perpetui soli,
Dove l’abisso odorano
Scherzando i cavrioli,
Dove alla rara e pendula
Ombra di qualche pianta
Sibila il ghiro, e canta
Sui vespri il mandrïan;
Là chiederem gli oroscopi
Di questo palmo d’erba,
Che nomiam terra, imagine
Sì poca e sì superba!
E riguardando immobili
Tra i nembi e le paure
Da quell’eterne alture
Sull’ondeggiante pian,
Vedrem ferirsi adulteri
Schiavi e tiranni in guerra,
Scettri e catene infrangersi,
Ebra balzar la terra,
E fra la rea caligine
Di quella notte atroce
La sanguinosa croce
Del Nazaren tremar.
Là dall’aerio culmine
Questo vedrem. Ma quando
L’ara de’ tuoi pontefici
Sia vendicata, e il brando
De’ figli tuoi, penisola
Sacra di fede e d’armi,
Suoneran altri i carmi
Dal Cozio sasso al mar.
Oh, se ritorni a splendere
Nel ciel della speranza
L’arco de’ forti, il mistico
Segnal dell’alleanza,
Che un dì dall’Arno al Tevere
Parve raggiar sì lieto,
Dal Tevere all’Oreto
E dall’Oreto al Po,
Oh se ritorni!… Ascoltami,
Giusto Signor: s’aggreva
Molto fallir sugli ómeri
Dolenti di quest’Eva;
Troppo, egli è ver, di Gerico
S’è maculato il fiore,
Ma la tua man, Signore,
Purificar lo può.
Pensa che d’Eli a Davide
Qua la progenie crebbe,
Che qua scintilla il vertice
Del portentoso Orebbe,
Che sigillati scorrono
Qua sotto i tuoi lavacri,
Che qua tra i cedri sacri
La sposa tua fiorì.
Verghe, ceffate e spasimi
Scagliano i figli in lei;
Gettan sull’aurea clamide
Le sorti i farisei;
Fremi, o Signor! la chiamano
Regina d’Israele,
E poi l’aceto e il fiele
Le versano così!
Fremi, o Signor. La tiepida
Famiglia de’ tuoi fidi
Ben lacrimando annovera
Della tradita i gridi;
Ma non si lancia a toglierle
Dal sanguinoso crine
Il serto delle spine
Per darlo ai percussor.
E se talun fra il sibilo,
Degli itali laureti
L’alta del cor risuscita
Ira de’ tuoi profeti,
Fremi, o gran Dio! lo dannano
Alla catena e al bando…
Quando i tuoi giusti, oh! quando
Vendicherai, Signor!
E là frattanto il barbaro
Spia da’ lombardi colli
L’ire selvagge, e un brindisi
Manda ghignando ai folli.
Poi sul guancial men timida
China la testa a sera,
E forse all’alba spera
Rizzarsi alla tenzon!
E l’armi nostre, ahi! deboli
Saranno ed infelici;
Chè chi la madre insanguina,
Non può ferir nemici.
Così rompendo il Teutono
Nelle pollute stanze,
Misurerà le danze
De’ nostri ceppi al suon.
Tresca intanto la turpe semenza;
Pane d’odio al suo desco si frange,
Si tracanna licor di demenza.
Poi da’ sabbati l’ebbra falange
Fuor si vomita, e ruota il flagello
Sulla inerme, che sotto vi piange.
Orsù! dunque, raccogli il fardello,
O percossa tu pur: ma sorridi,
Dolce musa, al tuo dolce fratello.
Altre stelle vedremo, altri lidi,
Qua lasciando uno stuol numerato,
Scudo a noi, d’animosi e di fidi;
Che le tempia all’iniquo peccato
Solcherà con le cifre dell’ira,
E il dolor ci farà vendicato.
Dolce musa, per l’aure s’aggira
Dell’Arabia un augel, che si pasce
Negli odor della mistica pira.
Poi, combusto dall’orride fasce
Del roveto, più bello e raggiante
Dal suo cenere mesto rinasce.
Musa mia, questo afflitto esulante
Muore anch’egli; ma tu, mia cortese,
Non turbar le pupille tue sante.
Nacque anch’ei nell’arcano paese,
Dove è dato alla spoglia che muore
Vendicar della morte le offese.
Oggi passa in silenzio il mio cuore;
Ma dimani il Signor lo risveglia,
Perché giusto coi giusti è il Signore.
Tu frattanto dêi compier la veglia
Al defunto, che in cento, che in mille,
Di qua lunge, orizzonti si speglia,
Per recar nelle consce pupille
Tali sguardi e sul labbro tai cose,
Che ai codardi sien folgori e squille.
Mentre te di ligustri e di rose
Cingerò con le man rinnovate,
Come il crin delle donne amorose.
E in baciar le mie labbra rosate,
Sentirai come pregne di cielo
Son le spoglie alla morte involate.
E tu allor nel tuo candido velo
Sorgerai solitaria e gentile;
E, al tuo canto, dai vepri e dal gelo
Su per l’aura un effluvio sottile
Salirà: poi fia rotta repente
Ogni gleba in un cespo d’aprile.
E in quell’ora profonda e ridente,
Là seduta nel tuo paradiso,
Ti vedran se sei bella e innocente.
E diran: «Per che spazio è diviso
Il suo canto dai canti mortali,
E dal riso del mondo il suo riso!
Pera il giorno che un nembo di strali
Fu scagliato per aura sì pura,
A ferir quel sembiante e quell’ali!»
E tu, nova e celeste figura,
Riderai, come donna che pensi,
D’altre cose, e di queste non cura.
E, a velarti, una nube d’incensi
Mollemente verrà dalla valle
In quell’ora di giubili immensi.
Ma tu intanto ti grava le spalle
Della croce del tuo pellegrino,
E soletta dividi il suo calle.
Non si monta per altro cammino
Su quel giogo coperto di fiori,
Non si splende gentil cherubino
Che passando per questi dolori.
Con occhi cento, il livido
Poter, che in me s’indraga,
Freme dei pigri farmachi,
Conta le notti e i dì;
E va chiedendo ai rigidi
Mastri dell’arte maga
Quando potrà quest’ibrida
Larva sgombrar da qui.
– Perchè riman? del popolo
L’urlo e il pugnal non teme?
Che fa costui? Domestico
Sangue toscan non è.
O perché dunque, incognito
D’are, di patria e seme,
Un volgo reo gli prodiga
Fiori e speranze al piè?
Via questa larva! il folgore
De’ canti suoi possiede.
Via questa larva! i facili
Sonni turbar ci può.
Molti che noi non amano,
In questa larva han fede!
Oh tristo il dì che l’ospite
Arno abitar pensò!
Ma, più dell’altre, oh perfida
Notte per noi fallita,
Che lo dovea, fra tacite
Armi, di qua snidar!
Gli saria stata ignobile
Sfregio l’ambigua uscita…
E invece un’egra coltrice
Or gli diventa altar!
E un cicalío di bamboli
Sta contro noi frattanto:
E a denunciar quest’opera,
Spreca lamento e stil.
Oh che rovente lamina
È questo reo compianto,
Che penetrò le viscere
Della città servil! —
Non v’accorate. I pallidi
Labbri di sangue schietto
Stillano, è ver; mi macera
Cupo, latente ardor;
Da scellerate affrangere
Tossi mi sento il petto,
L’ore notturne io numero;
Brucio di febbre ancor;
Ma sdegnerei di crescervi,
O tribolati e vili,
L’ansie paure e i torbidi
Sogni che il ciel vi dà.
Or voi la man stringetemi,
Pochi, di cor gentili;
Firenze, addio. Fu nobile
Colpa la mia pietà.
M’odi. Il fatal tuo lastrico
Cela un vulcan, nè il sai:
Sulle colombe i cupidi
Falchi l’artiglio aprir:
E tra i ruscelli e i salici
Dall’ombra de’ rosai
Le tenebrose vipere
Si slanciano a ferir!
Certo, le ree potrebbero
Morir sotto i piè vostri,
O fieramente unanimi,
Se vi bastasse un cor.
Dio più non manda gli angeli
Per duellar co’ mostri;
E l’uom, che inerte spasima,
Merita il suo dolor.
Sacra è la casa, il tempio,
La libertà, la croce,
Gli avi, le spose, i pargoli,
Il campo ed il confin;
Con chi li lascia offendere
Sia l’offensor feroce,
E al neghittoso imbianchisi
Nel vituperio il crin.
Non ti turbar, mia tenera,
Mia dolce ispiratrice!
Che l’ansio cor ti palpita
Pe’ miei perigli, io so:
Ma sia dannata ai vermini
Bocca che il ver non dice;
Reo di silenzi al vindice
Mio Dio non salirò.
Vieni e partiam. Con vincoli
Di fede e di coraggio
Ci unì la vita: esanime
Io sarò teco ancor.
Mi bacerai de’ lùgubri
Ceri notturni al raggio,
Mi deporrai sul feretro,
Lo cingerai di fior.
Quindi sull’erma lapide,
Chiusa in tuo vel pudico,
Risponderai, se a chiedere
Ti venga il passeggier:
– «Le spoglie pie qua dormono
D’un mio profondo amico,
Cui lieti dì non risero,
Perché non tacque il ver.». —
Sorella mia, non piangere…
Dammi un amplesso. Oh! vedi
Come soave e placido
Laggiù tramonta il sol?
Sorella mia, con simile
Pace si muor, mel credi.
Rose vogl’io, non lacrime
Sul funebre lenzuol.