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Kitabı oku: «La coscienza di Zeno», sayfa 20

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Non fu Guido che venne a cercarmi. Fui io che da solo ritornai a quell’ufficio a cercare il sollievo ad una grande noia. Egli si comportò in conformità ai patti del nostro contratto secondo i quali io non avevo alcun obbligo ad un’attività regolare nei suoi affari e quando s’imbatteva in me a casa o altrove, mi dimostrava la solita grande amicizia di cui gli ero sempre grato e non sembrava ricordare ch’io avessi lasciato vuoto il posto a quel tavolo ch’egli aveva comperato per me. Fra noi due non c’era che un solo imbarazzo: il mio. Quando ritornai al mio posto m’accolse come se dall’ufficio io fossi stato assente per un giorno solo, m’espresse con calore il suo piacere di aver riconquistata la mia compagnia e, sentito il mio proposito di riprendere il mio lavoro, esclamò:

– Ho fatto dunque bene a non permettere a nessuno di toccare i tuoi libri!

Infatti trovai il mastro ed anche il giornale al punto ove li avevo lasciati.

Luciano mi disse:

– Speriamo che ora che lei è qui, ci moveremo di nuovo. Penso che il signor Guido sia scoraggiato per un paio di affari che tentò e che non gli riuscirono. Non gli dica nulla che io le parlo così, ma guardi se può incoraggiarlo.

M’accorsi infatti che in quell’ufficio si lavorava ben poco e finché la perdita subita col solfato di rame non ci vivificò, vi si menò una vita veramente idillica. Io ne conclusi subito che Guido non sentisse più tanto urgente il bisogno di lavorare per far muovere Carmen sotto la sua direzione e, altrettanto presto, che il periodo della corte da loro fosse passato e che oramai essa fosse divenuta la sua amante.

L’accoglienza di Carmen mi portò una sorpresa perché essa subito sentì il bisogno di ricordarmi una cosa che io avevo completamente dimenticata. Pare che prima di abbandonare quell’ufficio, in quei giorni in cui ero corso dietro a tante donne perché non m’era stato più possibile di raggiungere la mia, io avessi aggredita anche Carmen. Essa mi parlò con grande serietà e con qualche imbarazzo: aveva piacere di rivedermi perché pensava io volessi bene a Guido e che i miei consigli potrebbero essergli utili, e voleva intrattenere con me – se io vi consentivo – una bella, una fraterna amicizia. Mi disse proprio qualche cosa di simile porgendomi con gesto largo la sua destra. Sulla sua faccia tanto bella che sempre pareva dolce, vi fu un atteggiamento molto severo per rilevare la pura fraternità della relazione che mi veniva offerta.

Allora ricordai e arrossii. Forse se avessi ricordato prima, non sarei ritornato a quell’ufficio mai più. Era stata una cosa tanto breve e ficcata in mezzo a tante altre azioni dello stesso valore, che se ora non fosse stata ricordata, si avrebbe potuto credere non fosse esistita mai. Pochi giorni dopo l’abbandono di Carla, io m’ero messo a esaminare i libri facendomi aiutare da Carmen e pian pianino, per veder meglio nella stessa pagina, avevo passato il mio braccio intorno alla sua vita che poi avevo stretta sempre più. Con un balzo Carmen s’era sottratta a me ed io allora avevo abbandonato l’ufficio.

Io avrei potuto difendermi con un sorriso inducendola a sorridere con me perché le donne sono tanto propense a sorridere di delitti siffatti! Avrei potuto dirle:

– Ho tentato una cosa che non m’è riuscita e me ne duole, ma non vi tengo rancore e voglio esservi amico finché non vi piacerà altrimenti.

O avrei potuto rispondere anche da persona seria, scusandomi con lei e anche con Guido:

– Scusatemi e non giudicatemi prima di sapere in quali condizioni io mi sia trovato allora.

Invece mi mancò la parola. La mia gola – credo – era chiusa dal rancore solidificatovisi e non potevo parlare. Tutte queste donne che mi respingevano risolutamente davano addirittura una tinta tragica alla mia vita. Non avevo mai avuto un periodo tanto disgraziato. Invece di una risposta non mi sarei trovato pronto che a digrignare i denti, cosa poca comoda dovendo celarla. Forse mi mancò la parola anche pel dolore di veder così recisamente esclusa una speranza che tuttavia accarezzavo. Non posso fare a meno di confessarlo: meglio che con Carmen non avrei potuto rimpiazzare l’amante ch’io avevo perduta, quella fanciulla tanto poco compromettente che non m’aveva chiesto altro che il permesso di vivermi accanto finché non domandò quello di non vedermi più. Un’amante in due è l’amante meno compromettente. Certamente allora non avevo chiarite tanto bene le mie idee, ma le sentivo e adesso le so. Divenendo l’amante di Carmen, io avrei fatto il bene di Ada e non avrei danneggiato di troppo Augusta. Ambedue sarebbero state tradite molto meno che se Guido ed io avessimo avuta una donna intera per ciascuno.

La risposta a Carmen io la diedi varii giorni appresso, ma ancor oggidì ne arrossisco. L’orgasmo in cui m’aveva gettato l’abbandono di Carla doveva sussistere tuttavia per farmi arrivare ad un punto simile. Ne ho rimorso come di nessun’altra azione della mia vita. Le parole bestiali che ci lasciamo scappare rimordono più fortemente delle azioni più nefande cui la nostra passione c’induca. Naturalmente designo come parole solo quelle che non sono azioni, perché so benissimo che le parole di Jago, per esempio, sono delle vere e proprie azioni. Ma le azioni, comprese le parole di Jago, si commettono per averne un piacere o un beneficio e allora tutto l’organismo, anche quella parte che poi dovrebbe erigersi a giudice, vi partecipa e diventa dunque un giudice molto benevolo. Ma la stupida lingua agisce a propria e a soddisfazione di qualche piccola parte dell’organismo che senza di essa si sente vinta e procede alla simulazione di una lotta quando la lotta è finita e perduta. Vuole ferire o vuole accarezzare. Si muove sempre in mezzo a dei traslati mastodontici. E quando son roventi, le parole scottano chi le ha dette.

Io avevo osservato ch’essa non aveva più i colori che l’avevano fatta ammettere tanto prontamente nel nostro ufficio. Mi figurai fossero andati perduti per una sofferenza che non ammisi avesse potuto essere fisica e l’attribuii all’amore per Guido. Del resto noi uomini siamo molto inclinati a compiangere le donne che si abbandonarono agli altri. Non vediamo mai quale vantaggio se ne possano aspettare. Possiamo magari amare l’uomo di cui si tratta – come avveniva nel caso mio – ma non sappiamo neppur allora dimenticare come di solito vadano a finire quaggiù le avventure d’amore. Sentii una sincera compassione per Carmen come non l’avevo sentita mai per Augusta o per Carla. Le dissi: – E giacché avete avuta la gentilezza d’invitarmi ad esservi amico, mi permettereste di farvi degli ammonimenti?

Essa non me lo permise, perché, come tutte le donne in quei frangenti, anch’essa credette che ogni ammonimento sia un’aggressione. Arrossì e balbettò: – Non capisco! Perché dice così? – E subito dopo, per farmi tacere: – Se avessi bisogno di consigli ricorrerei certamente a lei, signor Cosini.

Perciò non mi fu concesso di predicarle la morale e fu un danno per me. Predicandole la morale certamente sarei arrivato ad un grado superiore di sincerità, magari tentando di prenderla di nuovo fra le mie braccia. Non m’arrovellerei più di aver voluto assumere quell’aspetto bugiardo di Mentore.

Per varii giorni di ogni settimana, Guido non si faceva neppur vedere in ufficio perché s’era appassionato alla caccia e alla pesca. Io, invece, dopo il mio ritorno, per qualche tempo vi fui assiduo, occupatissimo nel mettere a giorno i libri. Ero spesso solo con Carmen e Luciano che mi consideravano quale il loro capo ufficio. Non mi pareva che Carmen soffrisse per l’assenza di Guido e mi figurai ch’essa l’amasse tanto da gioire al sapere che si divertiva. Doveva anche essere avvisata dei giorni in cui egli sarebbe stato assente, perché non tradiva alcuna attesa ansiosa. Sapeva da Augusta che Ada invece non era fatta così, perché si lagnava amaramente delle frequenti assenze del marito. Del resto non era questa la sua unica lagnanza. Come tutte le donne non amate, essa si lagnava con lo stesso calore delle offese grandi e di quelle piccole. Non soltanto Guido la tradiva, ma quando era in casa suonava sempre il violino. Quel violino, che m’aveva fatto tanto soffrire, era una specie di lancia di Achille per la varietà delle sue prestazioni. Appresi ch’era passato anche per il nostro ufficio ove aveva promossa la corte a Carmen con delle bellissime variazioni sul «Barbiere». Poi era ripartito perché in ufficio non occorreva più ed era ritornato a casa ove risparmiava a Guido la noia di dover conversare con la moglie.

Fra me e Carmen non ci fu mai più nulla. Ben presto io ebbi per lei un sentimento d’indifferenza assoluta come se essa avesse cambiato di sesso, qualche cosa di simile a quello che provavo per Ada. Una viva compassione per ambedue e nient’altro. Proprio così!

Guido mi colmava di gentilezze. Io credo che in quel mese in cui l’avevo lasciato solo, avesse imparato ad apprezzare la mia conpagnia. Una donnina come Carmen può essere gradevole di tempo in tempo, ma non si può mica sopportarla per giornate intere. Egli m’invitò a caccia e a pesca. Aborro la caccia e decisamente mi rifiutai di accompagnarvelo. Invece, una sera, spintovi dalla noia, finii con l’andare con lui a pesca. Al pesce manca ogni mezzo di comunicazione con noi e non può destare la nostra compassione. Se boccheggia anche quand’è sano e salvo in acqua! Persino la morte non ne altera l’aspetto. Il suo dolore, se esiste, è celato perfettamente sotto le sue squame.

Quando un giorno m’invitò ad una pesca notturna, mi riservai di vedere se Augusta m’avrebbe permesso di uscire quella sera e di restar fuori tanto tardi. Gli dissi che avrei ricordato che la sua barchetta si sarebbe staccata dal molo Sartorio alle nove di sera e che, potendo, mi vi sarei trovato. Pensai perciò che anche lui dovette sapere subito che per quella sera non m’avrebbe riveduto e che come avevo fatto tante altre volte, non mi sarei recato all’appuntamento.

Invece quella sera fui cacciato di casa dalle strida della mia piccola Antonia. Più la madre l’accarezzava e più la piccina strillava. Allora tentai un mio sistema che consisteva nel gridar delle insolenze nel piccolo orecchio di quella scimmietta urlante. N’ebbi il solo risultato di far cambiare il ritmo alle sue strida, perché si mise a gridare dallo spavento. Poi avrei voluto tentare un altro sistema un poco più energico, ma Augusta ricordò in tempo l’invito di Guido e m’accompagnò alla porta promettendomi di coricarsi sola se io non fossi rincasato che tardi. Anzi, pur di mandarmi via, si sarebbe anche adattata di prendere senza di me il caffè la mattina appresso, se fossi rimasto fuori fino allora. C’è un piccolo dissidio fra me e Augusta – l’unico – sul modo di trattare i bambini fastidiosi: a me pare che il dolore del bambino sia meno importante del nostro e che valga la pena d’infliggerglielo pur di risparmiare un grande disturbo all’adulto; a lei invece sembra che noi, che abbiamo fatti i bambini, dobbiamo anche subirli.

Avevo tutto il tempo per arrivare all’appuntamento e attraversai lentamente la città guardando le donne e nello stesso tempo inventando un ordigno speciale che avrebbe impedito ogni dissidio fra me ed Augusta. Ma per il mio ordigno l’umanità non era abbastanza evoluta! Esso era destinato al futuro lontano e non poteva più giovare a me se non dimostrandomi per quale piccola ragione si rendevano possibili le mie dispute con Augusta: la mancanza di un piccolo ordigno! Esso sarebbe stato semplice, un tramvai casalingo, una sediola fornita di ruote e rotaie sulla quale la mia bimba avrebbe passata la sua giornata: poi un bottone elettrico toccando il quale la sediola con la bimba urlante si sarebbe messa a correre via fino a raggiungere il punto più lontano della casa donde la sua voce affievolita dalla lontananza ci sarebbe sembrata perfino gradevole. Ed io ed Augusta saremmo rimasti insieme tranquilli ed affettuosi.

Era una notte ricca di stelle e priva di luna, una di quelle notti in cui si vede molto lontano e perciò addolcisce e quieta. Guardai le stelle che avrebbero potuto ancora portare il segno dell’occhiata d’addio di mio padre moribondo. Sarebbe passato il periodo orrendo in cui i miei bimbi sporcavano e urlavano. Poi sarebbero stati simili a me; io li avrei amati secondo il mio dovere e senza sforzo. Nella bella, vasta notte mi rasserenai del tutto e senz’aver bisogno di fare dei propositi.

Alla punta del molo Sartorio le luci provenienti dalla città erano tagliate dall’antica casetta da cui sporge la punta stessa quale una breve fondamenta. L’oscurità era perfetta e l’acqua alta e fosca e quieta mi pareva pigramente gonfia.

Non guardai più né il cielo né il mare. A pochi passi da me c’era una donna che destò la mia curiosità per uno stivaletto verniciato che per un istante brillò nell’oscurità. Nel breve spazio e nel buio, a me parve che quella donna alta e forse elegante, si trovasse chiusa in una stanza con me. Le avventure più gradevoli possono capitare quando meno ci si pensa, e vedendo che quella donna tutt’ad un tratto deliberatamente s’avvicinava, ebbi per un istante un sentimento piacevolissimo, che sparve subito quando sentii la voce roca di Carmen. Voleva fingere di aver piacere d’apprendere ch’ero anch’io della partita. Ma nell’oscurità e con quella specie di voce non si poteva fingere.

Le dissi rudemente:

– Guido m’ha invitato. Ma se volete, io trovo altro da fare e vi lascio soli!

Ella protestò dichiarando che anzi era felice di vedermi per la terza volta in quel giorno. Mi raccontò che in quella piccola barchetta si sarebbe trovato riunito l’ufficio intero perché c’era anche Luciano. Guai per i nostri affari se fosse andata a picco! M’aveva detto che c’era anche Luciano, certo per darmi la prova dell’innocenza del ritrovo. Poi chiacchierò ancora volubilmente, dapprima dicendomi ch’era la prima volta che andava con Guido a pesca eppoi confessando ch’era la seconda. S’era lasciato sfuggire che non le dispiaceva di star seduta «a pagliolo» in una barchetta e a me era sembrato strano ch’essa conoscesse quel termine. Così dovette confessarmi di averlo appreso la prima volta ch’era stata a pesca con Guido.

– Quel giorno – aggiunse per rivelare la completa innocenza di quella prima gita – andammo alla pesca degli sgombri e non delle orate. Di mattina.

Peccato che non abbia avuto il tempo di farla chiacchierare di più, perché avrei potuto sapere tutto quello che m’importava, ma dall’oscurità della Sacchetta uscì e s’approssimò a noi rapidamente la barchetta di Guido. Io ero sempre in dubbio: dal momento che c’era Carmen, non avrei dovuto allontanarmi? Forse Guido non aveva neppur avuto l’intenzione d’invitarci ambedue perché io ricordavo di aver quasi rifiutato il suo invito. Intanto la barchetta approdò e, giovanilmente sicura anche nell’oscurità, Carmen vi scese trascurando di appoggiarsi alla mano che Luciano le aveva offerta. Poiché esitavo, Guido urlò:

– Non farci perder tempo!

Con un balzo fui anch’io nella barchetta. Il balzo mio era quasi involontario: un prodotto dell’urlo di Guido. Guardavo con grande desiderio la terra, ma bastò un istante di esitazione per rendermi impossibile lo sbarco. Finii col sedermi a prua della non grande barchetta. Quando m’abituai all’oscurità, vidi che a poppa, di faccia a me, sedeva Guido e ai suoi piedi, a pagliolo, Carmen. Luciano, che vogava, ci divideva. Io non mi sentivo né molto sicuro né molto comodo nella piccola barca, ma presto mi vi abituai e guardai le stelle che di nuovo mi mitigarono. Era vero che in presenza di Luciano – un servo devoto delle famiglie delle nostre mogli – Guido non si sarebbe rischiato di tradire Ada e non c’era perciò niente di male che io fossi con loro. Desideravo vivamente di poter godere di quel cielo, quel mare e la vastissima quiete. Se avessi dovuto sentirne rimorso e perciò soffrire, avrei fatto meglio di restare a casa mia a farmi torturare dalla piccola Antonia. L’aria fresca notturna mi gonfiò i polmoni e compresi ch’io potevo divertirmi in compagnia di Guido e Carmen, cui in fondo volevo bene.

Passammo dinanzi al faro e arrivammo al mare aperto. Qualche miglio più in là brillavano le luci d’innumerevoli velieri: là si tendevano ben altre insidie al pesce. Dal Bagno Militare, – una mole poderosa nereggiante sui suoi pali, – cominciammo a moverci su e giù lungo la riviera di Sant’Andrea. Era il posto prediletto dei pescatori. Accanto a noi, silenziosamente, molte altre barche facevano la stessa nostra manovra. Guido preparò le tre lenze e inescò gli ami configgendovi dei gamberelli per la coda. Consegnò una lenza ad ognuno di noi dicendo che la mia, a prua, – la sola munita di piombino – sarebbe stata preferita dal pesce. Scorsi nell’oscurità il mio gamberello dalla coda trafitta e mi parve che movesse lentamente la parte superiore del corpo, quella parte che non era diventata una guaina. Per questo movimento mi parve piuttosto meditabondo che spasimante dal dolore. Forse ciò che produce il dolore nei grandi organismi, nei piccolissimi può ridursi fino a divenire un’esperienza nuova, un solletico al pensiero. Lo ficcai nell’acqua calandovelo, come mi fu detto da Guido, per dieci braccia. Dopo di me Carmen e Guido calarono le loro lenze. Guido aveva ora a poppa anche un remo col quale spingeva la barca con l’arte che occorreva perché le lenze non s’aggrovigliassero. Pare che Luciano non fosse ancora al caso di dirigere in tale modo la barchetta. Del resto Luciano aveva ora l’incarico della piccola rete con la quale avrebbe levato dall’acqua il pesce portato dall’amo fino alla superficie. Per lungo tempo egli non ebbe nulla da fare. Guido ciarlava molto. Chissà che non sia stato attaccato a Carmen dalla sua passione per l’insegnamento piuttosto che dall’amore. Io avrei voluto non starlo a sentire per continuare a pensare al piccolo animaletto che tenevo esposto alla voracità dei pesci, sospeso nell’acqua e che coi cenni della testolina – se li continuava anche in acqua – avrebbe adescato meglio il pesce. Ma Guido mi chiamò ripetute volte e dovetti star a sentire la sua teoria sulla pesca. Il pesce avrebbe toccato varie volte l’esca e noi l’avremmo sentito, ma dovevamo guardarci del tirare la lenza finché non si fosse tesa. Allora dovevamo essere pronti per dare lo strappo che avrebbe infilzato sicuramente l’amo nella bocca del pesce. Guido, come al solito, fu lungo nelle sue spiegazioni. Voleva spiegarci chiaramente quello che avremmo sentito nella mano quando il pesce avrebbe annusato l’amo. E continuava le sue spiegazioni quando io e Carmen conoscevamo già per esperienza la quasi sonora ripercussione sulla mano di ogni contatto che l’amo subiva. Più volte dovemmo raccogliere la lenza per rinnovare l’esca. Il piccolo animaluccio pensieroso finiva invendicato nelle fauci di qualche pesce accorto che sapeva evitare l’amo.

A bordo c’era della birra e dei panini. Guido condiva tutto ciò con la sua chiacchiera inesauribile. Parlava ora delle enormi ricchezze che giacevano nel mare. Non si trattava, come Luciano credeva, né del pesce né delle ricchezze immersevi dall’uomo. Nell’acqua del mare c’era disciolto dell’oro. Improvvisamente ricordò ch’io avevo studiato chimica e mi disse:

– Anche tu devi sapere qualche cosa di quest’oro.

Io non ne ricordavo molto, ma annuii arrischiando un’osservazione della cui verità non potevo essere sicuro. Dichiarai:

– L’oro del mare è il più costoso di tutti. Per avere uno di quei napoleoni che giacciono qui disciolti, bisognerebbe spenderne cinque.

Luciano che ansiosamente s’era rivolto a me per sentirmi confermare le ricchezze su cui nuotavamo, mi volse disilluso la schiena. A lui di quell’oro non importava più. Guido invece mi diede ragione credendo di ricordare che il prezzo di quell’oro era esattamente di cinque volte tanto, proprio come avevo detto io. Mi glorificava addirittura confermando la mia asserzione, che io sapevo del tutto cervellotica. Si vedeva che mi sentiva poco pericoloso e che in lui non c’era ombra di gelosia per quella donna coricata ai suoi piedi. Pensai per un istante di metterlo in imbarazzo dichiarando che ricordavo ora meglio e che per trarre dal mare uno di quei napoleoni ne sarebbero bastati tre o che ne sarebbero abbisognati addirittura dieci.

Ma in quell’istante fui chiamato dalla mia lenza che improvvisamente s’era tesa per uno strappo poderoso. Strappai anch’io e gridai. Con un balzo Guido mi fu vicino e mi prese di mano la lenza. Gliel’abbandonai volentieri. Egli si mise a tirarla su, prima a piccoli tratti, poi, essendo diminuita la resistenza, a grandissimi. E nell’acqua fosca si vide brillare l’argenteo corpo del grosso animale. Correva oramai rapidamente e senza resistenza dietro al suo dolore. Perciò compresi anche il dolore dell’animale muto, perché era gridato da quella fretta di correre alla morte. Presto l’ebbi boccheggiante ai miei piedi. Luciano l’aveva tratto dall’acqua con la rete e, strappandonelo senza riguardo, gli aveva levato di bocca l’amo.

Palpò il grosso pesce:

– Un’orata di tre chilogrammi!

Ammirando, disse il prezzo che se ne sarebbe domandato in pescheria. Poi Guido osservò che l’acqua era ferma a quell’ora e che sarebbe stato difficile di pigliare dell’altro pesce. Raccontò che i pescatori ritenevano che quando l’acqua non cresceva né calava, i pesci non mangiavano e perciò non potevano essere presi. Fece della filosofia sul pericolo che risultava ad un animale dal suo appetito. Poi, mettendosi a ridere, senz’accorgersi che si comprometteva, disse:

– Tu sei l’unico che sappia pescare questa sera.

La mia preda si dibatteva tuttavia nella barca, quando Carmen diede uno strido. Guido domandò senza muoversi e con una gran voglia di ridere nella voce:

– Un’altra orata?

Carmen confusa rispose:

– Mi pareva! Ma ha già abbandonato l’amo!

Io sono sicuro che, trascinato dal suo desiderio, egli le aveva dato un pizzicotto.

Io oramai mi sentivo a disagio in quella barca. Non accompagnavo più col desiderio l’opera del mio amo, anzi agitavo la lenza in modo che i poveri animali non potessero abboccare. Dichiarai che avevo sonno e pregai Guido di sbarcarmi a Sant’Andrea. Poi mi preoccupai di togliergli il sospetto ch’io me ne andassi perché infastidito da quanto doveva avermi rivelato lo strido di Carmen, e gli raccontai della scena che aveva fatta la mia piccina quella sera e il mio desiderio di accertarmi presto che non stesse male.

Compiacente come sempre, Guido accostò la barca alla riva. M’offerse l’orata ch’io avevo pescata, ma io rifiutai. Proposi di ridarle la libertà gettandola in mare, ciò che fece dare un urlo di protesta a Luciano, mentre Guido bonariamente disse:

– Se sapessi di poter ridarle la vita e la salute lo farei. Ma a quest’ora la povera bestia non può servire che in piatto!

Li seguii con gli occhi e potei accertarmi che non approfittarono dello spazio lasciato libero da me. Stavano bene serrati insieme e la barchetta andò via un po’ sollevata a prua dal troppo peso a poppa.

Mi parve una punizione divina all’apprendere che la mia bambina era stata colta dalla febbre. Non l’avevo resa malata io, simulando con Guido una preoccupazione che non sentivo per la sua salute? Augusta non s’era ancora coricata, ma poco prima c’era stato il dottor Paoli che l’aveva rassicurata dicendo di essere sicuro che una febbre improvvisa tanto violenta non poteva annunziare una malattia grave. Restammo lungamente a guardare Antonia che giaceva abbandonata sul piccolo giaciglio, la faccina dalla pelle asciutta arrossata intensamente sotto i bruni ricci scomposti. Non gridava, ma si lamentava di tempo in tempo con un lamento breve che veniva interrotto da un torpore imperioso. Dio mio! Come il male me la portava vicina! Avrei data una parte della mia vita per liberarle il respiro. Come togliermi il rimorso di aver pensato di non saper amarla, eppoi di aver passato tutto quel tempo in cui soffriva, lontano da lei e in quella compagnia?

– Somiglia ad Ada! – disse Augusta con un singulto. Era vero! Ce ne accorgemmo allora per la prima volta e quella somiglianza divenne sempre più evidente a mano a mano che Antonia crebbe, tanto che io talvolta mi sento tremare il cuore al pensiero che le potrebbe toccare il destino della poverina a cui assomiglia.

Ci coricammo dopo di aver posto il letto della bambina accanto a quello di Augusta. Ma io non potevo dormire: avevo un peso al cuore come quelle sere in cui i miei trascorsi della giornata si specchiavano in immagini notturne di dolore e di rimorso. La malattia della bambina mi pesava come un’opera mia. Mi ribellai! Io ero puro e potevo parlare, potevo dire tutto. E dissi tutto. Raccontai ad Augusta dell’incontro con Carmen, della posizione ch’essa occupava nella barca, eppoi del suo strido che io dubitai fosse stato provocato da una carezza brutale di Guido senza però poter esserne sicuro. Ma Augusta ne era sicura. Perché altrimenti, subito dopo, la voce di Guido sarebbe stata alterata dall’ilarità? Cercai di attenuare la sua convinzione, ma poi dovetti ancora raccontare. Feci una confessione anche per quanto concerneva me, descrivendo la noia che m’aveva cacciato di casa e il mio rimorso di non amare meglio Antonia. Mi sentii subito meglio e m’addormentai profondamente.

La mattina appresso, Antonia stava meglio; era quasi priva di febbre. Giaceva calma e libera di affanno, ma era pallida e affranta come se si fosse consunta in uno sforzo sproporzionato al suo piccolo organismo; evidentemente essa era già uscita vittoriosa dalla breve battaglia. Nella calma che ne derivò anche a me, ricordai, dolendomene, di aver compromesso orribilmente Guido e volli da Augusta la promessa ch’essa non avrebbe comunicato a nessuno i miei sospetti. Ella protestò che non si trattava di sospetti, ma di evidenza certa ciò che io negai senza riuscire a convincerla. Poi essa mi promise tutto quello che volli ed io me ne andai tranquillamente in ufficio.

Guido non c’era ancora e Carmen mi raccontò ch’erano stati ben fortunati dopo la mia partenza. Avevano prese altre due orate, più piccole della mia, ma di un peso considerevole. Io non volli crederlo e pensai che essa volesse convincermi che alla mia partenza avessero abbandonata l’occupazione a cui avevano atteso finché c’ero stato io. L’acqua non s’era fermata? Fino a che ora erano stati in mare?

Carmen per convincermi mi fece confermare anche da Luciano la pesca delle due orate ed io da quella volta pensai che Luciano per ingraziarsi Guido sia stato capace di qualunque azione.

Sempre durante la calma idillica che precorse l’affare del solfato di rame, avvenne in quell’ufficio una cosa abbastanza strana che non so dimenticare, tanto perché mette in evidenza la smisurata presunzione di Guido, quanto perché pone me in una luce nella quale m’è difficile di ravvisarmi.

Un giorno eravamo tutt’e quattro in ufficio e il solo che fra di noi parlasse di affari era, come sempre, Luciano. Qualche cosa nelle sue parole suonò all’orecchio di Guido quale una rampogna che, in presenza di Carmen, gli era difficile di sopportare. Ma altrettanto difficile era difendersene, perché Luciano aveva le prove che un affare ch’egli aveva consigliato mesi prima e che da Guido era stato rifiutato, aveva finito col rendere una quantità di denaro a chi se ne era occupato. Guido finì col dichiarare di disprezzare il commercio e asserire che se la fortuna non l’avesse assistito in questo, egli avrebbe trovato il mezzo di guadagnare del denaro con altre attività molto più intelligenti. Col violino, per esempio. Tutti furono d’accordo con lui ed anch’io, ma con la riserva:

– A patto di studiare molto.

La mia riserva gli dispiacque e disse subito che se si trattava di studiare, egli allora avrebbe potuto fare molte altre cose, per esempio, della letteratura. Anche qui gli altri furono d’accordo, ed io stesso, ma con qualche esitazione. Non ricordavo bene le fisonomie dei nostri grandi letterati e le evocavo per trovarne una che somigliasse a Guido. Egli allora urlò:

– Volete delle buone favole? Io ve ne improvviso come Esopo!

Tutti risero, meno lui. Si fece dare la macchina da scrivere e, correntemente, come se avesse scritto sotto dettatura, con gesti più ampi di quanto esigesse un lavoro utile alla macchina, stese la prima favola. Porgeva già il foglietto a Luciano, ma si ricredette, lo riprese e lo rimise a posto nella macchina, scrisse una seconda favola, ma questa gli costò più fatica della prima tanto che dimenticò di continuare a simulare con gesti l’ispirazione e dovette correggere il suo scritto più volte. Perciò io ritengo che la prima delle due favole non sia stata sua e che invece la seconda sia veramente uscita dal suo cervello di cui mi sembra degna. La prima favola diceva di un uccelletto al quale avvenne d’accorgersi che lo sportellino della sua gabbia era rimasto aperto. Dapprima pensò di approfittarne per volar via, ma poi si ricredette temendo che se, durante la sua assenza, lo sportellino fosse stato rinchiuso egli avrebbe perduta la sua libertà. La seconda trattava di un elefante ed era veramente elefantesca. Soffrendo di debolezza alle gambe, il grosso animale andava a consultare un uomo, celebre medico, il quale al vedere quegli arti poderosi gridava: – Non vidi giammai delle gambe tanto forti.

Luciano non si lasciò imporre da quelle favole anche perché non le capiva. Rideva abbondantemente, ma si vedeva che gli sembrava comico che una cosa simile gli fosse presentata come commerciabile. Rise poi anche per compiacenza quando gli fu spiegato che l’uccellino temeva di essere privato della libertà di ritornare in gabbia e l’uomo ammirava le gambe per quanto deboli dell’elefante. Ma poi chiese:

– Quanto si ricava da due favole così?

Guido fece da uomo superiore:

– Il piacere d’averle fatte eppoi, volendo farne di più, anche molti denari.

Carmen invece era agitata dall’emozione. Domandò il permesso di poter copiare quelle due favole e ringraziò riconoscente quando Guido le offerse in dono il foglietto ch’egli aveva scritto dopo di averlo anche firmato a penna.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
540 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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