Kitabı oku: «La coscienza di Zeno», sayfa 21
Che cosa c’entravo io? Non avevo da battermi per l’ammirazione di Carmen della quale, come ho detto, non m’importava nulla, ma ricordando il mio modo di fare, devo credere che anche una donna che non sia rilevata dal nostro desiderio possa spingerci alla lotta. Infatti non si battevano gli eroi medievali anche per donne che non avevano mai viste? A me quel giorno avvenne che i dolori lancinanti del mio povero organismo improvvisamente si facessero acuti e mi parve di non poterli attenuare altrimenti che battendomi con Guido facendo subito delle favole anch’io.
Mi feci consegnare la macchina ed io veramente improvvisai. Vero è che la prima delle favole che feci, stava da molti giorni nel mio animo. Ne improvvisai il titolo: «Inno alla vita». Poi, dopo breve riflessione, scrissi di sotto: «Dialogo». Mi pareva più facile di far parlare le bestie che descriverle. Così nacque la mia favola dal dialogo brevissimo:
Il gamberello meditabondo: – La vita è bella ma bisogna badare al posto dove ci si siede.
L’orata, correndo dal dentista: – La vita è bella ma bisognerebbe eliminare quegli animalucci traditori che celano nella carne saporita il metallo acuminato.
Ora bisognava fare la seconda favola ma mi mancavano le bestie. Guardai il cane che giaceva nel suo cantuccio ed anch’esso guardò me. Da quegli occhi timidi trassi un ricordo: pochi giorni prima Guido era ritornato da caccia pieno di pulci ed era andato a nettarsi nel nostro ripostiglio. Ebbi allora subito la favola e la scrissi correntemente: «C’era una volta un principe morso da molte pulci. S’appellò agli dei che gl’infliggessero una sola pulce, grossa e famelica, ma una sola, e destinassero le altre agli altri uomini. Ma nessuna delle pulci accettò di restare sola con quella bestia d’uomo, ed egli dovette tenersele tutte».
In quel momento le mie favole mi parvero splendide. Le cose ch’escono dal nostro cervello hanno un aspetto sovranamente amabile specie quando si esaminano non appena nate. Per dire la verità il mio dialogo mi piace anche adesso, che ho fatta tanta pratica nel comporre. L’inno alla vita fatto dal morituro è una cosa molto simpatica per coloro che lo guardano morire ed è anche vero che molti moribondi spendono l’ultimo fiato per dire quella che a loro sembra la causa per cui muoiono, innalzando così un inno alla vita degli altri che sapranno evitare quell’accidente. In quanto alla seconda favola non voglio parlarne e fu commentata argutamente da Guido stesso che gridò ridendo:
– Non è una favola, ma un modo di darmi della bestia.
Risi con lui e i dolori che m’avevano spinto a scrivere s’attenuarono subito. Luciano rise quando gli spiegai quello che avevo voluto dire e trovò che nessuno avrebbe pagato qualche cosa né per le mie né per le favole di Guido. Ma a Carmen le mie favole non piacquero. Mi diede un’occhiataccia indagatrice ch’era veramente nuova per quegli occhi e che io intesi come se fosse stata una parola detta:
– Tu non ami Guido!
Ne fui addirittura sconvolto perché in quel momento essa certamente non sbagliava. Pensai che avevo torto di comportarmi come se non amassi Guido, io che poi lavoravo disinteressatamente per lui. Dovevo far attenzione al mio modo di comportarmi.
Dissi mitemente a Guido:
– Riconosco volentieri che le tue favole sono migliori delle mie. Bisogna però ricordare che sono le prime favole che ho fatte in vita mia.
Egli non s’arrese:
– Credi forse ch’io ne abbia fatte delle altre?
Lo sguardo di Carmen s’era già raddolcito e, per ottenerlo più dolce ancora, io dissi a Guido:
– Tu hai certamente un talento speciale per le favole.
Ma il complimento fece ridere tutti e due e subito dopo anche me, ma tutti bonariamente perché si vedeva che avevo parlato senz’alcuna intenzione maligna.
L’affare del solfato di rame diede una maggiore serietà al nostro ufficio. Non c’era più tempo per le favole. Quasi tutti gli affari che ci venivano proposti erano ormai da noi accettati. Alcuni diedero qualche utile, ma piccolo; altri delle perdite, ma grandi. Una strana avarizia era il principale difetto di Guido che fuori degli affari era tanto generoso. Quando un affare si dimostrava buono, egli lo liquidava frettolosamente, avido d’incassare il piccolo utile che gliene derivava. Quando invece si trovava involto in un affare sfavorevole, non si decideva mai ad uscirne pur di ritardare il momento in cui doveva toccare la propria tasca. Per questo io credo che le sue perdite sieno state sempre rilevanti e i suoi utili piccoli. Le qualità di un commerciante non sono altro che le risultanti di tutto il suo organismo, dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi. A Guido si sarebbe adattata una parola che hanno i Greci: «astuto imbecille». Veramente astuto, ma anche veramente uno scimunito. Era pieno di accortezze che non servivano ad altro che ad ungere il piano inclinato sul quale scivolava sempre più in giù.
Assieme al solfato di rame gli capitarono tra capo e collo i due gemelli. La sua prima impressione fu di sorpresa tutt’altro che piacevole, ma subito dopo di avermi annunziato l’avvenimento, gli riuscì di dire una facezia che mi fece ridere molto, per cui, compiacendosi del successo, non seppe conservare il cipiglio. Associando i due bambini alle sessanta tonnellate di solfato, disse:
– Sono condannato a lavorare all’ingrosso, io!
Per confortarlo gli ricordai che Augusta era di nuovo nel settimo mese e che ben presto in fatto di bambini avrei raggiunto il suo tonnellaggio. Rispose sempre argutamente:
– A me, da buon contabile, non sembra la stessa cosa.
Dopo qualche giorno, per qualche tempo, fu preso da un grande affetto per i due marmocchi. Augusta che passava una parte della sua giornata dalla sorella, mi raccontò ch’egli dedicava loro ogni giorno qualche ora. Li carezzava, e ninnava e Ada gliene era tanto riconoscente che fra i due coniugi sembrava rifiorire un nuovo affetto. In quei giorni egli versò un importo abbastanza vistoso ad una società d’Assicurazioni per far trovare ai figli a vent’anni una piccola sostanza. Lo ricordo per aver io registrato quell’importo a suo debito.
Fui invitato anch’io a vedere i due gemelli; anzi da Augusta m’era stato detto che avrei potuto salutare anche Ada, che invece non poté ricevermi dovendo stare a letto ad onta che fossero passati già dieci giorni dal parto.
I due bambini giacevano in due culle in un gabinetto attiguo alla stanza da letto dei genitori. Ada, dal suo letto, mi gridò:
– Sono belli, Zeno?
Restai sorpreso dal suono di quella voce. Mi parve più dolce: era un vero grido perché vi si sentiva uno sforzo, eppure rimaneva tanto dolce. Senza dubbio la dolcezza in quella voce veniva dalla maternità, ma io ne fui commosso perché ve la scoprivo proprio quand’era rivolta a me. Quella dolcezza mi fece sentire come se Ada non m’avesse chiamato col solo mio nome, ma premettendovi anche qualche qualificativo affettuoso come «caro» o «fratello mio»! Ne sentii una viva riconoscenza e divenni buono ed affettuoso. Risposi festosamente:
– Belli, cari, somiglianti, due meraviglie. – Mi parevano invece due morticini scoloriti. Vagivano ambedue e non andavano d’accordo.
Presto Guido ritornò alla vita di prima. Dopo l’affare del solfato veniva più assiduo in ufficio, ma ogni settimana, al sabato, partiva per la caccia e non ritornava che al lunedì mattina tardi e giusto in tempo per dare un’occhiata all’ufficio prima di colazione. Alla pesca andava di sera e passava spesso la notte in mare. Augusta mi raccontava dei dispiaceri di Ada, la quale soffriva bensì di una frenetica gelosia, ma anche di trovarsi sola per tanta parte della giornata. Augusta tentava di calmarla ricordandole che a caccia e a pesca non c’erano donne. Però – non si sapeva da chi – Ada era stata informata che Carmen talvolta aveva accompagnato Guido a pesca. Guido, poi, l’aveva confessato aggiungendo che non c’era niente di male in una gentilezza ch’egli usava ad un’impiegata che gli era tanto utile. Eppoi non c’era stato sempre presente Luciano? Egli finì col promettere che non l’avrebbe invitata più, visto che ad Ada ciò dispiaceva. Dichiarava di non voler rinunciare né alla sua caccia che gli costava tanti denari né alla pesca. Diceva di lavorare molto (e infatti in quell’epoca nel nostro ufficio c’era molto da fare) e gli pareva che un po’ di svago gli spettasse. Ada non era di tale parere e le sembrava che il miglior svago egli l’avrebbe avuto in famiglia, e trovava in ciò l’assenso incondizionato di Augusta, mentre a me quello sembrava uno svago troppo sonoro.
Augusta allora esclamava:
– E tu non sei forse a casa ogni giorno, ad ore debite?
Era vero ed io dovevo confessare che fra me e Guido c’era una grande differenza, ma non sapevo vantarmene. Dicevo ad Augusta accarezzandola:
– Il merito è tuo perché hai usato dei metodi molto drastici di educazione.
D’altronde per il povero Guido le cose andavano peggiorandosi ogni giorno di più: dapprima c’erano stati bensì due bambini, ma una balia sola perché si sperava che Ada avrebbe potuto nutrire uno dei bambini. Invece essa non lo poté e dovettero far venire un’altra balia. Quando Guido voleva farmi ridere, camminava su e giù per l’ufficio battendosi il tempo con le parole: – Una moglie… due bambini… due balie!
C’era una cosa che Ada specialmente odiava: Il violino di Guido. Essa sopportava i vagiti dei bambini, ma soffriva orrendamente per il suono del violino. Aveva detto ad Augusta:
– Mi sentirei di abbaiare come un cane contro quei suoni!
Strano! Augusta invece era beata quando passando dinanzi al mio studiolo sentiva uscirne i miei suoni aritmici!
– Eppure anche il matrimonio di Ada è stato un matrimonio d’amore, – dicevo io stupito. – Non è il violino la miglior parte di Guido?
Tali chiacchiere furono del tutto dimenticate quando io rividi per la prima volta Ada. Fui proprio io che per il primo m’accorsi della sua malattia. Uno dei primi giorni del Novembre – una giornata fredda, priva di sole, umida, – abbandonai eccezionalmente l’ufficio alle tre del pomeriggio e corsi a casa pensando di riposare e sognare per qualche ora nel mio studiolo caldo. Per recarmivi dovevo passare il lungo corridoio, e dinanzi alla stanza di lavoro di Augusta mi fermai perché sentii la voce di Ada. Era dolce o malsicura (ciò che si equivale, io credo) come quel giorno in cui era stata indirizzata a me. Entrai in quella stanza spintovi dalla strana curiosità di vedere come la serena, la calma Ada, potesse vestirsi di quella voce che ricordava un po’ quella di qualche nostra attrice quando vuol far piangere senza saper piangere essa stessa. Infatti era una voce falsa o io la sentivo così, solo perché senza neppur aver visto chi la emetteva, la percepivo per la seconda volta dopo tanti giorni sempre ugualmente commossa e commovente. Pensai parlassero di Guido, perché quale altro argomento avrebbe potuto commuovere a quel modo Ada?
Invece le due donne, prendendo una tazza di caffè insieme, parlavano di cose domestiche: biancheria, servitù eccetera. Ma mi bastò di aver vista Ada per intendere che quella voce non era falsa. Commovente era anche la sua faccia ch’io per primo scoprivo tanto alterata, e quella voce, se non si accordava con un sentimento, rispecchiava esattamente tutto un organismo, ed era perciò vera e sincera. Questo io sentii subito. Io non sono un medico e perciò non pensai ad una malattia, ma cercai di spiegarmi l’alterazione nell’aspetto di Ada come un effetto della convalescenza dopo il parto. Ma come si poteva spiegare che Guido non si fosse accorto di tanto mutamento avvenuto nella sua donna? Intanto io, che sapevo a mente quell’occhio, quell’occhio ch’io tanto avevo temuto perché subito m’ero accorto che freddamente esaminava cose e persone per ammetterle o respingerle, potei constatare subito ch’era mutato, ingrandito, come se per vedere meglio avesse forzata l’orbita. Stonava quell’occhio grande nella faccina immiserita e scolorita.
Mi stese con grande affetto la mano:
– Già lo so, – mi disse – tu approfitti di ogni istante per venir a riveder tua moglie e la tua bambina.
Aveva la mano madida di sudore ed io so che ciò denota debolezza. Tanto più mi figurai che, rimettendosi, avrebbe riacquistati gli antichi colori e le linee sicure delle guancie e dell’incassatura dell’occhio.
Interpretai le parole che m’aveva indirizzate quale un rimprovero rivolto a Guido, e bonariamente risposi che Guido, quale proprietario della ditta, aveva maggiori responsabilità delle mie che lo legavano all’ufficio.
Mi guardò indagatrice per assicurarsi ch’io parlavo sul serio.
– Ma pure – disse – mi sembra che potrebbe trovare un po’ di tempo per sua moglie e i suoi figli, – e la sua voce era piena di lacrime. Si rimise con un sorriso che domandava indulgenza e soggiunse:
– Oltre agli affari ci sono anche la caccia e la pesca! Quelle, quelle portano via tanto tempo.
Con una volubilità che mi stupì raccontò dei cibi prelibati che si mangiavano alla loro tavola in seguito alla caccia e alla pesca di Guido.
– Tuttavia vi rinunzierei volentieri! – soggiunse poi con un sospiro e una lagrima. Non si diceva però infelice, anzi! Raccontava che ormai non sapeva neppur figurarsi che non le fossero nati i due bambini ch’essa adorava! Con un po’ di malizia aggiungeva sorridendo che li amava di più ora che ciascuno aveva la sua balia. Essa non dormiva molto, ma almeno, quando arrivava a prender sonno, nessuno la disturbava. E quando le chiesi se davvero dormisse tanto poco, si rifece seria e commossa per dirmi ch’era il suo maggior disturbo. Poi, lieta, aggiunse:
– Ma va già meglio!
Poco dopo ci lasciò per due ragioni: prima di sera doveva andar a salutare la madre eppoi non sapeva sopportare la temperatura delle nostre stanze munite di grandi stufe. Io, che ritenevo quella temperatura appena gradevole, pensai fosse un segno di forza quello di sentirla eccessivamente calda:
– Non pare che tu sia tanto debole, – dissi sorridendo, – vedrai come sentirai diversamente alla mia età.
Essa si compiacque molto di sentirsi designare come troppo giovine.
Io ed Augusta l’accompagnammo fino al pianerottolo. Pareva sentisse un grande bisogno della nostra amicizia perché per fare quei pochi passi camminò in mezzo a noi e si prese prima al braccio di Augusta eppoi al mio che io subito irrigidii per paura di cedere ad un’antica abitudine di premere ogni braccio femminile che s’offrisse al mio contatto. Sul pianerottolo parlò ancora molto e, avendo ricordato il padre suo, ebbe gli occhi di nuovo umidi, per la terza volta in un quarto d’ora. Quando se ne fu andata, io dissi ad Augusta che quella non era una donna ma una fontana. Benché avessi vista la malattia di Ada, non vi diedi alcun’importanza. Aveva l’occhio ingrandito; aveva la faccina magra; la sua voce s’era trasformata ed anche il carattere in quell’affettuosità che non era sua, ma io attribuivo tutto ciò alla doppia maternità e alla debolezza. Insomma io mi dimostrai un magnifico osservatore perché vidi tutto, ma un grande ignorante perché non dissi la vera parola: Malattia!
Il giorno appresso l’ostetrico, che curava Ada, domandò l’assistenza del dottor Paoli il quale subito pronunziò la parola ch’io non avevo saputo dire: Morbus Basedowii. Guido me lo raccontò descrivendomi con grande dottrina la malattia e compiangendo Ada che soffriva molto. Senz’alcuna malizia io penso che la sua compassione e la sua scienza non fossero grandi. Assumeva un aspetto accorato quando parlava della moglie, ma quando dettava delle lettere a Carmen manifestava tutta la gioia di vivere e insegnare; credeva poi che colui che aveva dato il suo nome alla malattia fosse il Basedow ch’era stato l’amico di Goethe, mentre quando io studiai quella malattia in un’enciclopedia, m’accorsi subito che si trattava di un altro.
Grande, importante malattia quella di Basedow! Per me fu importantissimo di averla conosciuta. La studiai in varie monografie e credetti di scoprire appena allora il segreto essenziale del nostro organismo. Io credo che da molti come da me vi sieno dei periodi di tempo in cui certe idee occupino e ingombrino tutto il cervello chiudendolo a tutte le altre. Ma se anche alla collettività succede la stessa cosa! Vive di Darwin dopo di essere vissuta di Robespierre e di Napoleone eppoi di Liebig o magari di Leopardi quando su tutto il cosmo non troneggi Bismark!
Ma di Basedow vissi sol io! Mi parve ch’egli avesse portate alla luce le radici della vita la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all’altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro ed un’estremità – quella di Basedow – stanno tutti coloro ch’esasperano e consumano la vita in grandi desiderii. ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall’altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società. Pare che questo peso sia anch’esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono. Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo più semplicemente, ma è fatta così, col gozzo ad uno dei suoi capi e l’edema all’altro, e non c’è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l’umanità, la salute assoluta manca.
Anche ad Ada il gozzo mancava a quanto mi diceva Augusta, ma aveva tutti gli altri sintomi della malattia. Povera Ada! M’era apparsa come la figurazione della salute e dell’equilibrio, tanto che per lungo tempo avevo pensato avesse scelto il marito con lo stesso animo freddo col quale suo padre sceglieva la sua merce, ed ora era stata afferrata da una malattia che la trascinava a tutt’altro regime: le perversioni psichiche! Ma io ammalai con lei di una malattia lieve, ma lunga. Per troppo tempo pensai a Basedow. Già credo che in qualunque punto dell’universo ci si stabilisca si finisce coll’inquinarsi. Bisogna moversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni. Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri.
La mia malattia fu un pensiero dominante, un sogno, e anche uno spavento. Deve aver avuto origine da un ragionamento: con la designazione di perversione si vuole intendere una deviazione dalla salute, quella specie di salute che ci accompagnò per un tratto della nostra vita. Ora sapevo che cosa fosse stata la salute da Ada. Non poteva la sua perversione portarla ad amare me, che da sana aveva respinto?
Io non so come questo terrore (o questa speranza) sia nato nel mio cervello!
Forse perché la voce dolce e spezzata di Ada mi parve di amore quando s’indirizzò a me? La povera Ada s’era fatta ben brutta ed io non sapevo più desiderarla. Ma andavo rivedendo i nostri rapporti passati e mi pareva che se essa fosse stata còlta da un improvviso amore per me, mi sarei trovato nelle brutte condizioni che ricordavano un poco quelle di Guido verso l’amico inglese dalle sessanta tonnellate di solfato di rame. Proprio lo stesso caso! Pochi anni prima io le avevo dichiarato il mio amore e non avevo fatto alcun atto di revoca fuori di quello di sposarne la sorella. In tale contratto essa non era protetta dalla legge ma dalla cavalleria. A me pareva di essere tanto fortemente impegnato con lei, che se essa si fosse presentata da me molti ma molti anni più tardi, perfezionata magari nella malattia di Basedow da un bel gozzo, io avrei dovuto far onore alla mia firma.
Ricordo però che tale prospettiva rese il mio pensiero più affettuoso per Ada. Fino ad allora, quando m’avevano informato dei dolori di Ada causati da Guido, io non ne avevo certamente goduto, ma pure avevo rivolto il pensiero con una certa soddisfazione alla mia casa nella quale Ada aveva rifiutato di entrare ed ove non si soffriva affatto. Ora le cose avevano cambiato: quell’Ada che m’aveva respinto con disdegno non c’era più, a meno che i miei testi di medicina non sbagliassero.
La malattia di Ada era grave. Il dottor Paoli, pochi giorni dopo, consigliò di allontanarla dalla famiglia e di mandarla in una casa di salute a Bologna. Seppi ciò da Guido, ma Augusta poi mi raccontò che alla povera Ada anche in quel momento non furono risparmiati dei grandi dispiaceri. Guido aveva avuto la sfacciataggine di proporre di metter Carmen alla direzione della famiglia durante l’assenza di sua moglie. Ada non ebbe il coraggio di dire apertamente quello che pensava di una simile proposta, ma dichiarò che non si sarebbe mossa di casa se non le fosse stato permesso di affidarne la direzione alla zia Maria, e Guido si adattò senz’altro. Egli però continuò ad accarezzare l’idea di poter aver Carmen a sua disposizione al posto lasciato libero da Ada. Un giorno disse a Carmen che se essa non fosse stata tanto occupata in ufficio, egli le avrebbe volentieri affidata la direzione della sua casa. Luciano ed io ci guardammo, e certamente scoprimmo ognuno nella faccia dell’altro un’espressione maliziosa. Carmen arrossì e mormorò che non avrebbe potuto accettare.
– Già – disse Guido con ira – per quegli sciocchi riguardi al mondo non si può fare quello che gioverebbe tanto!
Però tacque anche lui presto ed era sorprendente abbreviasse una predica tanto interessante.
Tutta la famiglia accompagnò Ada alla stazione. Augusta m’aveva pregato di portare dei fiori per la sorella. Arrivai un po’ in ritardo con un bel mazzo di orchidee che porsi ad Augusta. Ada ci sorvegliava e quando Augusta le offerse i fiori ci disse:
– Vi ringrazio di cuore!
Voleva significare di aver ricevuto i fiori anche da me, ma io sentii ciò come una manifestazione di affetto fraterno, dolce e anche un po’ fredda. Basedow certo non ci entrava.
Pareva una sposina, la povera Ada con quegli occhi ingranditi smisuratamente dalla felicità. La sua malattia sapeva simulare tutte le emozioni.
Guido partiva con lei per accompagnarla e ritornare dopo pochi giorni. Aspettammo sulla banchina la partenza del treno. Ada rimase affacciata alla finestra della sua vettura e continuò ad agitare il fazzoletto finché poté vederci.
Poi accompagnammo la signora Malfenti lacrimante a casa. Al momento di dividerci mia suocera dopo di aver baciata Augusta, baciò anche me.
– Scusa! – desse ridendo fra le lacrime – l’ho fatto senza proposito, ma se lo permetti ti dò anche un altro bacio.
Anche la piccola Anna, ormai dodicenne, volle baciarmi. Alberta, ch’era in procinto di abbandonare il teatro nazionale per fidanzarsi, e che di solito era un po’ sostenuta con me, quel giorno mi porse calorosamente la mano. Tutte mi volevano bene perché mia moglie era fiorente, e facevano così delle manifestazioni di antipatia per Guido, la cui moglie era malata.
Ma proprio allora corsi il rischio di divenire un marito meno buono. Diedi un grande dolore a mia moglie, senza mia colpa, per un sogno cui innocentemente la feci addirittura partecipare.
Ecco il sogno: eravamo in tre, Augusta, Ada ed io che ci eravamo affacciati ad una finestra e precisamente alla più piccola che ci fosse stata nelle nostre tre abitazioni, cioè la mia, quella di mia suocera e quella di Ada. Eravamo cioè alla finestra della cucina della casa di mia suocera che veramente si apre sopra un piccolo cortile mentre nel sogno dava proprio sul Corso. Al piccolo davanzale c’era tanto poco spazio che Ada, che stava in mezzo a noi tenendosi alle nostre braccia, aderiva proprio a me. Io la guardai e vidi che il suo occhio era ridivenuto freddo e preciso e le linee della sua faccia purissime fino alla nuca ch’io vedevo coperta dei suoi riccioli lievi, quei riccioli ch’io avevo visti tanto spesso quando Ada mi volgeva le spalle. Ad onta di tanta freddezza (tale mi pareva la sua salute) essa rimaneva aderente a me come avevo creduto lo fosse quella sera del mio fidanzamento intorno al tavolino parlante. Io, giocondamente, dissi ad Augusta (certo facendo uno sforzo per occuparmi anche di lei): «Vedi com’è risanata? Ma dov’è Basedow?». «Non vedi?», domandò Augusta ch’era la sola fra di noi che arrivasse a guardare sulla via. Con uno sforzo ci sporgemmo anche noi e scorgemmo una grande folla che s’avanzava minacciosa urlando. «Ma dov’è Basedow?» domandai ancora una volta. Poi lo vidi. Era lui che s’avanzava inseguito da quella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato rigido, la grande testa coperta di una chioma bianca disordinata, svolazzante all’aria, gli occhi sporgenti dall’orbita che guardavano ansiosi con uno sguardo ch’io avevo notato in bestie inseguite, di paura e di minaccia. E la folla urlava: «Ammazzate l’untore!».
Poi ci fu un intervallo di notte vuota. Indi, subito, Ada ed io ci trovavamo soli sulla più erta scala che ci fosse nelle nostre tre case, quella che conduce alla soffitta della mia villa. Ada era posta per alcuni scalini più in alto, ma rivolta a me ch’ero in atto di salire, mentre lei sembrava volesse scendere. Io le abbracciavo le gambe e lei si piegava verso di me non so se per debolezza o per essermi più vicina. Per un istante mi parve sfigurata dalla sua malattia, ma poi, guardandola con affanno, riuscivo a rivederla come m’era apparsa alla finestra, bella e sana. Mi diceva con la sua voce soda: «Precedimi, ti seguo subito!» Io, pronto, mi volgevo per precederla correndo, ma non abbastanza presto per non scorgere che la porta della mia soffitta veniva aperta pian pianino e ne sporgeva la testa chiomata e bianca di Basedow con quella sua faccia fra timorosa e minacciosa. Ne vidi anche le gambe malsicure e il povero misero corpo che il mantello non arrivava a celare. Arrivai a correre via, ma non so se per precedere Ada o per fuggirla.
Ora pare che trafelato io mi sia destato nella notte, e nell’assopimento abbia raccontato tutto o parte del sogno ad Augusta per riprendere poi il sonno più tranquillo e più profondo. Credo che nella mezza coscienza io abbia seguito ciecamente l’antico desiderio di confessare i miei trascorsi.
Alla mattina, sulla faccia di Augusta, c’era il cereo pallore delle grandi occasioni. Io ricordavo perfettamente il sogno, ma non esattamente quello che gliene avessi riferito. Con un aspetto di rassegnazione dolorosa essa mi disse:
– Ti senti infelice perché essa è malata ed è partita e perciò sogni di lei.
Io mi difesi ridendo ed irridendo. Non Ada era importante per me, ma Basedow, e le raccontai dei miei studi e anche delle applicazioni che avevo fatte. Ma non so se riuscii di convincerla. Quando si viene colti nel sogno è difficile di difendersi. È tutt’altra cosa che arrivare alla moglie freschi freschi dall’averla tradita in piena coscienza. Del resto, per tali gelosie di Augusta, io non avevo nulla da perdere perché essa amava tanto Ada che da quel lato la sua gelosia non gettava alcun’ombra e, in quanto a me, essa mi trattava con un riguardo anche più affettuoso e m’era anche più grata di ogni mia più lieve manifestazione di affetto.
Pochi giorni dopo, Guido ritornò da Bologna con le migliori notizie. Il direttore della casa di salute garantiva una guarigione definitiva a patto che Ada trovasse poi in casa una grande quiete. Guido riferì con semplicità e bastevole incoscienza la prognosi del sanitario non avvedendosi che in famiglia Malfenti quel verdetto veniva a confermare molti sospetti sul suo conto. Ed io dissi ad Augusta:
– Ecco che sono minacciato di altri baci di tua madre.
Pare che Guido non si trovasse molto bene nella casa diretta da zia Maria. Talvolta camminava su e giù per l’ufficio mormorando:
– Due bambini… tre balie… nessuna moglie.
Anche dall’ufficio rimaneva più spesso assente perché sfogava il suo malumore imperversando sulle bestie a caccia e a pesca. Ma quando verso la fine dell’anno, ebbimo da Bologna la notizia che Ada veniva considerata guarita e che s’accingeva a rimpatriare, non mi parve che egli ne fosse troppo felice. S’era abituato a zia Maria oppure la vedeva tanto poco che gli era facile e gradevole di sopportarla? Con me naturalmente non manifestò il suo malumore se non esprimendo il dubbio che forse Ada s’affrettava troppo a lasciare la casa di salute prima di essersi assicurata contro una ricaduta. Infatti quand’essa, dopo breve tempo e ancora nel corso di quello stesso inverno, dovette ritornare a Bologna, egli mi disse trionfante:
– L’avevo detto io?
Non credo però che in quel trionfo ci fosse stata altra gioia che quella da lui tanto viva di aver saputo prevedere qualche cosa. Egli non augurava del male ad Ada, ma l’avrebbe tenuta volentieri per lungo tempo a Bologna.
Quando Ada ritornò, Augusta era relegata a letto per la nascita del mio piccolo Alfio e in quell’occasione fu veramente commovente. Volle io andassi alla stazione con dei fiori e dicessi ad Ada ch’essa voleva vederla quello stesso giorno. E se Ada non avesse potuto venire da lei addirittura dalla stazione, mi pregava ritornassi subito a casa, per saperle descrivere Ada e dirle se la sua bellezza, di cui in famiglia erano tanto orgogliosi, le fosse stata restituita intera.
Alla stazione eravamo io, Guido e la sola Alberta, perché la signora Malfenti passava una gran parte delle sue giornate presso Augusta. Sulla banchina, Guido cercava di convincerci della sua grande gioia per l’arrivo di Ada, ma Alberta lo ascoltava fingendo una grande distrazione allo scopo – come poi mi disse – di non dover rispondergli. In quanto a me la simulazione con Guido mi costava oramai poca fatica. M’ero abituato a fingere di non accorgermi delle sue preferenze per Carmen e non avevo mai osato alludere ai suoi torti verso la moglie. Non m’era perciò difficile di avere un atteggiamento d’attenzione come se ammirassi la sua gioia per il ritorno della sua amata moglie.