Kitabı oku: «A Ogni Costo», sayfa 18

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Capitolo 48

8:56 a.m. (orario di Mosca)

Centro strategico di comando e controllo – Mosca, Federazione russa

Jurij Gračëv, ventinovenne, assistente del ministro della Difesa, camminava rapidamente lungo i corridoi del centro di controllo, in direzione dell’ampia sala operativa. I suoi passi facevano l’eco lungo il corridoio vuoto mentre ponderava la situazione. Il peggior scenario possibile era una realtà. Stava per cominciare un disastro.

Per ragioni che nessuno aveva spiegato, negli ultimi quarantacinque minuti la valigetta nera nucleare del Ministro, la Čeget, era stata ammanettata al polso destro di Jurij. La valigetta era vecchia, era pesante, e lo faceva pendere a sinistra mentre camminava. Conteneva i codici e le procedure per lanciare missili verso ovest.

Jurij non voleva avere addosso questa orribile cosa. Voleva andarsene a casa da sua moglie e dal suo giovane figlio. Soprattutto, voleva piangere. Si sentiva tremare tutto il corpo. Il suo viso impassibile minacciava di sbriciolarsi e andare in pezzi.

Quattro ore prima, il governo americano era stato rovesciato con un colpo di stato. Un’ora prima, un nuovo presidente era emerso alla radio e alla televisione e aveva dichiarato guerra all’Iran. Nei circoli del governo russo, il nuovo presidente era ampliamente riconosciuto come un pazzo, nonché la facciata di quell’élite di mercanti di guerra che si nascondeva nell’ombra. La sua possibile salita al potere era stata a lungo vista come il peggior scenario possibile.

Il colpo di stato e la dichiarazione di guerra avevano innescato una serie di protocolli a lungo dormienti qui in Russia. I protocolli erano conosciuti sotto molti nomi, ma la maggior parte della gente li chiamava “Dead Hand.”

La Dead Hand aveva posto i sistemi di difesa russi in uno stato di alta allerta, e aveva dato un’autorizzazione decisionale semi-indipendente alle stazioni missilistiche a lungo raggio, agli aeroplani e ai sottomarini. Decentralizzava il comando.

L’idea era che la Dead Hand desse alle difese russe la capacità di contrattaccare, in seguito a un primo attacco a sorpresa americano che avesse distrutto la leadership di Mosca. Se le comunicazioni fossero state troncate e se fossero stati rilevati movimenti sismici e letture radar inusuali, allora i comandanti regionali e persino i bunker isolati avrebbero potuto decidere da soli se c’era un attacco in corso, e se lanciare o meno un’offensiva nucleare di rappresaglia.

Ma il sistema non funzionava. Era andato deteriorandosi per più di vent’anni, quasi tutta la vita di Jurij. Otto dei dodici originali satelliti di monitoraggio era caduti nell’oceano nel frattempo. Nessuno era stato rimpiazzato.

Le comunicazioni verso le stazioni periferiche erano costantemente troncate. C’erano sempre movimenti sismici inusuali – in ogni momento, piccoli o pure grandi terremoti sconquassavano il globo. Peggio di tutto, il radar sbagliava a identificare abitualmente i lanci dei missili. Nessuno nella leadership l’avrebbe ammesso, ma era vero.

Jurij stesso era stato qui al centro di controllo tre anni fa, quando gli svedesi avevano lanciato un razzo scientifico in orbita. Il sistema di allarme rapido lo aveva scambiato per un missile lanciato da un sottomarino americano di stazione nel Atlantico del Nord.

La valigetta nucleare (all’epoca per fortuna non attaccata al polso di Jurij) aveva cominciato a suonare un allarme. Mandava messaggi di allarme alle stazioni di combattimento, sì, ma emetteva anche un suono udibile, un brutto stridio di chiarina.

I silos missilistici situati nel cuore della Russia erano pronti al combattimento. Se il razzo fosse stato un primo attacco americano, l’impatto sarebbe avvenuto in forse nove minuti. Era un’arma a impulso elettromagnetico a disabilitare la capacità di risposta della Russia? Ci sarebbe stato un attacco di portata maggiore?

Nessuno lo sapeva. A loro onore, c’è da dire che lo staff generale aveva trattenuto il respiro e aspettato. Erano trascorsi lunghi minuti. Allo scadere dell’ottavo minuto, una stazione radio aveva riportato che il razzo aveva lasciato l’atmosfera terrestre. Ci fu un mezzo urrà. Allo scadere dell’undicesimo minuto, la stazione radio aveva riportato che il razzo aveva assunto un normale schema orbitale.

Non ci fu nessun urrà dopo di quello. Le persone erano tornate semplicemente al lavoro.

La Dead Hand non era effettiva quel giorno. Le stazioni di combattimento aspettavano gli ordini dal comando centrale. Ma oggi la Dead Hand era effettiva. Un errore, un sistema di comunicazione che non funzionava, un topo che masticava dei cavi, poteva mettere decisioni nucleari nelle mani di persone lontanissime, magari ubriache, o stanche, o annoiate, o pazze.

Gli americani avevano fatto qualcosa che nessuno si aspettava. Una pericolosa congrega aveva sequestrato il governo a Washington, e le sue successive mosse erano imprevedibili. In risposta, la Russia aveva attivato delle procedure inaffidabili e precarie che mettevano tutto il mondo a rischio.

La Dead Hand era un deterrente del tipo “fail-deadly”. Assicurava mutua distruzione. Magari era stata una buona idea un tempo, durante i gloriosi anni della grande Unione Sovietica, quando le comunicazioni e i sistemi di allarme erano robusti e ben conservati.

Ma ora era un’idea terribile. Ed era diventata una realtà.

Capitolo 49

1:03 a.m.

Bowie, Maryland – Periferia est di Washington D.C

Luke parcheggiò a trenta metri di distanza. La casa era un ranch rialzato, seduto sulla cima di un garage a due posti. Quasi ogni luce della casa era accesa. Uno dei garage era aperto e illuminato. Sembrava di essere sotto Natale.

Non c’era nulla nel garage – solo alcuni utensili appesi al muro, un cestino dei rifiuti, un paio di rastrelli e di pale in un angolo. Luke pensò che Brenna avesse spostato la macchina in modo che Chuck potesse parcheggiarla direttamente lì quando arrivava. Questi non avevano idea di con chi avevano a che fare.

Luke guardò il cielo. Era una notte coperta. Con tutto quello che c’era a rischio, non si sarebbe sorpreso neanche un secondo se un attacco con droni avesse distrutto la casa. L’avrebbero fatto, e poi detto che era stato un fulmine. Solo che probabilmente avrebbero aspettato che Susan Hopkins arrivasse lì prima di farlo.

Si giocava a il vincitore prende tutto.

Suonò il telefono. Lo guardò e rispose.

“Ed.”

“Luke, sono felice che tu sia ancora vivo.”

“Anch’io. Grazie per la dritta. Mi ha salvato.”

“Trudy mi ha detto di chiamarti. Mi ha detto che la tua famiglia è scomparsa. È vero?”

“Sì,” rispose Luke. “Sono scomparsi.”

“Pensi di dimetterti?”

“Temo che sia troppo tardi ormai. La mia migliore chance è andare avanti.”

“Voglio dirti qualcosa in confidenza,” disse Ed. “Una volta ho tenuto in vita un uomo per una settimana, mentre lo stavo uccidendo. Era una faccenda privata, non c’entrava nulla col lavoro. Lo rifarei. Se qualcuno facesse del male alla tua famiglia, lo rifarei per te. Te lo prometto.”

Luke deglutì. Poteva anche arrivare il giorno in cui avrebbe accettato l’offerta di Ed.

“Grazie.”

“Che cosa posso fare per te adesso?”

“Ho un amico,” disse Luke. “È un medico iracheno e lavora al Chief Medical Examiner sulla E Street. Si chiama Ashwal Nadoori. Ho fatto saltare la mia copertura una volta per lui mentre lavoravo all’estero. Gli ho salvato il culo. Mi deve qualcosa. Quando riattacchiamo, voglio che lo chiami. Okay?”

“Ricevuto.”

“Digli che voglio che mi restituisca il favore. Non essere vago. Non ha scelta. Mi ha detto che avrebbe attraversato il deserto in ginocchio per me. Qualcosa del genere. Ricordaglielo. Questa è la sua unica chance di ripagarmi. Poi incontralo… Riesci a camminare?”

“No. Non tanto. Ma posso zoppicare.”

“Allora zoppica fino al suo ufficio. Quando arrivi lì, richiamami, ma non usare il telefono che stai usando adesso. Ruba a qualcun altro il suo. Stanotte io risponderò a tutte le chiamate. Se vedo una chiamata da un numero che non riconosco, saprò che sei tu. Per allora avrò preso un altro telefono. Faremo questa telefonata da due telefoni rubati. E lì darò ad Ashwal le sue istruzioni. Forse dovrai aiutarlo a fare quello che mi serve. Forse dovrai torcergli un po’ il braccio.”

“Okay, Luke. Sono bravino nel torcere braccia.”

“Lo so che lo sei.”

Luke riappese e uscì dall’automobile. Dal baule tirò fuori una scatola di metallo e uno zaino verde. Attraversò lo scuro vicinato fino alla porta principale della casa. Aveva l’impressione che il vicinato non stesse davvero dormendo. Chi poteva dormire in una nottata come questa? Si immaginò dozzine di persone attorno a lui, distese nei letti, forse a sussurrare ai loro cari, forse a piangere, forse a pregare.

Se laggiù era posizionato un cecchino, potevano metterlo fuori gioco adesso. Si preparò allo sparo, ma non ci fu nessuno sparo.

Salì le scale e suonò il campanello. Echeggiò uno scampanellio musicale per tutta la casa. Trascorse qualche momento. Luke mise giù le borse. Si voltò e osservò la notte. Casa dopo casa, strada dopo strada, molti isolati si allungavano oltre la piccola area di Main Street. Per molte persone, questa era probabilmente la peggior notte della loro vita. E lui era una di quelle persone.

Dietro di lui si aprì la porta. Si voltò e un uomo era lì in piedi. Era un uomo alto con capelli argentati e un viso spigoloso. Sembrava il classico sessantacinquenne che non aveva mai fumato e che ancora faceva cinque ore la settimana in palestra. Era pronto per sparare. Teneva tra le mani una grossa pistola. La canna rivolta alla faccia di Luke.

“Posso aiutarla?” chiese l’uomo.

Luke alzò le mani. Nessun movimento improvviso, per non farsi sparare senza ragione. Parlò lentamente e con calma. “Walter Brenna, mi chiamo Luke Stone. Faccio parte dello Special Response Team, FBI. Sono dei buoni.”

“Come conosce il mio nome?”

“Walter, tutti – e voglio dire proprio tutti – conoscono il suo nome. Tutti sanno chi è lei e cosa sta cercando di fare. Sono qui per dirle che non funzionerà. I cattivi hanno sentito la sua conversazione con Chuck Berg, e si stanno recando qui mentre parliamo, se non sono già arrivati. Non riuscirà a tenerli lontani.”

Brenna sorrise. “E lei sì?”

“Sono stato un agente della Delta Force in Afghanistan, Iraq, Yemen e nella Repubblica Democratica del Congo, più altri posti. Nessuno nemmeno lo sa che siamo stati in Congo, capisce?”

Brenna annuì. “Capisco. Ma ciò non significa che mi interessi, né che le creda.”

Luke fece un cenno con la testa. “Li vede quella scatola e quello zaino dietro di me? Sono pieni di armi. So come usarle. Ho smesso di tenere il conto delle mie uccisioni confermate arrivato a quota cento. Se vuole sopravvivere a questa notte, e se vuole che anche la vicepresidente sopravviva a questa notte, dovrebbe lasciarmi entrare.”

Brenna voleva giocare al gioco delle venti domande. “E se non lo faccio?”

Luke scrollò le spalle. “Aspetterò qui fuori. Quando arriva Chuck, gli dirò che la vicepresidente viene con me. Se non è d’accordo, lo ucciderò. Poi prenderò la vice con me in ogni caso. Deve essere tenuta in vita a tutti i costi. Chuck non è importante, e nemmeno lei.”

“Dove pensa di portarla?”

“Da alcuni amici. Ho un dottore che l’aspetta, insieme a un altro ex agente Delta. È il mio partner. Non per niente, ma ha ucciso sei uomini nelle ultime dodici ore. Tre di loro erano sicari del governo. Quando è stata l’ultima volta che ha ucciso qualcuno, Walter?”

Brenna lo fissava.

“Ritiene di farcela senza uccidere nessuno? Se è così, dovrebbe pensarci un pochino meglio.”

La pistola vacillò.

“Io ho suonato il campanello, Walter. Loro non lo faranno.”

Brenna abbassò la pistola. “Entri.”

Luke afferrò le borse ed entrò in casa. Seguì Brenna lungo uno stretto corridoio. Attraversarono un vecchio cucinino. Luke prese subito il comando, e Brenna accettò i suoi ordini.

“Ci sono delle donne qui?” chiese Luke. “Dei bambini?”

Brenna scosse la testa. “Sono divorziato. Mia moglie è andata in Messico. Mia figlia vive in California.”

“Bene.”

Brenna guidò Luke in una stanza spoglia priva di finestre. C’era un tavolo di legno nel mezzo. Vi era disposta dell’attrezzatura medica – bisturi, forbici, antisettici, bendaggi, lacci emostatici. “Questa stanza è rinforzata da doppio acciaio. L’ubicazione è fittizia, a molti metri dai muri della casa. Da fuori non si vede.”

Luke scosse la testa. “No. Useranno gli infrarossi, i rilevatori di calore. Avevamo degli occhialini del genere in Afghanistan. Si riescono a vedere fonti di calore attraverso i muri. Appiccheranno un incendio e noi rimarremo intrappolati qui.”

Luke alzò una mano. “Senta, Walter. Non vinceremo questa partita con le carinerie. Lasceranno cadere ogni messinscena. Nessuna legge. Nessuna negoziazione. C’è troppa carne al fuoco. Quando colpiranno, colpiranno duro. Dobbiamo prepararci. Non esiteranno a dare fuoco a questo posto, e poi diranno a tutti che forse è scoppiata una tubatura del gas. Personalmente, preferirei morire in una sparatoria per strada.”

Luke mise le borse sulla tavola. L’uomo era ovviamente uno di quegli che si chiamano “survivalisti”, che costruivano dispositivi assurdi come questa panic room, e che immagazzinavano cibo in scatola per sopravvivere in caso di apocalisse. L’uomo non era il tipo di Luke, ma era meglio di qualcuno che non fosse per niente preparato.

“Che altro ha?” chiese Luke. “Mi dia qualcosa di buono.”

“Ho un fucile M1 Garand, e una ventina di caricatori con proiettili perforanti incendiari .30-06.”

Luke annuì. “Meglio. Che altro?”

Brenna fece un respiro profondo.

“Coraggio, Walter. Sputi il rospo. Non abbiamo molto tempo.”

“Okay,” disse Brenna. “Ho una GMC Suburban corazzata completamente rifatta nel mercato secondario. È nel garage. Non sembra niente di che, ma le portiere, la carrozzeria, gli interni, le sospensioni, il motore, è tutto coperto d’acciaio, nylon balistico o kevlar. Le gomme sono modificate – si può guidarle per altre sessanta miglia prima che si sgonfino. Il vetro è policarbonato e piombo spesso cinque centimetri. Il peso è immenso, novecento chili più di una Suburban di serie. Anche il motore è modificato, è un V8, e il paraurti anteriore e la griglia sono di acciaio rinforzato – quella cosa può passare attraverso un muro di mattoni.”

Luke sorrise. “Bellissima. E non me lo voleva dire.”

Brenna scosse la testa. “Ci ho messo centomila dollari in quella macchina.”

“E non esiste un momento migliore per usarla,” disse Luke. “Me la mostri.”

Si spostarono nel garage di Brenna. Luke trattenne Brenna di fuori. Erano in piedi vicino alla porta della cucina, coscienti dei possibili punti di osservazione dai quali i cecchini potevano tenere d’occhio il garage aperto. Laggiù c’era la Suburban nera. Brenna aveva ragione. Sembrava un tipico modello recente di SUV. Forse i finestrini erano un po’ più scuri del normale. Forse saltava un po’ troppo agli occhi. O forse era solo l’immaginazione di Luke.

“Ha il pieno?” chiese Luke.

“Certo.”

“Devo prenderla in prestito.”

Brenna annuì. “Me lo immaginavo. Magari vengo con lei.”

“Buona idea. Ha qualche vecchio compagno ai servizi segreti, qualcuno che sia ancora in forma, e di cui sa di potersi fidare?”

“A qualcuno posso pensare. Sì.”

“Questa gente ci serve,” disse Luke. “Diavolo, il paese gli paga ancora una pensione, no? Potrebbero mettersi in prima fila un’ultima volta.”

Proprio allora, il rombo di una motocicletta li raggiunse dalla strada. Arrivava veloce. Apparve dal nulla, fece una curva bassissima nel corto vialetto di Brenna, e si diresse su per la collina al garage. Sbandò fino a fermarsi, la gomma anteriore andò a sbattere contro il muro lontano. L’autista riuscì a tenerla in piedi.

Luke estrasse l’arma, pensando fosse l’inizio dell’attacco.

Brenna corse alla porta del garage. Saltò, afferrò una corda e tirò giù la porta. La chiuse uncinandola a una pesante fibbia che si trovava sul pavimento.

L’uomo sulla moto si tolse il casco scuro. C’era una donna sul sellino posteriore, che lo stringeva attorno alla vita. Luke guardò da più vicino. In effetti non lo stringeva affatto. Aveva i polsi ammanettati attorno alla vita dell’uomo. Era legata a lui anche con due grosse cinghie di pelle. Brenna tirò fuori un coltello e si mise subito a tagliarle.

Una volta che ebbe i polsi liberi, il braccio sinistro della donna cadde di lato. Usò quello destro per togliere il casco. Il corto caschetto biondo le arrivò quasi alle spalle. Il viso era sporco di fuliggine. La mascella era serrata. Il lato sinistro del viso, quasi fino al mento, era di un rosso screpolato e infiammato. Gli occhi blu smentivano la sua stanchezza.

Susan Hopkins si guardò intorno nel garage. Scorse Luke.

“Stone? Che cosa ci fa lei qui?”

“La stessa cosa che ci sta facendo lei,” rispose Luke. “Cerco di riprendermi il mio paese. Sta bene?”

“Sento dolore, ma sto bene.”

L’uomo tirò giù il cavalletto e smontò dalla moto. Era molto alto. Aveva il viso stanco, ma il linguaggio del corpo era eretto e gli occhi attenti.

“Charles Berg?” chiese Luke.

L’uomo annuì. “Mi chiami Chuck,” disse. “La vicepresidente è stata una gran lavoratrice. Abbiamo avuto una nottata dura, ma lei ha tenuto duro. È una tosta.”

“È la presidente,” disse Luke, e la verità di quelle parole lo colpì per la prima volta. “Non la vicepresidente.” La guardò. Era piccola. Luke non riusciva a superare questa cosa. Aveva sempre pensato che le supermodelle dovessero essere alte. Era anche bella, quasi eterea nella sua bellezza. L’ustione sul viso in qualche modo le aveva dato qualcosa in più. Si sentiva come se avesse potuto guardarla per un’ora.

Non aveva un’ora. Poteva non avere neanche cinque minuti.

“Susan, lei è la presidente degli Stati Uniti. Facciamo sì che la gente cerchi di ricordarselo. Credo che aiuterebbe. Ora dobbiamo andarcene di qui.”

Il telefono di Luke prese a squillare. Abbassò gli occhi per guardarlo. Non riconobbe il numero. Era Ed.

“Walter, è una richiesta strana, ma ha un cellulare in più che non ha mai usato?”

Brenna annuì. “Ho cinque o sei telefoni prepagati. Li tengo a portata di mano in caso volessi fare telefonate lampo che non possano essere intercettate. Uso un prepagato una volta e poi lo distruggo.”

Questo tizio aveva tutto. “Lei è un po’ paranoico, no?” disse Luke.

Brenna scrollò le spalle. “Non è proprio il caso di darmi torto a questo punto, no?”

Luke rispose al telefono. “Ed? Sei lì col mio amico? Bene. Ti richiamo subito.”

Capitolo 50

1:43 a.m.

Ufficio del Chief Medical Examiner - Washington D.C.

Ashwal Nadoori riappese.

Sedette pensoso alla scrivania per un attimo. Un grosso uomo di colore sedeva di fronte a lui su una sedia a rotelle. La vista dell’uomo, e il tipo di uomo che era, gli portarono alla mente brutti ricordi.

“Ti ha detto cosa vuole?” chiese l’uomo.

Ashwal annuì. “Vuole un corpo, preferibilmente intatto. Una donna, vicina ai cinquanta, capelli biondi. Qualcuno che sembrasse sano prima di morire.”

“Puoi farlo?”

Ashwal scrollò le spalle. “Questo posto è grande. Abbiamo tanti, tanti corpi. Sono sicuro che ne troveremo uno che soddisfi la descrizione.”

Una volta, in un’altra vita, Ashwal era stato un dottore. Qui in America non accettavano la sua laurea irachena, così ora era solo un assistente medico. Lavorava in questo gigantesco obitorio, a trattare cadaveri, ad assistere alle autopsie, a fare qualsiasi cosa gli assegnassero. Poteva essere un lavoro sgradevole, ma era anche tranquillo a suo modo.

La gente era già morta. Non c’era da lottare per la vita. Non c’era dolore, e non c’era paura di morire. Il peggio che poteva capitare era già capitato. Non c’era bisogno di provare e poi fermarsi, e non c’era bisogno di fingere che non fosse una conclusione scontata.

Ashwal aveva una brutta sensazione allo stomaco. Rubare un cadavere voleva dire rischiare il lavoro. Era un lavoro dignitoso. Ashwal era frugale, e il lavoro pagava abbondantemente le sue bollette. Viveva in una casa modesta con le due figlie. Non gli faceva mancare niente. Sarebbe stata una vergogna terribile perdere le cose che avevano.

Ma che scelta aveva? Ashwal era bahá'í. Era una fede bellissima, di pace, di unità, mossa dal desiderio di conoscere Dio. Amava la sua religione. Ne amava tutto. Ma molti musulmani no. Pensavano che la bahá'í fosse apostasia. Pensavano che fosse eresia. Molti pensavano che dovesse essere punita con la morte.

Quando era un bambino, la sua famiglia aveva lasciato l’Iran per sfuggire alla persecuzione dei bahá'í nel paese. Si erano trasferiti in Iraq, che all’epoca era nemico mortale dell’Iran. L’Iraq era guidato da un pazzo, uno che più che altro lasciava in pace i bahá'í. Ashwal era cresciuto fino a diventare un uomo, aveva studiato sodo ed era diventato un dottore, e si godeva i frutti e i privilegi della sua professione. Ma poi il pazzo era stato rovesciato, e improvvisamente non era più sicuro essere un bahá'í.

Una notte degli estremisti islamici erano venuti e si erano presi sua moglie. Forse alcuni erano suoi ex pazienti, o vicini di casa. Non aveva importanza. Non l’aveva più vista. Perfino ora, dieci anni dopo, non osava immaginare la sua faccia né il suo nome. Semplicemente pensava “moglie”, e bloccava tutto il resto. Non poteva sopportare di pensare a lei.

Non poteva sopportare di pensare che quando l’avevano presa, non c’era nessuno a cui poteva rivolgersi per un aiuto. La società non era più funzionale. Le peggiori tendenze erano state liberate. La gente rideva, o guardava da un’altra parte, quando lui passava per la strada.

Due settimane dopo, di notte, era venuto un altro gruppo, una dozzina di uomini. Questi erano diversi, a lui sconosciuti. Indossavano maschere nere. Avevano portato lui e le sue figlie nel deserto sul retro di un pick-up. Li avevano fatti camminare fuori sulla sabbia. Li avevano obbligati a mettersi in ginocchio sull’orlo di una trincea. Le bambine piangevano. Ashwal non ci riusciva. Non riusciva a confortarle. Era troppo intorpidito. Da un certo punto di vista, quasi gli avrebbe fatto piacere, per il sollievo che avrebbe portato.

Improvvisamente si sentirono degli spari. Fuoco automatico.

All’inizio Ashwal pensò di essere morto. Ma aveva torto. Uno degli uomini stava sparando agli altri. Li uccideva e li uccideva. Gli ci erano voluti meno di dieci secondi. Il suono era assordante. Una volta finito, tre erano ancora vivi, strisciavano tentando di scappare. L’uomo con calma si era avvicinato a ognuno di loro e gli aveva sparato alla nuca con una pistola. Ashwal era trasalito ogni volta.

L’uomo si tolse la maschera. Era un uomo con la lunga barba dei mujahideen. La pelle era scurita dal sole del deserto. Ma i capelli erano chiari, quasi biondi, come quelli di un occidentale. Si avvicinò ad Ashwal e gli offrì una mano.

“Alzati,” aveva detto. La voce era ferma. Del tutto priva di compassione. Era la voce di un uomo abituato a dare ordini.

“Vieni con me, se vuoi vivere.”

L’uomo si chiamava Luke Stone. Era lo stesso uomo che aveva appena detto ad Ashwal di rubare un cadavere. Non aveva scelta. Ashwal non aveva neanche chiesto perché lo volesse. Luke Stone aveva salvato la sua vita e quella delle sue figlie. Le loro vite erano molto più importanti di qualsiasi lavoro.

L’ultima cosa che Luke Stone aveva detto al telefono gli aveva fatto prendere la decisione, se ancora non l’aveva fatto.

“Hanno preso la mia famiglia,” aveva detto.

Ashwal guardò l’uomo di colore sulla sedia a rotelle. “Andiamo nel retro e vediamo cosa riusciamo a trovare?”

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Yaş sınırı:
16+
Litres'teki yayın tarihi:
10 ekim 2019
Hacim:
311 s. 3 illüstrasyon
ISBN:
9781632918314
İndirme biçimi:
Serideki Birinci kitap "Un Thriller Della Serie di Luke Stone"
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