Kitabı oku: «Assassino Zero», sayfa 3
CAPITOLO TRE
Chiunque abbia definito New York “la città che non dorme mai” non è mai stato nella vecchia Avana, rifletté Alvaro mentre si dirigeva verso il porto e il Malecón. Alla luce del giorno, l’Avana vecchia era una bellissima parte della città, una ricca miscela di storia e arte, gastronomia e cultura, ma le strade erano piene di traffico e dei rumori dei cantieri per i vari progetti di restauro volti a riportare i quartieri storici all'antico splendore.
Ma di notte… era di notte che la città mostrava i suoi veri colori. Le luci, i profumi, la musica, le risate: e il Malecón era il posto migliore. Le strette stradine che circondavano Calle 23, dove abitava Alvaro, erano abbastanza vivaci, ma la maggior parte dei bar cubani chiudevano a mezzanotte. Tuttavia, vicino al porto i locali notturni rimanevano aperti, il volume della musica era sempre più alto e l'alcol scorreva copioso in molti bar e locali.
Il Malecón era un'ampia strada che si estendeva per otto chilometri lungo i confini dell'Avana, fiancheggiata da strutture dipinte di verde e rosa corallo. Molti dei locali tendevano a snobbarla a causa dei numerosi turisti, ma questa era una delle molte ragioni per cui Alvaro ne era attratto; nonostante i sempre più numerosi (e irritanti) locali in stile europeo, c'era ancora una manciata di posti in cui un ritmo di salsa resisteva alla musica elettronica proveniente dagli edifici vicini.
Tra la popolazione locale vigeva un detto secondo cui Cuba fosse l'unico posto al mondo in cui bisognasse pagare i musicisti per non suonare, e questo era certamente vero durante il giorno. Sembrava che ogni persona che possedesse una chitarra o una tromba o un set di bonghi avesse aperto un negozio all'angolo di una strada, e in ogni isolato la musica accompagnava il rombo delle macchine edili e il suono dei clacson delle macchine. Ma la notte era una storia diversa, specialmente sul Malecón; la musica dal vivo andava diminuendo, stava perdendo la battaglia contro la musica elettronica, o peggio, stava soccombendo a qualunque hit pop importata dagli Stati Uniti.
Eppure, Alvaro non si preoccupava di nulla di tutto ciò, purché ci fosse La Piedra. Si trattava di uno dei pochi veri bar cubani rimasti sul lungomare: le sue porte erano ancora aperte – letteralmente, bloccate da fermaporta in modo che la musica vivace della salsa arrivasse alle orecchie del visitatore ancora prima di entrare. Non c'era coda per entrare a La Piedra, a differenza delle moltissime discoteche europee. Non c'era una folla brulicante che cercava di richiamare l'attenzione dei baristi accalcandosi ai banconi. L'illuminazione non era debole o stroboscopica ma intensa, proprio per accentuare appieno l'arredamento vibrante e colorato. Una band di sei elementi suonava su un palco che difficilmente poteva essere chiamato tale, costituito da una piattaforma leggermente rialzata nell'angolo più lontano del bar.
Alvaro era in perfetta sintonia con La Piedra, con la sua camicia di seta decorata con un motivo bianco e giallo di Mariposa, il fiore nazionale di Cuba. Era alto e scuro, giovane e ben rasato, piuttosto bello. Qui, nel piccolo club di salsa di Malecón, non era solo un cuoco con le unghie sporche di grasso e lievi ustioni alle mani. Era un misterioso ed eccitante sconosciuto. Una storia allettante da raccontare a casa o un segreto da mantenere.
Si avvicinò al bar e indossò quello che sperava fosse un sorriso seducente. Al bancone c'era Luisa, come quasi tutte le sere. La loro routine era diventata una specie di danza in sé, uno scambio abituale e sempre uguale.
“Alvaro”, disse lei in tono indifferente, a malapena in grado di reprimere un sorriso. “Ecco la nostra trappola per turisti”.
“Luisa”, rispose lui languido. “Sei meravigliosa”. Effettivamente, Luisa era bellissima. Quella sera indossava una luminosa gonna lunga con uno spacco vertiginoso che accentuava le curve dei fianchi, con un top corto bianco appena appoggiato su un perfetto ombelico con un piercing a forma di rosa. I suoi capelli scuri ricadevano sulle spalle in morbide onde, incorniciando i suoi orecchini d'oro. Alvaro sospettava che metà degli avventori di La Piedra venisse solo per vederla; se non altro, per lui era così.
“Stai attento. Non vorrai sprecare le tue migliori battute con me”, scherzò.
“Tutte le mie frasi migliori sono dedicate a te”. Alvaro si appoggiò con i gomiti sul bancone di legno. “Lascia che ti porti a cena. Meglio ancora, lascia che io cucini per te. Il cibo è un linguaggio d'amore, lo sai”.
Lei sorrise. “Richiedimelo la prossima settimana”.
“Lo farò”, promise. “E nel frattempo, posso avere un mojito, per favore?”
Luisa si girò per preparare il suo drink, e Alvaro intravide la farfalla tatuata sulla spalla sinistra. Questi erano i loro passi di danza, i passi della loro salsa: un complimento, una proposta, un rifiuto, un drink. E altro ancora.
Alvaro distolse lo sguardo da lei e si guardò attorno al bar, ondeggiando dolcemente al suono della musica vivace. Gli avventori erano un piacevole mix di gente del posto e turisti amanti della musica, per lo più americani, alcuni europei e occasionalmente qualche gruppo di asiatici, tutti alla ricerca dell'autentica esperienza cubana e, con un po' di fortuna, lui sarebbe diventato parte dell'esperienza di qualcuna di loro.
In fondo al bar scorse dei capelli rosso fuoco, una pelle di porcellana, un bel sorriso. Appartenevano a una giovane donna, probabilmente degli Stati Uniti, sulla ventina. Era lì con due amici, seduti di fianco a lei su due sgabelli da bar. Uno di loro disse qualcosa che la fece ridere; inclinò la testa all'indietro e sorrise ancora di più, mostrando i suoi denti perfetti.
Gli amici potrebbero essere un problema. La donna dai capelli rossi non indossava alcun anello e sembrava si fosse vestita appositamente per attirare l'attenzione, ma sarebbero stati gli amici a decidere per lei.
“È carina”, disse Luisa mentre posava il mojito davanti a sé. Alvaro scosse la testa; non si era reso conto che la stava fissando.
Si strinse nelle spalle, cercando di scherzarci su. “Non è bella come te”.
Luisa rise di nuovo, questa volta di lui, mentre alzava gli occhi al cielo. “Sei tanto sciocco quanto dolce. Vai da lei”.
Alvaro prese il suo drink, mentre il suo cuore si spezzava ogni volta che Luisa respingeva le sue avance, sperando di trovare conforto in quella turista americana dai capelli rossi. I suoi metodi erano ben esercitati, sebbene non del tutto infallibili. Ma quella sera Alvaro si sentiva fortunato.
Si aggirò lungo il bancone, oltrepassando la ragazza e i suoi due amici senza rivolgere loro uno sguardo. Si sedette a un tavolo alto nella sua visuale e si appoggiò ad esso con i gomiti, battendo il tempo con la musica, aspettando il momento giusto. Poi, dopo un minuto, si guardò alle spalle con scioltezza.
La ragazza dai capelli rossi lo guardò a sua volta e i loro occhi si incontrarono. Alvaro distolse lo sguardo, sorridendo timidamente. Aspettò di nuovo, contando mentalmente fino a trenta prima di guardarla di nuovo. Lei distolse rapidamente lo sguardo. Lo stava guardando. Non aveva bisogno di altro.
Quando la canzone finì e il bar scoppiò in un applauso per la band, Alvaro raccolse il suo mojito e si avvicinò alla ragazza, non troppo in fretta, con le spalle dritte, la testa alta e sicuro di sé. Le sorrise e lei ricambiò il sorriso.
“Hola. ¿Bailar conmigo?”
La ragazza sbatté le palpebre confusa. “Scusami”, balbettò dolcemente. “Non parlo spagnolo…”
“Dance with me”. L'inglese di Alvaro era impeccabile, ma esagerò il suo accento per sembrare più esotico.
La ragazza arrossì, e le sue guance diventarono quasi dello stesso colore dei suoi capelli. “Io… non sono capace”.
“Ti insegno io. È facile”.
La ragazza sorrise nervosamente e, come Alvaro aveva previsto, guardò le sue amiche. Una di loro scrollò le spalle. L'altra annuì con entusiasmo e Alvaro dovette sforzarsi di non sorridere con troppo entusiasmo.
“Umm… va bene”.
Lui tese una mano e lei la prese, le sue dita calde in quelle di lui mentre la conduceva sulla pista da ballo, un'ampia area all'interno del bar in cui i tavoli erano stati allontanati per far spazio agli avventori giunti lì per la musica.
“Per ballare la salsa non serve conoscere i passi correttamente”, le disse. “È sufficiente seguire la musica. Così”. Quando la band iniziò la canzone successiva, Alvaro fece un passo avanti con il ritmo, dondolandosi sul piede posteriore e tornando subito indietro. I suoi gomiti ondeggiavano vagamente ai suoi lati, una mano ancora nella sua, muovendo i fianchi a ritmo con i suoi passi. Non era di certo un esperto, ma era dotato di un naturale senso del ritmo che faceva sembrare impressionanti anche i passi più semplici.
“Così?” La ragazza imitò rigidamente i suoi passi.
Lui sorrise. “Sì. Ma più sciolta. Fai come me. Uno, due, tre, pausa. Cinque, sei, sette, pausa”.
La ragazza rise nervosamente cercando di apprendere i passi, sciogliendosi progressivamente man mano che diventava più sicura. Alvaro temporeggiò, aspettando che la canzone finisse e che ne iniziasse un'altra prima di posarle delicatamente una mano sul fianco, mentre entrambi ballavano, dicendole: “Sei molto bella. Come ti chiami?”
La ragazza arrossì di nuovo. “Megan”.
“Megan”, ripeté. “Io sono Alvaro”.
La ragazza, Megan, sembrava sempre più a suo agio, cedendo progressivamente al fascino di uno sconosciuto bello e misterioso in quella terra esotica. Tutto stava andando secondo i suoi piani. Lei osò avvicinarsi, chiudendo gli occhi, seguendo la musica come lui le aveva detto, mentre i suoi fianchi ondeggiavano seguendo i passi di salsa, non erano così belli e formosi come i fianchi di Luisa, notò, ma erano comunque attraenti. Alvaro sapeva per esperienza di non muoversi troppo velocemente, di lasciare che la musica e la sua immaginazione prendessero il sopravvento, e poi…
Si accigliò per la sensazione che lo attraversava. Era insolito che la musica elettronica suonata nella discoteca vicino si sentisse attraverso i muri, ma avrebbe potuto giurare di averla udita.
Non l’ho sentita, realizzò, l’ho percepita. Sentì uno strano brontolio nel corpo, difficile da identificare e ancora più difficile da descrivere, al punto che sul momento la imputò ai bassi emessi dalle casse troppo potenti del club della porta accanto. La sua compagna dai capelli rossi aprì gli occhi e il suo viso assunse un'espressione preoccupata. L'aveva sentito anche lei.
Improvvisamente l'intero club cambiò, o sembrò che lo facesse, quando un'ondata di vertigini si abbatté su Alvaro. Inciampò da un lato, riprendendo l'equilibrio solo un secondo prima di cadere. La ragazza americana non fu così fortunata e cadde. A uno a uno i musicisti della band smisero di suonare, e Alvaro poté sentire le grida spaventate degli avventori di La Piedra, accompagnate dal debole battito del basso dalla porta accanto.
Qualunque cosa fosse, l'avevano sentita tutti.
Improvvisamente si sentì assalito da un forte mal di testa e da una sensazione di nausea. Alvaro guardò bruscamente alla sua sinistra in tempo per vedere Luisa cadere dietro il bancone.
Luisa!
Riuscì a fare due passi prima che le vertigini si facessero sentire nuovamente, facendolo inciampare contro un tavolo. Mentre si ribaltava, del vetro si schiantò sul pavimento. Una donna urlò, ma Alvaro non riuscì a determinare dove si trovasse.
Cadde in ginocchio e strisciò, determinato a trovare Luisa. Doveva portarle fuori di lì, a costo di trascinarle entrambe per tutto il locale. Ma quando poi alzò lo sguardo, tutto ciò che riuscì a vedere furono sagome sfocate. La sua vista si offuscò. I suoni nel locale in preda al panico svanirono, sostituiti da un solo rumore acuto. I colori vibranti di La Piedra si attenuarono, gli angoli più nascosti diventarono marroni e poi neri, e Alvaro si lasciò cadere sul pavimento, stordito e incapace di sentire altro che quel rumore prima di perdere conoscenza.
CAPITOLO QUATTRO
Jonathan Rutledge non voleva alzarsi dal letto.
Per essere onesti, era un letto fantastico. Era un letto regale, sebbene, rifletté in quelle prime ore del mattino, forse sarebbe stato più appropriato chiamarlo presidenziale.
Si girò sbadigliando e istintivamente allungò la mano verso lo spazio vuoto accanto a lui. Strano, pensò, come rimanesse sempre dalla sua parte del letto anche quando Deidre era fuori città. Rimase sbalordito dalla rapidità con cui aveva preso la sua nuova posizione; al momento stava viaggiando nel Midwest, facendo contatti per finanziare programmi di arte e musica nelle scuole pubbliche, mentre lui spingeva ulteriormente la sua faccia in un cuscino come se potesse soffocare il suono che sapeva sarebbe arrivato da un momento all'altro.
E mentre faceva ciò, il telefono vicino a lui suonò di nuovo.
“No”, si disse. Era il giorno del ringraziamento. Le uniche cose sul suo programma erano graziare un tacchino, fare alcune foto con le sue figlie e poi godersi un buon pasto privato con loro. Perché lo stavano disturbando all'alba di un giorno di vacanza?
Un forte bussare alla porta lo fece sussultare. Rutledge si alzò a sedere, si stropicciò gli occhi e disse ad alta voce: “Sì?”
“Signor presidente”. Una voce femminile lo chiamò attraverso la spessa porta della suite padronale della Casa Bianca. “Sono Tabby. Posso entrare?”
Era Tabitha Halpern, il suo capo di stato maggiore. Se si presentava così presto, questo significava che non portava notizie buone, né tantomeno un caffè.
“Se proprio devi”, mormorò.
“Signore?” Non l'aveva sentito.
“Vieni, Tabby”.
La porta si aprì e la Halpern entrò; indossava un elegante tailleur blu scuro con una camicetta bianca. Fece due passi verso di lui e poi si fermò altrettanto all'improvviso, lanciando lo sguardo sul tappeto, visibilmente a disagio di fronte al presidente sdraiato sul letto in pigiama di seta.
“Signore”, gli disse, “c'è stato un… incidente. È necessario che si presenti nella Stanza delle Decisioni”.
Rutledge si accigliò. “Che tipo di incidente?”
Per un attimo, la donna esitò prima di rispondere. “Un sospetto attacco terroristico all’Avana”.
“Il giorno del ringraziamento?”
“È successo a tarda notte, ma… tecnicamente sì, signore”.
Rutledge scosse la testa. Che tipo di perversi potevano aver pianificato un attacco durante un giorno di festa? A meno che…” Tabby, Cuba celebra il Ringraziamento?”
“Signore?”
“Non importa. C'è tempo per un caffè?”
Lei annuì. “Gliene farò arrivare uno immediatamente”.
“Fantastico. Dì loro che sarò lì tra venti minuti”.
Tabby si girò sui tacchi e uscì dalla camera da letto, chiudendo la porta dietro di sé e lasciando Rutledge a brontolare sottovoce per l'ingiustizia della situazione. Alla fine, si alzò, stiracchiandosi e gemendo di nuovo e chiedendosi, per quella che doveva essere stata la diecimillesima volta, come si fosse trovato a vivere alla Casa Bianca.
La risposta tecnica era semplice. Cinque settimane prima, Rutledge era il presidente della Camera, un presidente della Camera davvero bravo, anche se non spettava a lui dirlo. Durante la sua carriera politica aveva guadagnato la reputazione di politico incorruttibile, fedele al suo codice morale e fermo nelle sue convinzioni.
Poi era arrivata la notizia del coinvolgimento dell'ex presidente Harris con i russi e del loro piano di annettere l'Ucraina. Con le prove incontrovertibili della registrazione di un interprete, le procedure di impeachment erano andate vertiginosamente in fretta. Quindi, a pochi minuti dalla mezzanotte prima della definitiva espulsione di Harris, il presidente, per ottenere una pena ridotta, aveva dichiarato il coinvolgimento del suo vicepresidente. Il vicepresidente Brown si era piegato come una sedia da giardino, non potendo in alcun modo negare di essere stato a conoscenza del coinvolgimento di Harris con Kozlovsky e i russi.
Era successo tutto in un giorno. Prima ancora che Rutledge avesse finito di leggere la trascrizione della testimonianza di Brown, l'impeachment di Harris fu approvato dal Senato e il vicepresidente si dimise con un processo in corso. Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il terzo uomo nella gerarchia del potere, il Presidente della Camera democratico Jonathan Rutledge, avrebbe preso posto nello Studio Ovale.
Lui non lo voleva. Pensava che guidare la Camera sarebbe stato l'apice della sua carriera; non aveva mai aspirato ad andare oltre. E avrebbe potuto dire quelle tre piccole parole che avrebbero fatto la differenza, “rifiuto l'incarico”, ma così facendo avrebbe deluso tutto il suo partito. Il presidente Pro Tempore del Senato era un repubblicano del Texas, all'estrema destra nello spettro politico per quanto fosse possibile in un sistema democratico.
E così Rutledge divenne il Presidente Rutledge. Il suo prossimo passo sarebbe stato nominare un vicepresidente e far votare il Congresso, ma erano passate quattro settimane dal suo insediamento e non lo aveva ancora fatto, nonostante le crescenti pressioni e le numerose critiche. Era una decisione molto importante, e dopo quello che avevano fatto le ultime due amministrazioni, non c'erano molte persone a voler ancora ambire a quel ruolo. Aveva in mente qualcuno, la senatrice della California, Joanna Barkley, ma dall'inizio del suo mandato la situazione era stata tumultuosa, e aveva l'impressione che polemiche e critiche lo attendessero ad ogni angolo.
Ogni giorno gli venivano date motivazioni sufficienti per voler desistere. Ed era profondamente consapevole di poterlo fare; Rutledge avrebbe potuto nominare Barkley come suo vicepresidente, ottenere il voto di approvazione dal Congresso e quindi dimettersi, facendo di Barkley la prima donna presidente degli Stati Uniti. Avrebbe potuto giustificarlo con il vortice di eventi che avevano caratterizzato l'inizio del suo mandato. Sarebbe stato lodato, immaginava, per aver portato una donna alla Casa Bianca.
Era allettante. Soprattutto quando veniva svegliato con una notizia di un attacco terroristico nel Giorno del Ringraziamento.
Rutledge si abbottonò una camicia e annodò una cravatta blu, ma decise di non indossare una giacca e si rimboccò le maniche. Un inserviente fece entrare un carrello con caffè, zucchero, latte e pasticcini assortiti, ma prese semplicemente una tazza di caffè e la portò con sé mentre due agenti dei Servizi Segreti camminavano silenziosamente al suo fianco mentre procedeva verso la Stanza delle Decisioni.
Quella di venire costantemente scortato era solo un'altra cosa a cui doveva abituarsi. Essere sempre osservato. Non essere mai veramente solo.
I due agenti in abiti scuri lo seguirono giù per una rampa di scale e lungo una sala dove lo aspettavano altri tre agenti dei servizi segreti, i quali al suo arrivo annuirono mormorando “Signor Presidente”. Si fermarono davanti a due doppie porte di quercia; uno degli agenti si dispose di fronte a Rutledge a braccia conserte mentre l'altro gli aprì la porta, introducendolo alla Sala Conferenze John F. Kennedy, una sala di cinquecento metri quadri nel seminterrato dell'ala ovest della Casa Bianca, più comunemente nota come la Stanza delle Decisioni.
Le quattro persone già presenti si alzarono mentre il presidente raggiungeva la sua posizione all'estremità di un tavolo. Alla sua sinistra c'era Tabby Halpern e accanto a lei il segretario alla Difesa Colin Kressley. Il Segretario di Stato e il Direttore dei servizi segreti nazionali erano assenti; erano stati inviati a Ginevra per parlare alle Nazioni Unite sulla guerra commerciale in corso con la Cina e su come questa avrebbe potuto avere un impatto sulle importazioni europee. Al loro posto c'era il direttore della CIA Edward Shaw, un uomo dall'aspetto severo che Rutledge non aveva mai visto sorridere. E accanto a lui c'era una donna bionda sulla trentina, in tenuta professionale ma innegabilmente meravigliosa. Uno sguardo ai suoi occhi grigio ardesia gli riportò un ricordo alla memoria; Rutledge l'aveva incontrata prima, forse al suo insediamento, ma non riusciva a ricordare il suo nome.
Non comprendeva come tutti si fossero riuniti così in fretta, vestiti in modo impeccabile e apparentemente così pronti. Vispi e arzilli, come diceva sua madre. Improvvisamente Rutledge si sentì decisamente sciatto con le sue maniche di camicia arrotolate e la cravatta allentata.
“Accomodatevi”, disse Rutledge mentre si abbandonava su una sedia di pelle nera. “Vogliamo dare a questa materia l'attenzione che merita, ma sicuramente ciascuno di noi vorrebbe essere altrove oggi. Quindi occupiamocene subito”.
Tabby fece un cenno a Shaw, che incrociò le mani sul tavolo. “Signor presidente”, disse il direttore della CIA, “alle 01.00 di ieri notte, si è verificato un incidente all’Avana, Cuba, in particolare vicino alla costa settentrionale del porto, in una zona chiamata Malecón, una popolare località turistica. Nell’arco di circa tre minuti, oltre cento persone hanno manifestato una serie di sintomi, che vanno da vertigini e nausea a perdita permanente dell'udito, perdita della vista e, in uno sfortunato caso, morte”.
Rutledge lo fissò attonito. Quando Tabby aveva detto un sospetto attacco terroristico, aveva supposto che fosse esplosa una bomba o che qualcuno avesse aperto il fuoco in un luogo pubblico. Perché gli stavano riferendo di strani sintomi e della perdita dell'udito? “Mi dispiace, direttore, non sono sicuro di seguire”.
“Signore”, disse la donna bionda accanto a lui. “Vicedirettore Maria Johansson, CIA, Unità Operazioni Speciali”.
Johansson, giusto. Rutledge ricordò improvvisamente di averla incontrata, come aveva pensato, il giorno del suo insediamento.
“Ciò che il direttore Shaw sta descrivendo”, continuò, “sono i tipici effetti di un'arma a ultrasuoni. Questo tipo di concentrazione su un'area limitata in un periodo di tempo così breve ci induce a supporre che si tratti di un attacco mirato”.
Le sue parole non aiutarono affatto Rutledge ad avere una visione più chiara. “Mi dispiace”, disse di nuovo, sentendosi un inetto. “Ha detto un'arma ad ultrasuoni?”
Johansson annuì. “Sì, signore”. Le armi ad ultrasuoni sono generalmente utilizzate come deterrenti non letali; la maggior parte delle navi della nostra Marina ne è equipaggiata. Le navi da crociera le utilizzano come difesa contro i pirati. Ma sulla base di ciò che sappiamo sia accaduto a Cuba, l'arma utilizzata ha effetti su più larga scala ed è più potente rispetto a quelle impiegate dal nostro esercito”.
Tabby si schiarì la gola. “La polizia dell'Avana ha raccolto notizie di almeno tre testimoni oculari che affermano di aver visto un gruppo di uomini mascherati caricare uno “strano oggetto” su una barca a seguito dell'attacco”.
Rutledge si massaggiò le tempie. Un'arma ad ultrasuoni? Sembrava uscito da un film di fantascienza. Non avevano mai smesso di stupirlo e confonderlo i modi creativi e originali in cui gli uomini cercavano di farsi del male e uccidersi a vicenda.
“Presumo che non crediate che questo sia un incidente isolato”, disse Rutledge.
“Ci piacerebbe presumere così, signore”, rispose Shaw. “Ma semplicemente non possiamo. Quell'arma e le persone che l'hanno utilizzata sono in libertà da qualche parte”.
“E la natura di questo attacco”, intervenne Johansson, “sembra casuale. Non possiamo discernere un motivo per colpire l'Avana o un'altra destinazione turistica ad eccezione dalla facilità di accesso e fuga, che in un caso come questo generalmente indicherebbe un banco di prova”.
“Un banco di prova”, ripeté Rutledge. Non aveva mai prestato servizio militare, né era mai stato impiegato in operazioni di intelligence o segrete, ma era pienamente consapevole di ciò che il vicedirettore stava suggerendo: quello era il primo attacco e ce ne sarebbero stati altri. “E suppongo che dovrei anche presumere che alcune delle vittime fossero americane”.
Tabby annuì. “Esatto, signore. Due di loro hanno riscontrato una cecità permanente. E l'unica vittima era una giovane donna americana…” Consultò i suoi appunti. “Di nome Megan Taylor. Del Massachusetts”.
Rutledge non era preparato ad affrontare tutto questo. Era già abbastanza grave che non avesse ancora nominato il suo vicepresidente, una decisione su cui si era inabissato perché non era sicuro che non si sarebbe dimesso subito dopo. Era abbastanza grave che fosse nell'occhio del ciclone, non solo dei media ma praticamente di tutto il mondo, a causa dei comportamenti dei suoi due predecessori. Era abbastanza grave che il nuovo leader della Cina avesse scatenato una guerra commerciale con gli Stati Uniti imponendo tariffe sempre crescenti sull'enorme quantità di esportazioni prodotte in quel paese, che si prevedeva potesse causare un balzo dell'inflazione e, a lungo termine, potenzialmente destabilizzare l'economia americana.
E tutto ciò nel giorno del Ringraziamento.
“Signore?” Tabby lo incalzò con garbo.
Rutledge non si era reso conto di essersi perso nei suoi pensieri. Sobbalzò e si stropicciò gli occhi. “Va bene, ricapitolando: abbiamo motivo di credere che gli Stati Uniti potrebbero diventare un bersaglio?”
“Attualmente”, affermò il direttore Shaw, “dovremmo operare partendo dal presupposto che gli Stati Uniti saranno un obiettivo. Non possiamo permetterci di non farlo”.
“Abbiamo qualche informazione su chi possa esserci dietro a tutto questo?” Chiese Rutledge.
“Non ancora”, rispose Johansson.
“Queste azioni non ricordano il modus operandi di nessuno dei nostri amici mediorientali”, disse il generale Kressley. “Se dovessi fare una scommessa, penserei ai russi”.
“Non possiamo fare alcun tipo di ipotesi”, ribadì la Johansson con fermezza.
“Data la nostra storia recente”, affermò Kressley, “la definirei un'ipotesi plausibile”.
“Siamo un'agenzia di intelligence”, replicò la Johansson, seppur con un lieve sorriso. “E come tale, raccoglieremo informazioni e lavoreremo sui fatti. Non sulle supposizioni. Non sulle ipotesi”.
Rutledge era attratto da quella graziosa donna bionda che si rifiutava di retrocedere di fronte a un generale con quattro stellette. Si rivolse a lei e le chiese: “Cosa propone, Johansson?”
“Il nostro miglior ingegnere sta attualmente progettando un metodo per rintracciare questo tipo di arma. Basandomi sull’Avana, direi che è molto probabile che gli autori stiano vicino all'acqua e colpiscano un'area costiera. Con la sua approvazione, signore, vorrei inviare una squadra delle Operazioni Speciali per rintracciarli”.
Rutledge annuì lentamente: un'operazione della CIA sembrava un'opzione molto più accattivante rispetto al portare l'attenzione su un potenziale attacco. In silenzio e con discrezione, pensò. Poi gli venne improvvisamente un'idea.
“Johansson”, chiese, “tra i tuoi agenti c'è l'uomo che ha portato alla luce il caso Kozlovsky, giusto? Colui che ha trovato l'interprete e ha recuperato la registrazione?”
La Johansson apparì stranamente titubante, ma annuì. “Sì, signore”.
“Come si chiama?”.
“Sarebbe… beh, lo chiamiamo Zero. Agente Zero, signore”.
“Zero. Giusto”. Rutledge si massaggiò il mento. “Lui. Voglio che mandiate lui”.
“Uhm, signore… non è abbastanza pronto per il campo in questo momento. Sta lavorando per tornare sul campo”.
Il presidente non sapeva cosa significasse, ma gli sembrava una scusa o un eufemismo. “Il suo compito è fare in modo che sia pronto, vicedirettore”. Non avrebbe accettato repliche; Rutledge sapeva che quello era l'uomo giusto. L'agente aveva salvato da solo l'ex presidente Pierson dall'assassinio e aveva scoperto il patto segreto tra Harris e i Russi. Se ci fosse stato qualcuno in grado di trovare l'arma ultrasonica e chiunque ci fosse dietro, doveva essere lui.
“Se posso”, disse la Johansson, “la CIA ha uno dei migliori tracker al mondo a sua disposizione. Un ex Ranger e un agente decorato a pieno titolo…”
“Fantastico”, la interruppe Rutledge, “mandate anche lui. Il prima possibile”.
“Sì, signore”, rispose piano la Johansson, fissando il piano del tavolo.
“C'è qualcos'altro?” chiese. Nessuno parlò, quindi Rutledge si alzò dal suo posto e anche gli altri quattro nella Stanza delle Decisioni si alzarono. “Allora tenetemi aggiornato e provate a godervi la festa, per quanto possibile”. Annuì e uscì dalla sala conferenze, e i due agenti dei servizi segreti lo seguirono immediatamente.
Essere sempre osservato. Non essere mai veramente solo.
In realtà, si rese conto, si sbagliava. In quel momento, si sentì in tutt'altro modo: non importa quante persone lo circondassero, lo consigliassero, lo proteggessero, lo spingessero in una direzione o nell'altra, si sentiva veramente solo.