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Kitabı oku: «Il processo Bartelloni», sayfa 3

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V

– Signor avvocato, la prego a moderarsi…

– Non si può moderare, signor presidente, l’amore della verità, della giustizia… la convinzione profonda, che io ho della innocenza di un infelice perseguitato…

Si udirono nel pubblico mormorii ostili a Nello.

– La impopolarità non mi spaventa, – continuò il sommo avvocato, voltandosi e lanciando intorno a sè occhiate di sprezzo. – Non spaventò Socrate quando quel grandissimo, divino....

– Signor avvocato, ella deve parlare alla Rota e non al pubblico… E alla più piccola vociferazione avverto il pubblico che non sarà più ammesso ad assistere alla continuazione del processo.

I poteri del presidente della Rota erano amplissimi.

Il pubblico tornò in un attimo ad essere tranquillo.

Il focoso oratore, incoraggiato dai giovani entusiasti, che gli stavano sempre dattorno, e lo salutavano di tanto in tanto con un mal simulato fremito d’ammirazione, andò innanzi dicendo:

«Io devo insistere nell’affermare che l’inquisizione è stata in questo processo mal condotta, e senza imparzialità…»

– Ma, signor avvocato…

– Qui dunque si vuol violare la mia coscienza?

– Continui… ma l’avverto di tenersi nei limiti.

«Sì, la mia coscienza di galantuomo si ribella nel percorrere le carte, preparate nei silenzi della Cancelleria, quelle carte, su cui il Fisco fonda il suo spietato Vangelo!

«Il Fisco vuole esclusa ogni relazione fra il delitto consumato la notte del 14 gennaio, e la stanza misteriosa, segnata di N. 5, che si apre nel Vicolo della Luna. Ma noi sogniamo, o siamo desti? Assistiamo allo svolgimento di un terribile, serio dramma giudiziario, o all’intrigo di una commedia?»

Il presidente tornò() a interrompere l’oratore. Di rado gli avvocati davano allora in tali escandescenze, e lo stesso avvocato Arzellini, sebbene noto per una insolita impetuosità, non era mai andato tant’oltre.

Il presidente lo avvertiva con benevolenza perchè anch’egli si sentiva sempre più propenso in favore di Nello, e la convinzione della innocenza di lui gli si approfondiva nell’animo.

«Quasi avrei abbandonato tale argomento, – aggiunse l’avvocato Arzellini, – se nelle stesse carte processuali, preparate dagli attuarii, non avessi trovato un gravissimo indizio.

«E a comprendere che sia gravissimo non vi è bisogno davvero di avere sfogliato i ponderosi volumi de’ Bruni, de’ Bianchi, dei Casonii, de’ Farinacci sulla materia indiziaria.

«Gli agenti della polizia, allorchè fecero l’accesso nella stanza misteriosa, vi trovarono… fate bene attenzione, o signori… vi trovarono acceso un lume.

«Dunque quel lume avea servito ad illuminare le carezze, i trasporti di un convegno amoroso… aveva servito ad illuminare qualcuno, che poco innanzi era presente nella stanza, seduto alla tavola sulla quale si trovarono bicchieri sempre umidi del vino versatovi, i dolci a metà morsicchiati…

«Forse per il Fisco la lampada pendeva accesa da quel soffitto sin dalla creazione del mondo?… Chi dunque si trovava nella stanza, al momento in cui il delitto era consumato dinanzi alla porta, anche ammesso che le persone in tale stanza convenute al delitto sien rimaste estranee?

«Chi vi si trovava? Quali rumori ha udito? E che cosa ha fatto la polizia, non sapendo scuoprire, perdendo, anzi, a dirittura, le traccie di tal gente?

«E non basta!

«Attiguo al luogo del delitto è un infame raddotto.

«Perchè la polizia non ha spinto oltre quelle infette pareti le sue indagini?

«Ha forse essa avuto paura, mettendo il piede in quella soglia di sozzure, di contaminarsi, di lasciarvi il proprio candore?

«Perchè il processo inquisitorio è muto su tutti questi particolari?

«Perchè noi non sappiamo oggi – e l’elevatissimo accento dell’avvocato scuoteva tutti – chi è entrato nell’immondo raddotto della Palla tra la sera e la notte del 14 gennaio, se qualcuno vi entrò titubante, eccitando sospetti; infine perchè non si è cercato anche là, dove ben potevano trovare, o cercare asilo un delinquente, e i complici, gli ausiliarii di un delinquente?

«Altra lacuna imperdonabile e di suprema gravità è negli atti.

«Chi ci dice dove il pittore Gandi abbia passato la sera del 14 gennaio?

«È vero che egli non poteva parlare, che non si potevano ottener da lui risposte, ma se il suo labbro era muto, perchè la polizia, l’autorità inquisitoria non è eloquente e zelante nel fornirci tutti i particolari della causa, almeno quanto è eloquente e zelante il Fisco nell’accusare questo sfortunato?

«Sopra un tal punto io debbo esser molto circospetto, alti riguardi mi prescrivono una necessaria discrezione, ma di un indizio molto importante dobbiamo tener conto, che il pittore Roberto Gandi indossava panni umili, dimessi, la sera del delitto… si era insomma travestito!

«Ciò risulta dagli atti del processo.

«Ma travestito si era a quale scopo?

«Vedete quante oscurità; quanti dubbii, quante ambagi solleva questo processo!…

«Solo il Fisco è sicuro, egli non ama i complicati problemi. Non gli va a grado l’analisi, la quale separa e decompone. Egli vagheggia la sintesi, che tutto riduce ad un’asserzione compatta e unica.

«Meno a lui piacciono il dubbio, la lentezza di esame e la irresolutezza alla quale conduce. Lo incomoderebbe la titubanza di Ercole al bivio tra i due opposti inviti di Aretea e di Edonide. Valendosi della sua forza, taglia e non scioglie il nodo gordiano.

«Questa causa gronda da ogni lato di umano sangue!

«Sia pace dunque al Fisco ed a noi! Bene egli fece a perseguitare nell’inquisito le apparenze di reità, e meglio faremo noi dileguandole. Egli non dubita, come non dee dubitare, delle proprie asserzioni, essendo esse separate e disgiunte, come esser debbono gli articoli dell’accusa, a guisa di chi chiamato non a edificare, a lapidare altrui, è costretto a prendere alla rinfusa una pietra dopo l’altra. Noi raccoglieremo queste pietre per studiarne il peso, la foggia e la tempra, e vedere se, come quelle che Deucalione lanciò, possano acquistare e moto e vita di valutabile indizio.

«La fattispecie, che ci porge il Fisco nel suo libello, è compendiata, anzi storpiata; bisogna darle una maggiore estensione, che ci scorga passo passo, nel cammino diretto, alla ricerca del vero.

«Nulla prepara la catastrofe, nulla vi s’incatena, come anello per anello, come causa ed effetto, come provenienza e flusso di antecedenti e conseguenti, perchè anzi dell’effetto, che spunta improvviso, non abbiamo precedenza di causa, e ben possiamo chiamarlo: prolem sine matre creatam!

«Dove, dite in verità, o giudici, è la causa proporzionata a delinquere? Nec enim, mi è grato ripetere col sommo Farinaccio, factum quaeritur, sed causa faciendi.»

E qui l’avvocato sviluppava una delle parti più belle, più eloquenti della sua arringa.

A un certo punto ripigliava in tal modo:

«L’innocenza non salva dalla sventura, anzi la sventura suol essere dell’innocenza indivisibile compagna. Ben disse l’ingenuo La Fontaine:

Et c’est d’être innocent que d’être malheureux!

«Avete trovato alcuni oggetti appartenuti al ferito nascosti nello squallido abituro del mio cliente?

«Il minor figlio e più caro del credente Giacobbe è sorpreso, avendo presso di sè una preziosa coppa furtiva. Se Iddio nol proteggeva, egli avrebbe dovuto soccombere sotto un’accusa di furto».

L’avvocato Arzellini combattè uno a uno gli argomenti, contenuti nel libello fiscale; venne ad affermare che non l’inquisito, ma altri era stato l’assassino del pittore Roberto Gandi. Nello, uscito di notte tempo dalla sua catapecchia, si era imbattuto nel cadavere, e da pazzo com’era lo aveva spogliato di alcuni oggetti preziosi, si era tutto imbrattato di sangue, aveva preso il pugnale, tale e quale come avrebbe forse fatto un fanciullo.

Che Nello avesse come una certa mania pei metalli non era stabilito da una testimonianza così cara al Fisco, e registrata in atti, quella della donna Lazzarini?

«Essa non ci ha detto – esclamava l’avvocato – che il mio cliente ebbe un giorno diverbio con una bambina di lei per toglierle di mano un pezzo di metallo; e a che motivo, se non agli occhiali d’oro che portava il giudice Buriatti, è dovuta la sua tanto decantata ed esagerata aggressione?

«Lungi da me l’idea di dir cosa spiacevole a quell’egregio e solerte magistrato, ma l’aggressione non è mai esistita che nella sua eccitata fantasia: mancano di essa, non già le prove, ma perfino gl’indizii più lievi. Ed è chiaro che il mio cliente in un suo vaneggiamento protese la mano soltanto per il metallo prezioso degli occhiali, che a lui apparivano come un trastullo.»

Nel pubblico molti e molti scuotevano la testa quasi in segno di dileggio per l’insufficienza di tale ragionamento; un osservatore attento avrebbe potuto scorgere segni di ironia, appena visibili ad altri, nel volto degli stessi magistrati.

L’avvocato Arzellini si mise a dimostrare, con la scorta delle perizie estragiudiciali, che lo stato mentale dell’inquisito non era sano. Egli, sin dalla prima fanciullezza, aveva dato prove di demenza.

Accusarlo di simulazione negli interrogatorii, nella sua condotta, era contrario ad ogni dettame della scienza; ad ogni retto criterio.

Come, egli non si era mai smentito, non aveva mai avuto un momento di titubanza, non aveva mai vacillato?

Ormai era incarcerato da mesi, aveva subìto interrogatorii dagli ufficiali della polizia, dai ministri processanti, e alla pubblica udienza.

E sempre, a gran distanza di tempo, si erano riscontrate in lui le medesime, identiche incoerenze. Esse non potevano essere frutto di simulazione, corrispondevano bensì ad una condizione permanente, immutabile, dello stato mentale, morboso dell’individuo.

«Vi fu chi scrisse – osservò l’avvocato Arzellini – un libro intitolato: Della Ciarlataneria degli Eruditi. Dopo ciò che i periti fiscali dissero sulla potenza ragionativa e intellettiva dell’inquisito, si potrebbe a quel libro aggiungerne un altro, intitolandolo: Della Ciarlataneria della Medicina Legale!

«Leggo a pagina 180 negli atti del processo:

«Si ripose in atti una relazione dei medici fiscali signor dottor F*** M*** e dottor F*** S*** del tenore ecc.»

«E leggo più oltre:

– «Presentata la suddetta relazione dai nominati signori dottor F*** M*** e dottor F*** S*** medici fiscali, ai quali letta di parola in parola, e a loro chiara e piena intelligenza come asserirono, quella e suo contenuto con la viva voce, tanto unitamente che separatamente confermarono e ratificarono in tutte le sue parti, con giuramento per me deferitogli, e da essi rispettosamente preso tacta imagine C. J., asserendo di averla firmata di proprio pugno e carattere.» -

«Non era questo il metodo, o signori, che doveva tenersi coi periti nella loro qualità di testimoni. Essi ratificarono prima, e dopo giurarono, e il testimone deve prima giurare, e poi deporre, mentre egli giura de veritate dicenda, e non de veritate jam dicta.

«I periti udiron leggere la loro relazione dall’Attuario, e concordarono i fatti, vale a dire, produssero in atti un attestato scritto, nè come testimoni alle legittime interrogazioni deposero, lo che non ne’ giudizii civili, non ne’ criminali è permesso.

«Ma spingiamo più oltre le osservazioni della difesa.»

L’avvocato Arzellini s’ingolfò quindi in lunghe elaborate e peregrine considerazioni.

Insistè di nuovo specialmente sul fatto che altri che Nello era stato di certo l’assassino del pittore Roberto Gandi, che la poca oculatezza, la negligenza della polizia lo avevan lasciato sfuggire: che i ministri processanti, accecati subito dalle prime prevenzioni, non avevano, con grave jattura, ricercato.

Lucertolo si sarebbe gettato al collo dell’avvocato Arzellini.

Quello per lui era un grand’uomo! Come egli aveva subito indicato, e con quanta chiarezza, i metodi per scoprire il vero colpevole!… Come era fino, giusto, da artista, il suggerimento di fare indagini su chi era entrato, tra la sera e la notte del 14 gennaio, nel raddotto della Palla.

E dire che, lasciamo stare i suoi compagni, ma egli, egli Lucertolo, che si teneva così furbo, così destro, non ci aveva pensato! Da qualche tempo le sue facoltà erano ottuse!

– Ma mi rifarò, mi rifarò! – pensava l’irrequieto e ardente esecutore.

L’avvocato, giunto alla fine della sua orazione, dopo aver esaminato la causa in ogni suo lato e averla esaminata con tutto il calore della sua eloquenza, e la dirittura della sua logica, persuaso di aver luminosamente provato l’innocenza del suo cliente, così terminava:

«Altri che l’inquisito fu il feritore. Questo diverso assassino vi è certo; ma il Fisco si scusa e dice di non vederlo. Vorrà dunque egli valersi delle pene, delle ingiuste sofferenze inflitte al mio cliente come medicina a meglio vederci? E la pena, che tanto desidera pel mio cliente, sul cui capo una deplorevole fatalità accumulò apparenze delittuose, gli dirà forse chi fu il vero autore dell’assassinio?

«Il barbaro conquistatore di Roma, dopo aver convenuto il peso dell’oro, che dovea esser prezzo del suo riscatto, giunta la bilancia alla misura del peso, vi gettò sopra la propria spada per aggiungere un nuovo prezzo al già convenuto, intuonando quell’epifonema terribile: Guai ai vinti!

«Non altrimenti opera il Fisco con l’inquisito. Sostituendo al criterio la forza, getta sulla bilancia della causa per farla preponderare a suo grado un numero di congetture, che la ragione, la equità, e la giustizia rigettano.

«Ove è certa la reità e il reo non men certo, la giustizia inesorabile colpisca il reo, ma ove la reità non abbia altro appoggio che apparenze ingannevoli, sempre tenga di tutto sommo conto la giustizia per non punire, essendo questo il suggerimento della clemenza non già, di cui è vano rammentare ai giudici il nome, ma della scritta ragione, guida indeclinabile di chi accusa, di chi difende, e di chi siede per giudicare.

«Concludo che la Regia Rota debba assolvere il mio cliente.»

L’avvocato Arzellini uscì dalla sala, mentre un domestico gli gettava sulle spalle una grossa pelliccia.

Egli era in preda ad una specie di febbre, tanto aveva parlato con zelo, con convinzione, e commozione, tale era lo sforzo da lui fatto, la tensione della mente in cui aveva perdurato alcune ore.

L’Avvocato fiscale rinunziò a rispondere al difensore. Ripetè in brevissime parole che egli era profondamente convinto della reità dell’inquisito, e aspettava fidente dalla Regia Rota la severa condanna dell’assassino.

Adempite le formalità, il presidente dichiarò levata l’udienza.

L’ora era tarda: gli uscieri già avevano portato i lumi.

La sentenza doveva essere pronunziata, come vedrà il lettore, due giorni dopo.

Subito Lucertolo correva alla Palla per effettuare il piano di guerra, indicato dall’avvocato Arzellini.

Quali persone erano entrate nel raddotto la notte del 14 gennaio?

Fra queste persone ci era Bobi Carminati?

Era espediente lo scoprirlo!

VI

Nello fu ricondotto nel carcere, molto abbattuto, affranto.

Le lunghe ore della udienza, il tormento degli interrogatorii, gli urli e le minaccie del Fisco, i rabbuffi del presidente, le grandi parole commoventi dell’avvocato, i mormorii del pubblico lo avevano stancato, confuso, stordito.

Appena entrato nella prigione, sedette, poi si accasciò come una massa inerte sull’intavolato, che gli serviva di letto, e, senza prender cibo, si addormentò.

Più volte i carcerieri lo udirono la notte urlare, schiamazzare nel sonno.

Lo stolido farneticava, rivedeva le immagini guaste e corrotte dei fatti, che tutta la giornata aveva udito ripetere, raccontare distesamente: un uomo ferito, morente, e poi sangue, pugnale, birri, persecuzioni, giudici, patibolo, altri terribili fantasmi.

La discussione fra gli auditori di Rota per compilare la sentenza fu lunga e tempestosa.

Le varie opinioni furono ventilate con passione; più che con zelo, con acrimonia.

Come già sa il lettore, gli auditori erano sei, il loro modo di giudicare severo, truce, inflessibile, peggio che inesorabile.

«Terminata la sessione, – scrive Agostino Ademollo() – i giudici si ritiravano in segreto e quindi davano la sentenza a pluralità di voti, determinati non già dalla morale convinzione, ma dalla prova o, convinzione legale, resultante dalle carte processuali, il che spesso situava il giudice nella inumana posizione di condannare un inquisito contro di cui concorreva la prova legale, sebbene l’animo suo non fosse convinto della di lui reità…

«Dalla sentenza non si dava appello, nè cassazione. Soltanto si accordava al condannato la facoltà di esperimentare la revisione del giudicato, o la grazia del principe per mezzo di supplica da inviarsi per il canale della Regia Consulta.

«Così finiva il giudizio criminale prima del 1838.

«Il processo inquisitorio, fin qui praticato, aveva questo gravissimo difetto e questa fatale conseguenza che, appena avvenuta la trasmissione della speciale inquisizione, essa nuoceva grandemente alla fama e al benessere del cittadino. Egli veniva generosamente ritenuto per delinquente, veniva sospeso da ogni pubblica carica; veniva cassato dai ruoli delle milizie se militare; veniva privato del consorzio degli onesti cittadini; e difficilmente si lavava la macchia dell’inquisizione, nonostante che con la difesa avesse provato la sua innocenza, non ostante che la sentenza la proclamasse.»

Il lettore attento faccia su questi rapidi cenni le sue meditazioni, chè gli gioveranno.

Noi torniamo alla Camera di Consiglio ove erano riuniti i sei auditori.

Il presidente sedeva ad una gran tavola, che era quasi nel mezzo della stanza. Accanto al presidente, quasi incollata alla sua poltrona, era la sedia su cui appoggiava il gramo dorso l’auditorino Lechini.

Dirimpetto al presidente, torbido, minaccioso, rannuvolato, con un cipiglio da augurarne ogni sinistro, sedeva il Relatore della causa, auditore Pantellini.

L’auditore Biscotti era a destra del Relatore.

Questo Giudice era un fanatico studioso dei Testi di lingua: spesso costringeva i suoi colleghi a sospendere la compilazione di una sentenza per i motivi che diremo.

Si trattava, poniamo, di mandare un disgraziato per quindici, venti anni, per tutta la vita, in galera.

L’estensore della sentenza, rigido, raccolto, dettava il racconto delle circostanze, che avevano potuto servire ad aggravare, o render migliori le condizioni dell’inquisito.

Si scrivevano allora lunghe, interminabili sentenze, i cui attesochè si prolungavano per quaranta e cinquanta pagine.

D’un tratto si udivano un grido, un’escandescenza, il rumore di una sedia, che si moveva. L’auditore Biscotti si alzava, tutto irritato, rosso in volto, solenne.

– Che cosa c’è, signor auditore! – domandava il presidente.

– Se io debbo firmare la sentenza non ammetto che si metta il participio concernente con il dativo…

– Signor auditore!…

– Non son disposto a transigere, signor presidente. La proprietà dei vocaboli è cosa sempre necessaria, necessarissima in una sentenza. Abbiamo l’obbligo di mostrar prima di tutto che sappiamo far giustizia alle parole, esser giusti nella espressione. Bisogna dire «concernente il delitto:» «concernente al delitto» è un solecismo. So bene che il poeta mugellese ha scritto nel suo Torracchione:

Fè quel tanto ordinare e porre in punto,

Che ad opra così pia fu concernente.

Però l’esempio è del seicento: c’è anche un altro esempio nel Segneri, ma questi autori bisogna citarli con cautela…

– Andiamo!… Basta!… Sempre tali questioni! – ripetevano gli auditori in coro.

Però erano sempre costretti a modificare la frase.

L’auditore Biscotti non si impauriva.

Alla prima occasione, egli tornava ad interrompere, ad esigere il cambiamento dell’espressione difettuosa.

Se il presidente talvolta gli rispondeva con una certa severità, e dichiarava assolutamente con la sua autorità che una parola era propria, che la discussione doveva troncarsi, il giorno dopo l’auditore arrivava in Camera di Consiglio col suo bravo volume del Vocabolario della Crusca, con un’osservazione di Basilio Puoti, con la Grammatica del Corticelli.

Bisognava, o dargli la sua parola, o… la vita!

A sinistra dell’auditore Pantellini, relatore, sedeva l’auditore Comettini, che tutte le sere andava a giuocare a calabresella, o a picchetto, col vicario dell’arcivescovo, e in Camera di Consiglio meditava, preparava i suoi più bei colpi.

Il sesto auditore, Dario Salti, vedovo, aveva per casa una grossa, ossuta fantesca, che lo dominava, lo raggirava, gl’incuteva un inesplicabile terrore, co’ suoi modi pazzeschi e indiavolati.

L’arcigna creatura aveva un odio furibondo contro i libri. Non voleva che l’auditore ne comprasse, nè gli aveva mai permesso di metter su, in casa, uno scaffale.

L’auditore, per studiare, per consultare un volume, andava qua e là, or con un pretesto, or con l’altro, nelle case de’ suoi colleghi.

Le stanze della Rota erano per lui il Paradiso. Non avrebbe mai voluto uscire dalla Camera di Consiglio: vi si trovava più contento che in casa sua.

Quando una sessione, una discussione era finita, mentre i suoi colleghi si alzavano in fretta, e apparivano sodisfatti di andarsene, egli diventava cupo, attristato; l’idea di dover tornare a casa, delle accoglienze, che gli avrebbe fatto la rozza e irosa Megera, il suo carnefice in gonnella di rigatino, lo atterriva.

Era lungo lungo, secco, calvo, con un naso sperticato, di larghe narici. Aveva circa sessant’anni.

Il presidente quella mattina, appena entrato, fece con gli auditori la sua solita conversazione.

– Avevano letto la poesia a Santa Cecilia del canonico Trenti?… Un nuovo Metastasio!… Si preparava alla Pergola un bello spettacolo… Era arrivata a Firenze Miss Zigstown… È dovuta venir via da Londra, dicono, perchè una sera un grande personaggio della Corte è stato sorpreso nel corridoio, che metteva alla cappella del palazzo dove la Miss, che è cattolica, si trovava… a pregare. Un altro magistrato, mio amico, mi scrive da Lucca che la marchesa Flabelli è fuggita col tenore Ottavini…

– Sempre bene informato il nostro presidente! – diceva in atto estatico l’auditore Lechini.

– Ora dunque passiamo agli affari! – osservò il presidente, interrompendo ad un certo punto la conversazione.

Era tornato molto serio. Si preparava a ribattere con la sua coscienza, con la finezza e il vigore del suo ragionamento le obiezioni, che prevedeva gli sarebbero mosse dall’auditore Pantellini. La lotta doveva essere combattuta fra que’ due magistrati, d’indole così diversa, sempre avversarii, l’uno, il Pantellini, geloso e rabbiosamente invidioso dell’altro, ma tutti e due le migliori teste, che avesse quel Turno della Rota. Secondo che l’uno o l’altro prevalesse nella discussione, era certo avrebbe avuto con sè il maggior numero de’ colleghi, salvo il Lechini, che dava sempre il suo voto conforme a quello del presidente, l’auditore Comettini, che votava sempre con l’auditore Pantellini suo pigionale.

L’auditore Pantellini fece un gesto brusco, come se avesse voluto dire: – Era tempo!

– Come sanno, – ripigliava il presidente, – dobbiamo occuparci della causa pel latrocinio commesso nel Vicolo della Luna. La Rota deve giudicare dei punti seguenti:

«È provato, in genere, il fatto che il signor Roberto Gandi pittore, come risulta dal libello fiscale, fosse proditoriamente assalito la sera del 14 gennaio nel Vicolo della Luna, che fosse ferito, e in conseguenza della ferita riportata alla testa, sia da varii mesi obbligato a guardare il letto…

– Costrutto francese! costrutto francese! – brontolò l’auditore Biscotti.

– A stare a letto, dunque, signor auditore, si calmi!… È provato che la ferita abbia messo in grave pericolo la vita del signor Gandi?

«È provato, in specie, che colui che produsse la ferita fu l’inquisito Nello Bartelloni?

«È provato che lo facesse a scopo di furto e con premeditazione?

«È provato che l’inquisito fosse in stato mentale, come ha dedotto la difesa, tale da escludere, o diminuire la sua imputabilità?»

– Ah se mi fosse toccato ieri sera l’asso di cuori! – pensava tra sè l’auditore Cometti!

– Questa causa è grave, molto grave, secondo me – riprese il presidente – Non so quali sieno i pareri degli egregî auditori, ma quanto a me dichiaro che il libello fiscale non mi ha lasciato molto persuaso.

– Come? Come? – domandò subito esasperato l’auditore Pantellini – lei può dubitare della reità dell’inquisito?

– Sì, signor auditore, io ne dubito…

– Ed io pure e da un pezzo! – interruppe l’auditore Lechini.

– Mi sembra che anche scartando.... molte prove – soggiunse l’auditore Comettini, che aveva sempre per la mente un resto di partita a calabresella – ci rimangano pur sempre prove irrefragabili....

– Se ci rimangono!… Ma dica che a ogni parola del processo si moltiplicano! – replicava ingrugnito il relatore.

– Prove… prove: è presto detto. Ma scrutiamole un poco, ventiliamole queste prove… Non si accorgono, lor signori, quanto appunto ci sia deficienza di prove assolute sulla origine del delitto?… Ecco, io apro il processo a pag. 26. Leggo la querela, in atti, dello Scrivano della Piazza. Stiano bene attenti! in questo documento è dichiarato che le prime traccie del sangue furon trovate nel Vicolo dinanzi alla porta della stanza segnata col num. 5.

– È chiaro – continuò il presidente – che l’assassinato ha ricevuto davanti a questa porta la ferita, l’ha ricevuta, cioè, dopo aver fatto alcuni passi nel Vicolo. È spiegato, è provato bene come il signor Gandi abbia potuto essere indotto a inoltrarsi a tale ora, in tal luogo? Per ricevere la ferita alla testa da un giovane di piccola statura come l’inquisito, è evidente che egli ha dovuto chinarsi, prestarsi all’aggressione… In che modo?… Il pugnale, che ha prodotto la ferita è stato brandito da mano robusta… Ora l’inquisito ha appena la forza di un fanciullo. Avranno osservato, durante l’udienza, che il suo braccio trema con una specie di movimento paralitico…

– Solite simulazioni di questi furfanti! – interruppe l’auditore Pantellini.

– Per ammettere che tutto ciò che ha fatto, o detto l’inquisito sia una simulazione, bisognerebbe ammettere che egli sia dotato di una intelligenza veramente straordinaria… Egli non si è smentito un momento… Per varii mesi è stato sempre eguale a sè stesso, non si è tradito un solo istante.... Dove ha attinto questa forza d’intelletto, questa sagacità un giovinastro, che sino a che non è stato arrestato, fu sempre creduto uno stolido, un imbecille?… Ci sono certi ragguagli insignificanti, in apparenza, ma de’ quali noi, cui è affidato un sì prezioso tesoro, l’onore, la tranquillità, la felicità talvolta dei nostri simili, siamo obbligati a tener conto. Non vi è nulla anzi di piccolo, d’insignificante per la giustizia.

– Il signor Presidente è stato convertito dal canto di sirena dell’avvocato Arzellini! – osservò con piglio ironico, il relatore della causa.

– No, caro auditore, io non mi lascio convertire, ma neppure mi ostino contro le evidenze, che mi porgono la scienza e la ricerca della verità. Mi ascolti. Abbiamo un ragguaglio, che ricorre più volte nel processo. L’inquisito la sera in cui fu commesso il delitto, è stato udito cantare. Ha cantato spesso, nel carcere: talora, lasciando il cibo e interrompendo di parlare con coloro che l’interrogavano… ha cantato all’udienza. Queste vociferazioni sono considerate come un espediente, di cui l’inquisito si serve a sviare l’accusa. Però si dice che egli è rimasto colto nella propria rete: volendo ingannare, ha rivelato invece la propria malizia perchè la sera del 14 gennaio egli cantava, ripetendo con precisione l’aria eseguita dal testimone Pardili sul violino; all’udienza cantava un’aria, che si è verificato esser quella eseguita, sull’organetto, da uno zingaro che passava per la strada in quel momento. Dunque, si conclude, egli non è stolido, non è idiota, è intelligente.

– Sicuro! sicuro! – bofonchiava l’auditore Pantellini.

– Ma, no, signor auditore! Posso mostrarle libri di scienziati, provarle con casi antichi e recenti che ci sono veri e propri idioti, i quali hanno speciali attitudini per la musica, si commovono, si esaltano all’udire melodie, le ritengono con estrema facilità, le ripetono con orecchio sì fine da disgradarne certi artisti dei teatri minori. Alcuni arrivano a suonare e ad inventare delle arie.... Questo delinquente, che cantava con premeditazione al momento di commettere il delitto, e ha cantato all’udienza, è troppo abile e troppo incauto al tempo stesso; per credere alla sua prodigiosa penetrazione, alla sua acutezza, ci vuole, mi lascin pur dire, uno sforzo maggiore che per credere alla sua innocenza, alla sua irresponsabilità.

Le sottili osservazioni del valoroso magistrato andavano perdute.

Gli auditori, Pantellini, Comettini e Salti non dissimulavano più i gesti della loro impazienza.

Il presidente non li vedeva. Egli era tutto assorto nella sua teoria.

– Le perizie estragiudiciali sono dovute ad uno scienziato eminente, ad uno di quegli osservatori perspicaci, che hanno studiato i fenomeni morali con una pazienza sublime. Ciò che si dice sulle condizioni mentali dell’inquisito, confesso, che mi ha colpito… Egli ha apparenza in certi istanti di uomo ragionevole, ma l’esistenza in certi infermi della mente di una facoltà qualunque, di una attitudine speciale, superiore, se vuolsi, non solo alle altre, ma eziandio a quelle degli uomini psichicamente sani, pone spesso in inganno gli osservatori superficiali… Io sento che abbiamo dinanzi un tipo degenerato: un eccentrico piuttosto che un delinquente.

– Ah, ma queste, scusi, sono utopie! – disse con la sua voce stridula il Pantellini.

– Ed io l’assicuro, signor auditore – ribattè il presidente – che la mia coscienza è molto titubante, e molto agitata. Io sono turbato da un’idea che mi è tornata spesso alla mente durante il processo, che cioè l’origine del delitto commesso la sera del 14 gennaio è sempre un mistero per la giustizia: che esso ci sfugge nel suo complesso: che non ne abbiamo in poter nostro che una parte accidentale. Una voce, che non posso far tacere, la voce della mia coscienza, mi grida che il sangue, di cui fu trovato cosparso l’inquisito, non è stato versato da lui. Egli è la vittima di un delinquente accorto quanto feroce. Nella debolezza del suo intelletto, invece di difendersi, egli si accusa, corre da sè incontro al precipizio.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
230 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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