Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «La gran rivale», sayfa 6

Yazı tipi:

III

Il paese d’Europa il più pittoresco, e allo stesso tempo non troppo lontano dai grandi centri della vita attuale, è certamente la Spagna. L’influenza moderna che tutto uniforma e toglie ai costumi dei popoli il loro carattere speciale, non vi ha penetrato ancora che in parte, e, abitandovi, vi potete credere ad una distanza molto maggiore di quello che siete realmente dalle città dove le continue relazioni hanno tolto ogni fisonomia speciale. Inoltre, la vicinanza dell’Africa per la natura, per i monumenti e le tradizioni il lungo dominio dei Mori, v’imprimono una originalità spiccata ed un fascino che può conoscere soltanto chi lo ha provato. Nelle città, le vie strette, tortuose, le case dalle tettoie sporgenti, gli ornamenti moreschi, il pavimento inuguale, il bianco caldissimo del nastro di cielo che si ha sopra la testa, rammentano talvolta l’Oriente; ma più ancora la campagna con i suoi paesaggi aridi e caldi, con le roccie quasi cotte dal sole, con l’abbagliante bianchezza del suolo e l’infuocato splendore del cielo che dà a momenti l’illusione del deserto. La tristezza luminosa di quell’atmosfera bianca e incendiata è affatto nuova per chi è abituato a considerare sempre un raggio di sole come un sorriso, e suscita nell’anima una malinconia orientale, serena, pesante che ne lascia intravedere quale dev’essere la mestizia delle sfingi, seppellite fino al collo da secoli nella sabbia ignea dell’Egitto.

Sulle prime il paesaggio non diverte. Quella monotonia di tinte, quella malinconia dorata sparsa sopra tutto, quei vasti spazi che di tratto in tratto si stendono uniformi davanti allo sguardo, non rallegrati nè da un bosco nè da una forte ondulazione di terreno, ma solo da qualche cespuglio e da qualche scoglio di forma strana, quelle montagne a picco in distanza, stancano moltissimo. Ma a poco a poco si capiscono quelle bellezze cui non si è abituati, e s’intravede la tranquilla e serena poesia di quel suolo perpetuamente accarezzato dal caldissimo dardeggiare del sole e l’orientale maestà di quel cielo bianco – lietissimo, ma non sorridente. Inoltre la piaga dei ciceroni non vi è ancora penetrata, si può annoiarsi e divertirsi senza che qualcuno ve lo dica, ed ammirare coi propri occhi e non per mezzo d’interprete; poi rammentando le molte avventure accadute nei luoghi stessi che si traversano, si gioisce della sola idea di trovarsi in pieno decimonono secolo in un paese dove le avventure sono ancora possibili. I viaggiatori di fervidissima immaginazione possono perfino nutrire la vaga lusinga di essere attaccati dai briganti.

Nelle campagne e fra i monti il costume del paese si vede ancora di frequente, tanto più che spesso lo vestono in viaggio anche gli abitanti delle città, i quali però a casa pongono ogni loro ambizione nell’esser vestiti altrettanto male quanto altrove. Spesse volte perciò le tinte brune e severe delle rocce ed il bianco della pianura dove l’occhio cerca invano dei colori vivaci, vengono d’improvviso rallegrati da una macchietta variopinta ed animata. Sulle prime, specialmente l’occhio poco esercitato dello straniero non sa distinguere cosa sia, ma poi si accorge che quella oasi mobile di colori è composta d’una piccola carovana di persone vestite del pittoresco costume di maio e montati su dei muli tanto bizzarramente e riccamente bardati da lottare in eleganza con gli stessi cavalieri. E davvero alletta gli occhi abituati a non vedere che l’abito del progresso, il guardare quelle giubbette in velluto nero, coperte di ricami, quelle cinture rosse con le lunghe frangie che svolazzano al vento, quei cappelli ornati di nastri e di fiocchi.... E si capisce come talvolta lo stesso viaggiatore sia invogliato ad assumere il costume gaio del paese, a sedersi sul mulo come un’amazzone, appoggiando il gomito al ginocchio, tenendo fra le dita il papelito, e ad essere scambiato dagli Inglesi che s’incontrano coi torero che vanno a farsi applaudire nel circo della più vicina città.

E credete pure che una volta indossato quel costume vi sentite diverso. Tutte le vecchie abitudini, i pregiudizi, si lasciano negli abiti che si sono tolti, e appena avvolti nei mantelli dalle lunghe pieghe e coperto il capo col sombrero si sente molto meglio la bellezza del paesaggio e si soffre meno il caldo essendo più coperti, a seconda del proverbio nazionale. La propria città sembra a un milione di miglia di distanza, la vita passata scompare e si ha l’illusione di non essere nati per altro che per girare, al lento passo di un mulo, le stradelle malsicure delle montagne iberiche. Sembra un poco più di un secolo che non si passeggi sul lastrico liscio d’una via, e si ride come d’una supposizione temeraria e stravagante all’idea di trovarsi ancora una qualche sera nella noia armoniosa di una sala da ballo. Si dimenticano perfino molte cose che non si credeva possibile di dimenticare, pensando che a Madrid, a Siviglia e a Barcellona si potranno vedere i piedini della marchesa d’Ameguï, gli occhi neri e le labbra di corallo tanto decantate, e perfino delle magnifiche chiome bionde – come in Fiandra si trovano tante pupille nere e treccie d’ebano. E come si è potuto vivere fino allora senza una corsa di tori alla domenica?

Questi erano presso a poco i pensieri che si aggiravano nella mente del nostro amico Giorgio di Westford, mentre vestito del costume il più ricamato che si sia veduto mai e montato su di un mulo dalla groppa lucente e dalla fisonomia eminentemente iberica, costeggiava una stradicciuola vicino a un precipizio poco attraente ma molto pittorico, circondato dalla sua piccola carovana e contento come un uomo che si trova a moltissime miglia di distanza dai vari macadam conosciuti.

Il suo sogno era realizzato. Aveva avuto l’energia sufficiente per porre in esecuzione il suo progetto, rompendo le tenaci abitudini, ed ora gioiva della soddisfazione da tanto tempo ricercata di trovarsi incognito, libero delle sue azioni e dei suoi pensieri, lontano dalla monotonia parigina, in un bel paese dove egli non conosceva nessuno, dove non era costretto a niente e poteva vivere a modo suo e senza essere notato ogni volta che si soffiava il naso.

Le contrade ch’egli attraversava avevano per lui tutta l’attrattiva della novità; allo stesso tempo risentiva la dolcezza dei ricordi, poichè gli rammentavano talvolta il paesaggio d’Oriente che aveva visitato qualche anno prima. Ma quale differenza tra quel viaggio, impreso sotto il suo vero nome, in compagnia di alcuni amici, con quattro servitori francesi e molti indigeni, e questo nel quale si trovava solo, con un nome fittizio, e distaccato completamente da quanto gli rammentava la sua vita abituale!

Egli aveva molto letto a proposito della Spagna ed era contentissimo di essere riuscito al tempo stesso ad effettuare il suo progetto e a visitare un paese pel quale da lungo tempo sentiva una irresistibile curiosità. Era però, sotto un certo punto di vista, un cattivo viaggiatore, preferendo sempre errare alla ventura piuttosto che seguire fedelmente un itinerario qualunque. Girò e rigirò, nelle orrende diligenze che facevano allora il servizio tra un villaggio e l’altro, oppure sui muli dall’aspetto tanto nazionale che sono le guide migliori sulle nude e scoscese montagne: ora dimenticandosi per delle intere giornate nelle interminabili pianure, ora passando a fianco, senza vederlo, a qualche stupendo effetto di natura o a qualche strano avanzo d’arte. Sulle prime, al solito, il paese gli apparve molto diverso da quello che si era figurato, e a dire il vero l’impressione era piuttosto al di sotto che al disopra dell’aspettativa. Lo credeva diverso. Si aspettava qualche cosa di più colorito, di più animato, di più nuovo. Capiva alcune bellezze, vedeva che tutto era pittoresco, ma non ammirava nulla. Alcuni paesi infatti, come alcuni poeti, non si comprendono che gradatamente. Al primo momento, si può quasi dire che deprimono invece di esaltare. Poi lentamente, quasi inavvertitamente, la loro bellezza comincia a diventare palese, e senza che ne sia dato il sentirlo, siamo imbevuti a poco a poco del loro significato. Allora ci accorgiamo che il fascino raccontato dagli altri lo sentiamo anche noi e diventiamo a nostra volta un oggetto di stupore pei nuovi arrivati che sul principio sentono, come sentimmo, una specie quasi di scoraggiamento.

Appena Westford ebbe compreso le bellezze che al primo momento gli erano state oscure, fu innamorato del paese che aveva scelto e si sentì fortemente invogliato – mentre ammirava il paesaggio con la intensità d’intelligenza che ne presta la solitudine – a conoscerne anche la vita ed i costumi. Eseguiva in tal modo assai male il proprio piano, che era di visitare tutto ciò che vi fosse di più rinomato prima di far soggiorno in una città qualunque; ma la solitudine, che gli era sembrata tanto aggradevole nei primi giorni, cominciò presto ad essergli di peso e un violento desiderio lo afferrò di provare la vita indipendente che il suo incognito gli assicurava in una città.

Fu per ciò che prima ancora di avere nemmeno fatto il pellegrinaggio dell’Alhambra, l’incontriamo sul suo mulo riccamente bardato, mentre prendeva i più corti sentieri di traverso per raggiungere la diligenza che lo doveva condurre a Madrid. Colà nessuno lo aspettava, nè amici nè conoscenti, e nulla sapeva di sicuro sul grado d’interesse che quella capitale gli avrebbe presentato. Come tutti, aveva molta curiosità per quei costumi speciali, sebbene sapesse benissimo che in alcune cose l’attendeva il disinganno. Egli che ne avrebbe potuto avere cento, non portava seco nemmeno una sola lettera di raccomandazione, tanto aveva voluto esser fedele al suo programma.

IV

Ritrovando il nostro protagonista un mese e qualche giorno dopo il suo arrivo nella nobilissima ed insigne capitale della Spagna, siamo costretti ad accorgerci dal suo alloggio e dall’attitudine nella quale lo troviamo che la sua smania di vagabondare si è scemata di molto. Lo ritroviamo infatti seduto in un’ampia poltrona, vestito il più leggermente che sia possibile, vicino a una finestra del terzo piano di una casa pulita e affatto moderna, in una via tortuosa d’uno dei vecchi quartieri. I vetri erano chiusi e Giorgio coi piedi più alti del capo in una postura ultramericana, teneva un libro alla mano, la cui lettura però sembrava interessarlo mediocremente, poichè di tratto in tratto gettava uno sguardo indagatore tra gli interstizi delle cortine di mussola bianca, come volesse spiare qualcosa dalla parte opposta della via.

Questa, malgrado fosse stretta assai, non era però triste come lo sono le viuzze nelle città settentrionali, tanto il sole ardente sa in quel paese penetrare dovunque; e nel giorno caldissimo di cui parliamo, gettava un raggio che rischiarava molto pittoricamente la parte più alta della casa in faccia a quella ov’era Giorgio, lasciandone la base nella relativa frescura dell’ombra. Quella casa era, si può dire, l’opposto di quella abitata dal duca, poichè, sebbene di aspetto povero e poco pulito, aveva un carattere di vetustà assai romantico ed era di un’architettura barocca e contorta, affatto speciale. In quegli ornamenti spezzati, in quei fregi interrotti qua e là, in quelle pitture quasi cancellate oramai, v’era un contrasto assai spiccato di opulenza passata e di decadenza presente, che è pur troppo un carattere abbastanza spagnolo.

La finestra, posta precisamente di contro a quella del nostro protagonista, e sulla quale sembrava posarsi il suo sguardo tutte le volte che lo spingeva attraverso i vetri, avrebbe certo da sè sola invogliato un pittore a fermarsi per farne uno schizzo. – Il contrasto di cui parlammo or ora era qui assai palese, giacchè tutt’all’intorno girava una cornice di pietra rozzamente, ma riccamente intagliata, i cui arabeschi mozzi mostravansi qua e là coperti da un pugno di verde muschio o erba, che vi aveva vegetato, Dio sa come, e lo stipite si vedeva esser stato ricco assai, mentre i vetri della finestra erano color di piombo e malamente incassati in una cattiva intelaiatura di legno dipinto in verde chiaro. Al di sotto intravedevasi come un avanzo di scudo sul quale uno stemma doveva essere stato inciso altre volte, ma la parte di esso che sembrava meno obliterata, era a metà coperta da un panno bianco posto sul parapetto ad asciugare al sole. Sopra un’assicella al di fuori un grosso vaso panciuto in terraglia comune gialla a disegni turchini conteneva dei garofani in piena fioritura che toccavano un punto vivace sul fondo grigio della casa ed animavano, si può dire, la finestra, del resto affatto deserta in quel momento.

La stanza abitata da Giorgio era piccola, ma pulita ed allegra, ed egli con le sue abitudini di eleganza, l’aveva già assettata in modo da renderla simpatica. I vasi e le scatolette a coperchio d’argento di un nécessaire, ordinati su di una tavola coperta di bianco, contrastavano con la semplicità delle pareti nude, dei mobili in legno comune e delle sedie di paglia. Da mille indizi indescrivibili si capiva però che quella stanza era stata scelta da Giorgio per farvi una dimora di qualche tempo – il che ne fece dire che sentisse già il bisogno della quiete.

Appena giunto a Madrid, era sceso ad uno dei grandi alberghi. In qual modo dunque, poco più di un mese dopo, lo troviamo nella viuzza in questione? – La spiegazione sarà certo già presentita dalla lettrice, ed essa non sarà troppo stupita se le diciamo che proprio in uno dei momenti in cui il duca volgeva più attento lo sguardo verso la finestra di faccia, questa si aprì, ed una figura di donna vi apparve che sicuramente avrebbe fatto molto piacere anche a quel pittore che abbiamo supposto arrestato nella via a schizzare le linee sbiadite di quelli ornati ridotti quasi a vestigia.

Era il suo il vero tipo spagnolo – non precisamente quello che fuori di Spagna si reputa tale, e che è piuttosto il tipo arabo o moresco. L’irregolarità bellissima dei suoi lineamenti non era quella che c’imaginiamo quando parliamo delle manolas, avendo un carattere di grazia un po’ manierata ed indescrivibile che ne sarebbe forse sembrata piuttosto francese, e la sua pelle era bianchissima. La bocca piccola e porporina, gli occhi allungati, espressivi, un po’ infantili nello sguardo, il collo robusto e snello ad un tempo, le mani lunghe, strette, un po’ magre, l’ovale del volto graziosissimo, ed una espressione derivante dal sorriso della bocca e più ancora da quello degli occhi, dall’arco delle sopracciglia, dalla linea del naso e del mento che solo il pennello potrebbe forse tradurre, rendevano la sua bellezza molto originale. I capelli neri, attortigliati in massa sulla nuca, erano tenuti da un alto pettine di tartaruga tutto traforato, di strano disegno, come in tutte le famiglie spagnole si tramandano di madre in figlia.

Il suo vestito non aveva nulla di speciale, poichè il costume nazionale va perdendosi a poco a poco anche nelle classi meno alte, ma la sua veste bruna e casalinga disegnava delle forme che molte duchesse avrebbero invidiato.

Ella si affacciò alla finestra tenendo nella destra una caraffa piena d’acqua che versò tutta sui fiori, quasi già avvizziti dal sole, ed essi si rianimarono d’un tratto sotto quella benefica pioggia di cui avevano gran bisogno. Per amore della verità, dobbiamo però constatare che nel far ciò, gettò sbadatamente uno sguardo alla finestra opposta e vedendola ben chiusa, depose la caraffa, e si appoggiò al parapetto, guardando ora i suoi fiori che sembravano ringraziarla allargando le corolle, ora i rari passanti nella via. In uno di questi momenti, Giorgio aperse a sua volta lentamente la finestra e si affacciò, osservando fissamente il bel quadretto che aveva davanti. – Ma questa manovra non gli riuscì troppo, chè appena la bella fanciulla, sollevando ancora gli occhi, se ne accorse, senza affettazione ma abbastanza prestamente si tirò indietro, e come si accorgesse allora dei raggi cocenti del sole che le battevano sulla fronte, abbassò la tenda di paglia grossolanamente dipinta a fiori e foglie – calando così, per lo spettatore di faccia, il sipario prima che la scena fosse incominciata.

Come avrebbero riso sgangheratamente i suoi amici se avessero veduto Westford nell’esercizio di quella manovra da collegiale! E siamo certi che anche il lettore ne taccierà d’inverisimiglianza e non saprà comprendere come quel giovane, che aveva tanto e così svariatamente vissuto, potesse giungere ad alloggiarsi in faccia ad una bella fanciulla qualunque con lo scopo semplicissimo di farle comodamente gli occhietti. Ma siamo obbligati a dire che i suoi amici (e questo non stupirà certo) non lo conoscevano punto se ridevano per una tal cosa; e che noi, con nostro grande rincrescimento, non abbiamo saputo in tal caso delineare come volevamo il carattere piuttosto eccezionale del duca. Infatti, uno dei distintivi principali di esso era di seguire spessissimo la sua prima impressione. Inoltre, non bisogna dimenticare ch’egli poteva trovare interesse oramai solo nelle cose che non aveva fatto prima, e che la semplicità doveva riuscirgli più nuova della raffinatezza.

Dopo qualche giorno di dimora a Madrid, il primo entusiasmo di trovarsi davvero indipendente, il piacere della solitudine nella folla e dell’incognito, diminuirono, e dovette confessare a sè medesimo che il progetto che gli era sembrato così divertente non lo era troppo, posto in esecuzione, e che perfino questo tentativo di mutamento non riusciva. Gli venne una terribile paura che Tibaldo ed il suo calzolaio avessero ragione e ch’egli fosse proprio irrimediabilmente blasé. Riuscì a scuoterla però; ma malgrado questo, quando ebbe visitato tutti i monumenti, penetrato in tutte le chiese, ammirati tutti i quadri, dai paradisiaci Murillo fino ai Goya ed ai Ribeira tenebrosi e mistici, passeggiato e ripasseggiato al Prado guardando le senoras avvolte nel velo e mostrando le belle manine agitando il ventaglio irrequieto, fumato tutte le qualità di tabacco, bevute tutte le bevande e gustati tutti i sorbetti nazionali, capì che non sapeva bene cosa farebbe della propria persona all’indomani. Acquistò un nuovo costume completo da un sarto indigeno, fece ampia conoscenza con la cucina spagnola, tentò di far la corte ad una signora che stava nel suo albergo, ma tralasciò per paura di riuscire, – e finalmente dovette ammettere che si annoiava.

Un combattimento di tori (che la lettrice non chiuda il libro troppo precipitosamente! non lo descriveremo) che lo divertì per la novità e l’eccitamento dello spettacolo, e qualche conoscenza fatta per caso, al caffè, lo aiutarono a sopportare la noia incipiente che lo invadeva, ma non bastarono a distrarlo.

Solo lo divertiva il far delle lunghe chiacchiere e discussioni con i suoi nuovi amici, di cui quasi ignorava il nome; buoni ragazzi, fra i quali alcuni artisti di teatro che lo trattavano con tutta famigliarità e quasi con un poco di protezione che lo faceva ridere internamente.

Lasciando Parigi, egli s’era solo proposto di cercare le attrattive di un paese nuovo e di una vita diversa, e l’idea di mischiarsi in avventure era lontanissima dalla sua imaginazione. L’elemento femminile non entrava nel suo progetto. Ma si accorse ben presto che uno dei mezzi che cominciava, quasi involontariamente, ad adoperare per cacciare quelle prime nebbie di noia minacciose, era di fare degli studi artistici molto assidui su tutte le donne che passavano e che potevano forse esser belle. Non gli dispiaceva punto lo sguardo di fuoco che le donne spagnole gettano con molta rapidità su tutti indifferentemente. – Ma le bellezze che vedeva erano molto al disotto dell’ideale che se ne era formato. Singolare pretesa che si ha infatti talvolta di volere che in un dato paese tutte le donne siano belle!

Malgrado tutto ciò, non si divertiva, senza che però si pentisse in alcun modo del suo viaggio, poichè perfino la noia era diversa dalla solita.

Pure capì che una qualche distrazione ci voleva. Un giorno vide passare la fanciulla che presentammo al lettore in principio del capitolo, e la trovò più bella di quante avesse incontrate fino allora. Aveva quella simpatica camminatura viva e cadenzata particolare alle Spagnole, ed il suo piedino, calzato a perfezione da una scarpina che ne copriva solo la punta, era elegante di forma e pareva nel camminare raccontasse molte cose. L’accompagnava una donna vecchia, che un poco le rassomigliava. Sicuro che nessuno dei suoi amici lo vedeva, la seguì e la vide entrare nella casa che abbiamo descritto. Un cartello sulla casa in faccia annunziava che al secondo piano si appigionava; egli entrò, e prese le due stanze verso strada, proprio in faccia alla dimora della incognita. Dava per pretesto a sè stesso, che era stanco di stare all’albergo e che così eseguiva meglio il suo piano.

L’indolenza del suo carattere, e per dire il vero, la quasi indifferenza che, malgrado tentasse combinare un romanzetto, egli sentiva per la fanciulla, impedirono che egli diventasse molto intraprendente, e siamo costretti di confessare che dopo qualche giorno non si curò molto dello scopo che lo aveva condotto nella sua nuova dimora e non si metteva che assai di raro al suo posto di osservazione alla finestra, dove lo abbiamo sorpreso. Pure, quelle volte che vi era stato lungamente ed aveva attentamente osservato col suo occhio scrutatore, l’aveva trovata molto bella, e di una bellezza che artisticamente gli rivelava un orizzonte nuovo e modificava un poco il suo gusto. Egli infatti, come abbiam veduto, era prima di tutto (chi gli darebbe torto?) ammiratore della bellezza pura, sculturale, greca. La Venere di Milo era la prima sulla lista – dopo, le altre. In mancanza di quella bellezza assoluta e completa di forme e di linee, amava l’espressione, l’anima, il carattere impresso sulla fisonomia, ed acconsentiva a non darsi cura di molte imperfezioni purchè gli occhi fossero eloquenti, i lineamenti espressivi, la fisonomia originale, il sorriso caratteristico, purchè insomma ogni linea raccontasse la sua storia. Nella bellezza della fanciulla che ora aveva il progetto di corteggiare non vi era nè la bellezza altissima che Fidia e Prassitele resero immortale, nè quella bellezza che Tibaldo aveva chiamato moderna nel parlare di Lady Isabella.

La era semplicemente la bellezza della grazia, della freschezza, del capriccio. Il suo occhio non era profondo e non rivelava molto, la sua espressione era allegra, vivace e nulla più, le sue forme e le sue linee erano belle, ma non perfette. Il suo viso inoltre non raccontava una di quelle storie che ne invogliano a studiare l’anima della persona che lo possiede. In compenso però sembrava aspettare che qualcuno gli narrasse la propria.

Giorgio intanto si abituava alla sua vita nuova e tornava ad essere assai contento di aver posto la sua idea in fatto. I suoi nuovi amici, che quasi non conosceva, lo divertivano molto. Fece con loro qualche gita nei dintorni. I giorni si succedevano; ed egli che, malgrado tutto, era uomo di abitudine, cominciava a dire: «Chi sa quando cambierò?»