Kitabı oku: «La gran rivale», sayfa 17
IV
Se una creatura sovrumana, librata nello spazio, avesse allora gettato uno sguardo su questa nostra terra oscura, certo quel punto le sarebbe apparso luminoso. Una immensa poesia era raccolta in quell’angolo obliato. È difficile immaginare qualcosa di più dolce di quel romanzo, di cui lo scenario è il palazzo ed il parco abbandonati, ed i personaggi quel vecchio solitario e quei due felici.
Che v’era al di fuori, in quella società turbolenta, infelice, insaziabile? Essi non lo sapevano, non se ne curavano: qualunque catastrofe, qualunque trionfo avrebbe potuto accadere a pochi passi; era possibile che gl’imperi crollassero, che nuovi regni sorgessero, che tutto venisse sconvolto: essi non se ne sarebbero accorti. Che premeva loro? Al di là del ricinto il mondo finiva per essi.
Come avevano potuto quei due sottrarsi alla legge comune? Com’era stato permesso che la villa, inutile da tanto tempo, avesse ora il cómpito di nascondere quei due evasi della prigione sociale? La sicurezza in cui si trovavano sarebbe durata a lungo? Era possibile che l’invidia non venisse tra poco a turbare quella calma beata e suprema? La loro parte di male non sarebbe venuta a incoglierli? Il destino li avrebbe per molto tempo ancora dimenticati?
Essi conservavano una indicibile serenità, quella serenità che nega il male e non vi crede. Parevano una creazione del Tiziano fatta vivente, di quelle figure eternamente giovanili, bionde e felici, che il grande artista poneva in mezzo a una di quelle ricche scene veneziane, fulgenti d’oro e di porpora, con in fondo l’immutabile turchino del cielo. Essi non erano affetti da alcuna delle malattie moderne, e certo nessuna malinconia li poteva sorprendere, nessun presentimento funestare. Il tempo non esisteva quasi per essi, come non esisteva il mondo circostante. Nello stesso modo che non s’accorgevano della società, nel loro paradisiaco isolamento, così essi non sapevano ch’esistesse il passato e l’avvenire, tanto erano assorti nell’ora presente. Passato non ne avevano; poichè appena usciti dall’infanzia s’erano trovati immersi d’improvviso, non nella realtà; ma nella poesia dell’esistenza; avvenire non ne vedevano, non temendo nulla, nè potevano sperare di più, poichè tutto intorno e dentro loro si fermava nella suprema beatitudine dell’amore… Com’erano i loro volti rosei e fulgenti, senza possibilità di rughe, gli occhi tranquilli, illuminati ed incapaci di pianto, così i loro cuori scevri di timori e di mali, le loro menti prive di tenebra e di mestizia, Quelle due anime, come quei due corpi, erano belle, divine, fatte l’una per l’altra.
Essi rappresentavano quella cosa tanto sublime e tanto rara quaggiù: l’unione di due esseri che realmente devono essere riuniti; l’amore nella sua perfezione. Poichè è impossibile non appaia chiaro a chiunque abbia molto pensato, che l’amore su questa terra è una eccezione. Negare l’amore è la più assurda bestemmia; pretendere che tutti lo sentano è diminuirlo e non comprenderlo. Moltissime vite son prive d’amore (naturalmente si prende qui la parola nel suo significato alto e completo), altre non ne conoscono che dei momenti fuggevoli, dei tocchi per così dire. Pochissimi lo sentono davvero in tutta la sua sublime pienezza; quelli amano per sempre.
Tra questi fortunati, i nostri due erano fortunatissimi. Appartenevano alla classe privilegiata, e s’erano trovati. Quanti sarebbero capaci d’amare se s’incontrassero! Inoltre, il loro sogno s’era fatto reale in tutta la sua pienezza. Com’era ciò accaduto? Saremmo tanto imbarazzati a rispondere, quanto il vecchio Pietro. O non v’erano mai stati ostacoli fra di essi, o li avevano infranti; ora nulla li poteva dividere. Come uscivano essi da una società tanto malvagia e ammalata, irrequieta e falsa? Certo essi ne sorgevano, come talvolta tra le pietre d’un edificio solenne e senza poesia sboccia un fiore involontario, profumato. Ma scorre molto tempo prima che una ruvida mano lo venga a strappare?
Sembrava non travedessero nemmeno la possibilità d’alcun pericolo. Le ore, i giorni passavano tranquilli e sublimi; senza che la loro serenità venisse mai meno. Parevano gli abitatori naturali di quel luogo, sorti d’in tra l’ombre del bosco, creazione spontanea, vivente emanazione di quella solitudine. Non si rammentavano certo d’esservi giunti poco prima, non ideavano di dover partire; quel loro soggiorno non aveva quasi avuto principio, non poteva certo aver fine. L’amore aveva come consacrato quel sito; quella profonda quiete aveva reso inaccessibile agli altri la loro felicità. Essi rappresentavano qualcosa di sovrumano; erano sotto una protezione suprema, e nulla di terreno poteva riuscir loro pauroso.
E il vecchio Pietro, dopo la sua lunga vita monotona, si scaldava al sole di quell’amore. Istintivamente, d’improvviso, egli aveva compreso tutta la poesia che quei due emanavano; e stava assorto dinanzi a loro in continua contemplazione. Sul principio aveva talvolta sentito per essi delle strane, inesplicabili malinconie; ma ora erano sparite, non temeva più, tanto la serenità che spandevano d’intorno era contagiosa.
V
Una mattina il cielo si annuvolò. Pietro si sentiva mesto e se ne stava sul terrazzo, contemplando al solito i due giovanetti che venivano dal fondo del parco. Non gli erano mai sembrati così belli; s’avanzavano lentamente, con molti fiori di vivacissimi colori tra le mani. Un raggio di sole che squarciava due nuvoloni quasi neri, cadeva su di loro ad illuminarli. La fanciulla parlava ed il giovane ascoltava, guardandola. Quando furono giunti al palazzo dalla parte opposta a quella dov’era Pietro, si soffermarono un istante, poi salirono i gradini, ed entrarono.
La malinconia del vecchio s’aumentò non vedendoli più ricomparire. Passò più d’un’ora senza che egli si togliesse dalla sua immobilità. Poi fu scosso da un rumore indistinto che gli colpì debolmente l’orecchio, ed un istante dopo vide due uomini in fondo al prato, due sconosciuti, che sembravano riccamente vestiti, e gesticolavano con molta vivacità. Questo spettacolo insolito lo turbò. Vide i due dopo un istante internarsi nel folto del parco. S’alzò e più presto che potè, si pose in cammino per raggiungerli, pigliando una scorciatoia.
Girò un bel pezzo senza poterli incontrare; poi, quando meno se l’aspettava, se li vide dinanzi, attraverso ai rami d’un cespuglio che lo nascondevano agli occhi loro. S’accorse allora che non portavano dei ricchi costumi, come gli era sembrato in distanza, ma delle livree gallonate. Parlavano a voce abbastanza alta perchè, malgrado la sordità, potesse udire i loro discorsi:
– Ah, caro mio, quando ci penso ne rido ancora! gli parve che l’uno dicesse.
– Svignarsela il giorno stesso delle nozze e nella carrozza del padrone? l’altro rispose.
– Dello sposo, soggiunse il primo.
Pietro si sentì un freddo al cuore.
– La più bella poi è d’esser venuti qui.
– Quello sarebbe proprio.... (qui alcune parole a sommessa voce). Ma credi che siano qui?
– Ne son certo.
– Se si trovano, guai a loro!
Il vecchio non volle udirne di più; pallido, tremante, corse verso casa. Non cercheremo di spiegare i pensieri che lo travagliarono in quel tragitto. Il cuore gli batteva forte, le labbra tremolanti balbettavano parole incoerenti. Tutte le sue paure s’avveravano; si presentavano dinanzi agli occhi – terribili. Salì frettoloso gli scaglioni del terrazzo, per correre ad avvisarli del pericolo. Traversò due grandi sale; alla terza s’arrestò di botto e sentì le ginocchia piegare sotto il peso dell’emozione. Tre altri uomini – signori questi – erano nella sala.
Appena lo videro, uno di essi, un gentiluomo piccolo, grosso, tarchiato, con due occhietti cattivi, s’avanzò verso di lui.
– Vecchio! egli disse, voi siete un servitore della casa?
Di natura umile, timida, abituata all’obbedienza, Pietro non era mai stato coraggioso. Eppure, d’improvviso, si rinfrancò, non tremò più, guardò in faccia a colui che gli parlava e rispose senza esitare:
– Sì, signore. Ho servito i principi d’Ostellio da cinquanta anni.
Vi sono delle nature che in certi momenti supremi cambiano ad un tratto. Pietro era di queste. Chi lo rinfrancò? – L’idea stessa dell’imminenza del pericolo che sovrastava a quelle due teste adorate, di quel pericolo ancora ignoto e tremendo, che egli non comprendeva, ma che lo atterriva, fece a un tratto di quel vecchio intimidito dalla solitudine, un uomo risoluto.
Quando aveva visto quei tre nella sala, aveva sentito d’esser giunto troppo tardi; ora gli pareva di poterli ancora salvare.
– Giurate di rispondere la verità, continuò lo sconosciuto.
– Lo giuro.
– Avete ospitato in questa villa un giovanetto ed una fanciulla?
– No, non li ho nemmeno visti. – Era forse la prima volta che Pietro mentiva.
– Badate che io sono mandato dal vostro padrone; rispondendo a me, è come se rispondeste a lui.
Pietro fu un po’ scosso da queste parole.
..... Non avete dunque ricoverato nessuno?
– Nessuno, signore.
Vi fu una pausa. Poi uno degli altri soggiunse:
– Vedremo se avete detto la verità. – E vôlto agli altri: – È meglio assicurarci coi nostri occhi. Venite.
Uscirono dalla sala dalla stessa parte d’onde Pietro era venuto. Appena fu solo egli precipitò dall’altra, salì una scaletta segreta e si trovò nell’ala sinistra del palazzo, all’uscio dell’appartamento dei due amanti, mentre gli altri giravano dal lato opposto della villa.
Bussò, nessuno rispose. Gridò sommessamente: – Aprite, aprite per carità! – Bussò di nuovo; – invano.
Goccie fredde di sudore gl’inumidivano la fronte canuta. Picchiò convulso, delirante; scosse la porta; nessuna risposta. Allora quel vecchio fu preso dalla disperazione. Proruppe in un profluvio di parole incoerenti; era una preghiera, eloquente nel suo fervore, disordinata e strana.... S’inginocchiò dinanzi a quell’uscio, lo afferrò con rabbia, tentò di scuoterlo piangendo, ma tutto inutilmente.
Eppure egli era certo ch’essi erano in quella camera; prima perchè li aveva visti dirigersi per quella parte e non erano altrove, poi perchè l’uscio era chiuso di dentro.
Cominciò a gridare; annunciò loro ch’erano perseguitati, che bisognava fuggire, li supplicò di aprire, di aver pietà di lui, di loro stessi; disse che il tempo stringeva, che s’udivano i passi dei loro nemici, che fra un minuto non si sarebbe più in tempo.... E, pregando con la facondia della passione, singhiozzava.
Ma l’uscio rimaneva inesorabilmente chiuso.
I passi s’avvicinarono, una porta si aprì e cinque o sei persone entrarono.
Cosa incredibile! Pietro riprese ancora coraggio, intese che bisognava dissimulare, ed ebbe la forza di nascondere il terribile turbamento.
– Non s’è trovato nessuno, disse uno che fin là non aveva parlato. Non ci rimane più che entrare lì. Apri quell’uscio.
– È inutile, rispose Pietro. Non posso, non ho la chiave; è smarrita. È una stanza che serve da ripostiglio.
Qui un nuovo personaggio entrò in scena; era un uomo alto, imperioso, dai capelli neri, dal viso abbronzito, dall’espressione cinica e dura.
– Andiamo, Pietro, non far sciocchezze. Non mi riconosci? Apri quell’uscio.
Il vecchio trasalì e spalancò gli occhi; era il suo padrone, il principe d’Ostellio, che da tanto tempo non aveva visto.
Come lo aveva desiderato! Quanto aveva sperato di vederlo! Se fosse giunto qualche tempo prima, quando era solo nella villa, come sarebbe stato felice, felice d’una gioia indescrivibile! Come gli sarebbe caduto ai piedi al più piccolo cenno, come gli avrebbe baciate le mani!
Ora non si mosse. V’era qualcuno ch’egli amava assai più del suo padrone. Sentiva una strana emozione e nel suo vecchio cuore uno straordinario sussulto. Involontariamente, gli occhi gli si empirono di lagrime. Ma la lotta fu breve, il nuovo amore fu più forte dell’antico.
Egli balbettò, interrompendosi per l’emozione:
– La riverisco, Eccellenza. Mi perdoni.... non posso aprire… la chiave non c’è.... è inutile… non c’è nessuno… La stanza è vuota… Mi scusi....
– Che hai, mio buon Pietro, perchè sei tanto turbato? Hai perduta la chiave? – Ebbene, signori, animo, abbattiamo quest’uscio. E s’avanzarono.
Il vecchio aveva perso la testa. Un delirio lo colse. Quei due ch’egli amava alla follìa, se li vide dinanzi agli occhi, come in una visione. Bisognava salvarli! Questi non dovevano entrare! – Si vedeva davanti il suo padrone tanto rispettato una volta, ed ora sentiva d’improvviso d’odiarlo!
Non pensò alla inutilità d’ogni suo sforzo. Si piantò fermo contro l’uscio, non più curvato, non più umile. Il suo occhio brillava, il suo corpo era dritto come quello d’un giovane, i suoi pugni erano stretti alla difesa.
Tutti si soffermarono.
Ma l’esitazione non durò che un istante. Due s’avanzarono, e lo scartarono d’un colpo. Poi tutti appoggiarono le spalle contro l’uscio, che con un forte rumore cedette e rovinò.
Pietro cadde. Il principe entrò per il primo.
La stanza era vuota. Non v’era nessuno. Erano scomparsi. Dalle finestre entravano i raggi del sole e l’olezzo dei fiori. Una calma da eden regnava là dentro. Un indistinto, penetrante profumo riempiva la camera. Qualche passero addomesticato era entrato, e se ne stava rannicchiato tra le cortine del letto. Quella stanza appariva allegra, festosa, quasi ironica. Era deserta; ma una immensa gioia v’era sparsa – accumulata.
VI
La realtà era giunta per spezzare l’incanto di quella poesia. Prima non v’era che un semplice poema; poi, d’improvviso, il dramma aveva fatto irruzione. – Ma, al presentarsi della lotta, quei due che rappresentavano l’ideale, non s’erano vôlti a far faccia, non se n’erano curati – erano semplicemente sfumati. Erano scomparsi in pieno giorno, nello stesso modo che le visioni dorate cominciano al crepuscolo e spariscono all’alba. Di quei due – così belli e felici – non poteva essere altrimenti. Essi, così sublimemente, isolati, all’apparire del dramma, non potevano che dissolversi.
Dov’erano andati? V’è forse qualche rosea regione sconosciuta, confinante con la terra, dove avevano trovato rifugio; oppure s’erano confusi con la natura, erano diventati parte di quel fulgido sito, di cui prima sembravano una emanazione? S’erano forse compenetrati con gli alberi, coi cespugli e con gli arrampicanti della villa? V’era forse qualcosa d’essi nell’olezzo dei fiori, nell’ondeggiare dell’erba, nel mormorare del vento tra le frondi?....
Non lasciamoci trascinare dalla fantasia. La fine inesplicabile del fatto che abbiamo narrato rimase un mistero per tutti. Molti rinunciarono a comprenderlo, altri ne trovarono la spiegazione in quel lago profondo ed opaco, silenzioso e strano, e che certo non poteva lasciare indovinare i segreti che celava; altri invece sostennero che i due amanti erano fuggiti in qualche modo.
Ma la leggenda popolare fu informata a idee sovranaturali. La villa d’Ostellio acquistò fama d’essere fatata – e a nessuno si può far credere che i due amanti non vi abitino ancora. Per i paesani, essi s’aggirano sempre, talvolta invisibili, tal altra indistintamente travisti, per gli ombrosi viali e i boschetti reconditi. È una storia che i popolani raccontano volontieri, abbassando la voce e guardandosi d’intorno, e alla quale credono fermamente e crederanno sempre. Molti anni sono ora passati; il vecchio Pietro dorme da molto tempo il suo ultimo sonno, la famiglia d’Ostellio s’è estinta, la villa è del tutto abbandonata; più nessuno vi dimora e non si sa quasi a chi appartenga. I cancelli corrosi s’aprono sotto la più lieve pressione, ma pochissimi osano penetrarvi. Quelli che vi si arrischiano sono reputati ésprits forts, ed i forestieri sono costretti a dare grosse mancie per trovarvi un cicerone.
Eppure, entrando, non si scorge nulla di pauroso. Nessuno vi vide mai fantasma di sorta. Il paese ha anzi acquistato in poesia. Il disordine nella natura è sublime, e tale da innamorare un artista e far sognare chiunque. La vegetazione è più che mai lussureggiante e vivace. In certi punti l’ombra è impenetrabile. Le statue conservano la loro immobilità serena, ma sono ora del tutto coperte di muschio. Mille piante parassite abbracciano e soffocano i tronchi secolari. I prati si confondono coi viali; e questi a loro volta si perdono nel nulla. Qua e là dei tronchi d’alberi morti intercettano il cammino. Il bosco s’è fatto inaccessibile, ma gli augelli vi cantano sempre. Il palazzo è deserto, alcune finestre aperte, i vetri rotti. Dovunque è il decadimento, ma l’ideale traspira da ogni parte. Nessun passo turba il silenzio delle vaste sale. Nell’appartamento d’angolo, niuno ha più usato penetrare. In primavera un immenso epitalamio riempie quella splendida solitudine. Una indescrivibile gioia è sparsa dovunque, un gaudio sommesso pieno di misteriosa voluttà. I profumi sono dolcissimi.
Chi vi penetra non è atterrito, ma incantato. E non vi può essere un pericolo in quella seduzione? Non s’arrischia forse di essere inebriati, attratti, addormentati da quel blando veleno d’amore sparso dovunque? S’è sicuri di poterne uscire? – Quelli che vi andarono, affermano d’aver visto in certi punti apparire delle forme vaghe, e aver udito qua e là delle risa sommesse, delle parole interrotte e un fruscìo di vesti. Intorno a quel lago, sempre più mistico e strano, spira un’aura voluttuosa che illanguidisce e dà un morboso piacere. E là, più che altrove, s’odono le risa e un mormorìo leggiero e talvolta un indescrivibile rumore, come uno scoccar di baci....
FINE