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Kitabı oku: «In Silenzio», sayfa 10

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II.

La moribonda aveva aperto gli occhi, il cui colore azzurro smoriva con infinita tristezza tra il livido delle occhiaje incavate. Alla vista del marito, fece quasi per rannicchiarsi, sgomenta, nel fondo del letto. Dagli occhi le sgorgarono due lagrime che, non potendo scorrerle per guance, le invetrarono lo sguardo smarrito.

Con un sorriso nervoso, involontario, che esprimeva sforzo atroce che faceva su sé stesso per dominare il fermento degli opposti sentimenti: odio, nausea, pietà, i dispetto, Silvio Gelli si chinò su lei:

– Fulvia, eh… vedi? eccomi qua… Tu m’hai fatto chiamare, è vero? Son venuto.

– Opera di vera misericordia! – sospirò di nuovo, da l’altra sponda del letto, don Camillo Righi, per ajutarlo.

Ma il Gelli non gliene fu grato:

– No! Nient’affatto! – negò anzi, con ira. – Sor venuto, debbo dirlo, per riconoscere il danno… il danno degli antichi miei torti, debbo dirlo. Non mi aspettavo, vero… di… di sentirmelo dire da altri, ecco!

E sorrise di nuovo, nervosamente, guardando in giro il dottor Balla, le due donne, il prete, che annuirono, imb~arazzati.

– Ma sono venuto proprio per questo, – raffermò, chinandosi di nuovo sul letto. – Sì, Fulvia; e non mi pento d’esser venuto.

Si rialzò soddisfatto, parendogli d’avere almeno rimediato in qualche modo al ridicolo della sua posizione.

La moribonda aveva richiuso gli occhi, e le due lagrime ora, le scorrevano lente. Agitò le labbra.

– Che dici? – domandò egli, tornando a chinarsi, pronto, su lei.

Tutti si protesero verso il letto.

– Grazie, – alitò ella.

– No, no, – rispose egli. – Ora, io… Che dici?

Le palpebre chiuse della moribonda si erano gonfiate e nuove lagrime e, quasi punte da lievi tremiti, si agitavano insieme con le labbra. Egli comprese che una parola, un nome, tremava in quelle lagrime nascoste e su quelle labbra, senza trovar la voce, nell’angoscia; si rabbujò in volto profondamente commosso:

– Livia?… Sì… Basta, ora… Non agitarti così… Parleremo poi.

– La figlia, – spiegò piano il Righi al dottor Balla. Questi chinò più volte il capo, seccato; poi, vedendosi guardato dal Gelli, domandò perplesso:

– Vogliamo?… Prego, signori, ci lascino soli.

Il Righi, la cognata e la nipote uscirono, trepidi, con gli occhi lagrimosi.

Il dottor Balla chiuse l’uscio della camera, poi s’accostò al letto, per scoprire la giacente. Ma questa, come impaurita, fissando il marito, trattenne con una mano la coperta, e disse:

– Tu?

– Come? – domandò il Balla, sorpreso, e si volse a guardare il Gelli.

Gli vide il volto contratto, come per un fitto spasimo improvviso, o per vivo ribrezzo.

– Non vuoi? – le domandò il Gelli, chinandosi un’altra volta su lei. – Non debbo? È vero, sì… io non sono venuto qua come medico… e forse…

Si alzò, guardò il medico e aggiunse:

– Mi assumerei una tremenda responsabilità…

– Sono già tre giorni e una notte, – disse il Balla, interpretando a suo modo la perplessità del marito. – Ed è evidente che il processo di infiammazione è molto inoltrato… Tentare ora, dice lei? Eh già, una tremenda responsabilità… Ma d’altra parte…

– Sì, d’altra parte, bisognerà pure tentare, – soggiunse il Gelli.

– Dunque, pazienza, eh? signora… – disse allora il Balla, tirando pian piano la coperta.

Ella richiuse gli occhi e aggrottò dolorosamente le ciglia.

Il Balla si mise a sfasciare la ferita.

Nel silenzio, gli oggetti della camera, le tende, la candela che ardeva sul cassettone, riflessa nello specchio, parve al Gelli che assumessero, nella immobilità loro, sentimento di vita e fossero come sospesi in una attesa angosciosa. Impressionato dalla lucidezza di questa sua percezione, in quel momento, si distrasse: guardò in giro la camera, come per far la conoscenza di quegli oggetti che così, in un paese lontano, a lui ignoto, erano testimoni di quel triste imprevedibile avvenimento della sua vita. Quando il Balla lo richiamò a sé, dicendo: – Ecco… – egli chinò subito gli occhi su la ferita scoperta, calmo, e non vide altro, non pensò più ad altro, come se fosse venuto lì per un consulto. Esaminò a lungo, attentamente, la ferita. Forse, tentata a tempo la laparatomia, ci sarebbe stata qualche speranza di salvezza. Ma ormai, dopo quattro giorni…

Silvio Gelli si sollevò; guardò il Balla acutamente. Questi si strinse nelle spalle e, tanto per dire qualcosa, indicando certi segni esteriori attorno alla ferita, diede alcune spiegazioni affatto inutili.

Il Gelli si chinò di nuovo a osservare; poi guardò la moglie, senza badare all’altro che domandava:

– Rifasciamo?

Rifasciata e ricoperta, Fulvia schiuse gli occhi, guardò il marito e domandò con un filo di voce:

– Muojo?

– No, – rispose egli, posandole una mano su la fronte. – Sta’ tranquilla, sta’ tranquilla. A domani, dottore. Farò io. Prepari tutto.

Il Balla lo guardò perplesso, se intendere come una pietosa bugia quel proponimento e quell’ordinazione.

– Gli strumenti dell’ospedale? – domandò.

– Sì, – rispose il Gelli. – Tutto.

– E… e farò venire anche, – aggiunse il Balla, cercando gli occhi di lui per fargli un cenno d’intelligenza, – anche la nostra infermiera, che è il braccio destro del collega Nardoni, eh?

– Nardoni? No, non c’è bisogno di lui.

– No, scusi… dico l’infermiera, Aurelia. Sta da circa tredici anni, lì, nel nostro ospedaletto.

– Ah! bene! – sospirò il Gelli, astratto. – Tredici anni? Proprio tredici anni… è vero, Fulvia? Tredici anni…

– Di che? – fece il Balla.

Non capiva. Attese ancora un po’, quindi, seccato, scrollò le spalle e andò via.

Silvio Gelli sedette accanto al letto. La moribonda allora volse il capo verso di lui; ma i capelli, nel volgersi, la impacciarono. Egli con una mano glieli ravviò e, intenerendosi a quel suo atto, sospirò:

– Povera Fulvia!

Sì, i capelli erano ancora quelli d’un tempo, ma quanto, quanto più misero e sparuto le rendevano ora il volto cangiato, e che ruga, ora, su quella fronte un giorno così altera! Tredici anni! Che abisso!

Ella si provò a sporgere una mano dalle coperte, e ripeté più con gli occhi che con le labbra:

– Grazie.

Egli prese quella mano e la tenne stretta fra le sue.

Ma non il contatto delle mani l’uno e l’altra avvertirono in quel punto: gli occhi dovevano prima intendersi tra loro e non potevano ancora, poiché non solo lo sguardo, ma tutta l’aria di lui aveva per Fulvia un’espressione nuova, incomprensibile. Cercò egli con gli occhi di rassicurare, di sorreggere quasi, lo sguardo di lei che gli sfuggiva, come in un dubbioso attonimento, e aggiunse con la voce:

– Sì, Fulvia… per tutto quello che tu soffristi con me… e che hai sofferto dopo, per causa mia, fino a questo punto… Questo tuo atto disperato ne è una prova… Sì, io…

S’interruppe; volse il capo verso l’uscio, che il Balla, andandosene, aveva lasciato aperto. Di là, c’era forse qualcuno che poteva sentire; c’era stato quel matto che, nel furore della passione, osava dire in faccia a tutti la verità, e che aveva creduto di interpretare il sentimento, ond’egli era stato spinto ad accorrere al letto della moglie moribonda. Ora egli ripeteva, quasi, le parole di lui. Ma no, no, non era vero: non dal rimorso soltanto era stato spinto a venire; ma da qualch’altra cosa insieme, anzi da qualche altra cosa principalmente: da un bisogno strano. Doveva dirlo…

– Aspetta.

Le lasciò la mano e si recò a richiudere l’uscio.

– Anch’io però, sai, Fulvia? ho sofferto tanto anch’io: non saprei più dir come… come non mi sarei mai aspettato. Subito, fin dal primo giorno. Compresi tutto; e, nello stesso tempo, non compresi più nulla… Proprio così. La bestialità mia, cinica, senza ragione e senza scopo, o meglio, con questo solo scopo: di dimostrarti che io potevo tutto e tu niente… Facevo… Che facevo? Non mi sono mai divertito! Ma era come una sfida… A urtoni, ma… coi guanti, è vero? ti sospinsi fin quasi all’orlo del precipizio, e ti lasciai lì, esposta, senza riparo, senza difesa, aspettando che la vertigine ti cogliesse. E tu, disperata, col tuo orgoglio, accettasti infine la sfida, ti lasciasti cogliere dalla vertigine, e giù, nel precipizio! Che vuoto! Con la piccina sola, abbandonata… io, inetto… io, indegno… Ho cercato di colmarlo, comunque, da allora, questo vuoto dentro e intorno a me, con le cure per la bambina… coi miei studii… invano! Dentro di me più profondo… intorno a me, più vasto, e nero! Ho cercato finanche di soffrire, apposta, per affermare in qualche modo me stesso in questo vuoto… Ma no; niente: non soffro… non soffro per te, non soffro per me; soffro per la vita che è così: tu qua ti uccidi… un altro là impazzisce… chi crede di ragionare e non conclude nulla… Vengo qua; dico: Muore; vuole andarsene in pace; va’, va’, accorri… E il mio sentimento s’infrange contro una realtà che non potevo immaginare. Sì: io non debbo perdonare, debbo essere perdonato. Mi perdoni?

Si tolse le mani dalle tempie: aveva come parlato a stesso; si volse verso il letto: ella si era di nuovo assopita con le ciglia un po’ sollevate, come inorridita di quel che aveva inteso, e pareva che ne singultasse ancora dentro, così muta, rigida, col capo volto verso di lui.

Stette a contemplarla un pezzo, quasi impaurito. Gli parve che lo stiramento delle guance si fosse un po’ allentato. E per un momento, rivide precisa in quel volto l’immagine ch’egli per tanti anni aveva serbato di lei. Era bella, era bella ancora! Chi sa fin dove era caduta?… Ma la nobiltà dei lineamenti era rimasta intatta; come se il fango non l’avesse toccata. O forse ora la morte…

Si alzò pian piano, per non destarla, e in punta di piedi si recò nella stanza attigua, dove la sbiobbina era rimasta sola ad aspettare.

– Dorme, – le annunziò sottovoce, mirandola, costernato del mistero che pareva racchiudesse in sé, nel silenzio di quella notte orribile, quella creatura che viveva quasi per una atroce beffa della natura.

Ella gli sorrise di nuovo, di quel suo sorriso incosciente e disse:

– Vado io.

III.

Il Gelli si pose a sedere su la stessa sedia, donde quella s’era levata, lì presso al tavolino su cui ardeva la candela.

Poco dopo, sobbalzò. L’uscio, che dava sul corridoio, si schiudeva come da sé, pian piano, nel silenzio.

Marco Mauri sporse il capo, con un dito su la bocca per far segno di tacere; e si introdusse, dicendo sottovoce:

– M’ero nascosto qua, al bujo, nel corridojo… Sss… Ora che siamo noi due soli, zitto zitto, senza fiatare, me ne starò qui. Lei me lo può permettere: nessuno ci vede. Qua noi due soli, zitti zitti, eh?

Il Gelli lo guardò sorpreso, accigliato; poi, senza volerlo, sorrise nervosamente a un gesto supplice che quegli con ambo le mani gli rivolgeva; scrollò le spalle e gl’indicò il canapè lì presso. Il Mauri vi si pose a sedere, tutto contento.

Stettero entrambi un lungo tratto in silenzio.

Poi il Mauri disse:

– Se Lei volesse stendersi qua, a riposare un poco… No, è vero? E neanche io. La bestia vorrebbe dormire: la coscienza non glielo permette. Molti anni fa, quando mi morì un figliuolo, dopo nove notti di veglia assidua, non sentii pena, sul momento: avevo troppo sonno, e dovetti prima dormire; poi, quando mi destai, il dolore mi assalì. Ma allora la coscienza non mi rimordeva. Ora, quattro notti, sa, che non chiudo occhio; e non ho sonno!

Tacque un pezzo, assorto; poi domandò, fissando la fiamma della candela:

– Come lo chiamavano gli antichi quel fiume? Ah, sì! Lete… il Lete… già! Il fiume dell’oblìo… Scorre nelle taverne, ora, questo fiume. E io non bevo! Da quattro giorni, sa? niente: neanche un boccone di pane. Acqua, là nella conca della fontana, giù in piazza, come le bestie. Acquaccia amara, renosiccia! puh! ma non mi va niente Un po’ d’acido prussico m’andrebbe… Mi sento gli occhi sa come? questi due archi qua delle ciglia, come i due archi di certi ponticelli che accavalciano la rena e i ciottoli d’un greto asciutto, arido, pieno di grilli… Ci ho due grilli maledetti, qua negli orecchi: stridono, stridono, e mi fanno impazzire… Parlo bene, eh? Mi par d’essere in campagna, quando m’esercitavo nell’oratoria, sperando d’esser promosso Pubblico Ministero, e imbussolavo i temi e poi mi mettevo a improvvisare ad alta voce, fra gli alberi: Signori della Corte, Signori Giurati… Parlo, parlo, mi scusi perché non posso farne a meno… Ho una smania, qua, nello stomaco… Mi metterei a gridare!

Si stese, così dicendo, bocconi, sul canapè, col mento sul bracciuolo e gli occhi sbarrati.

Il Gelli lo guatò e, preso da un senso di paura, si alzò si diresse verso l’uscio della camera da letto; guardò dentro; poi si trattenne là, sulla soglia.

Il Mauri si rimise a sedere e domandò ansiosamente:

– Riposa?

Il Gelli accennò di sì col capo.

– E… dica, non c’è più speranza proprio?… Nessuna?.. Se riposa!… Me la vuol far vedere? da costà dov’è lei… un momentino… Sì?

Balzò in piedi: gli s’accostò, rattenendo il fiato, si rizzò su la punta dei piedi e guardò nella camera.

La sbiobbina, che sedeva accanto al letto, vide così le teste di quei due uomini, l’una presso l’altra, che guardavano la moribonda. Lo stupore di lei si ripercosse sul Gelli che respinse allora indietro, con un braccio, il Mauri.

– A sedere… Andate a sedere.

– Sissignore… Grazie… – disse questi, obbedendo. – Eh, muore… muore… muore…

Gli occhi gli si arrossarono, e copiose lagrime ripresero a colargli per le guance, mentre si sforzava di soffocare i singhiozzi che gli scotevano il petto. Quand’ebbe pianto, così, un pezzo, aprì le braccia, si strinse nelle spalle e fece per parlare; ma, sentendo che la voce gli usciva ancora grossa di pianto, s’addentò una mano; strizzò gli occhi; ricacciò indietro violentemente le lagrime.

– Ce ne staremo qua, – poi disse, – tutti e due insieme, buoni buoni, a vegliarla fino all’ultimo… Come due coccodrilli… Poi la accompagneremo fino alla fossa, e quindi ciascuno riprenderà la sua via… Lei, la riprenderà: lei ha una casa, una gioja… Ia figliuola ignara. I-gna-ra – beata lei! I miei figli, invece, sanno tutto. Ha svelato loro tutto la madre, per istintiva crudeltà. Che bisogno ne aveva? non mi ama, non mi ha mai amato; non sa proprio che farsi di me. Se li è cresciuti lei, là in campagna a modo suo; e non hanno mai avuto per me né rispetto né considerazione. Mi chiamano Pretore; anzi Preto’, come la loro madre, si figuri! «È in casa il Preto’? No, è alla Pretura il Preto’…» Ah, Lei non sa, signore, che cosa voglia dire capitare a venticinque anni in un paesettaccio, e marcirvi per quattro, cinque, dieci eterni anni… pretore! Se Le dicessi che io sposai per avere in casa un pianoforte? Perché musica io ho studiato; non ho mai studiato legge… E ho sposato una donna più vecchia di me, che aveva case e campagne… e che… Ma se si diventa bruti! Dopo quattro o cinque anni, assediati dalle miserie, dalle bassezze umane, non ci resta più addosso neppur una di quelle finzioni con cui la società ci mascherava e scopriamo allora che l’uomo è porco, per diritto di natura. Scusi, sa! noi, questo diritto, ce lo siamo negato, perché la società ci ha mandato a scuola, da piccini, e ci ha insegnato l’educazione, per farci soffrire e non farci ingrassare; ma che c’entra? L’uomo bisogna vederlo là, nel suo ambiente naturale, come l’ho veduto io, tant’anni. Che uomini siamo noi? Lei mi compatisce e io la rispetto… Che bella cosa!

Rise e si stirò a lungo, prima da una parte, poi dall’altra, le due bande della barba; ma infine se le strinse tutt’e due nel pugno e rimase a pensare, con gli occhi vividi, ilari, parlanti.

Il Gelli stette un pezzo a osservarlo, poi gli domandò con voce cupa:

– Dove l’avete conosciuta?

– Io? Flora? A Perugia, – s’affrettò a rispondergli il Mauri, scotendosi. – Un mese appena dopo il mio trasferimento colà, nel gabinetto d’un mio collega, giudice istruttore.

– Era arrestata?

– Nossignore. Era venuta per deporre. Stava anche lei a Perugia da poco più d’un mese.

– Sola? Come?

– Mal’accompagnata. Con uno che… aspetti!… un certo Gamba, sissignore, che si spacciava per artista… per pittore: era invece un miserabile applicatore mosaicista, della Fabbrica di… di Murano, credo: mandato per restaurare un mosaico di non so più qual chiesa di Perugia. Ciò… ciò… Ciò… Un mascalzone, che s’ubriacava tutti i santi giorni, e… e la picchiava. Fu trovato morto, una notte, su la strada, con la testa spaccata.

Il Gelli si coprì il volto con le mani.

– Orrore, eh? – scattò il Mauri, levandosi in piedi. – Mi faccia il piacere: lasci andare! «Fin dove era caduta!», è vero? Che orrore! Buffonate, via. Lei m’insegna che tutto sta nel togliersi d’addosso, una prima volta, sotto gli occhi di tutti, l’abito che ci ha imposto la società. Si provi Lei, una volta, a rubare cinque lire, e faccia che venga scoperto nell’atto di rubare. Me ne saprà dire qualche cosa! Ma Lei non ruba, è vero? Grazie! E quella disgraziata avrebbe forse fatto quello che fece se Lei, suo marito… Lasci andare! lasci andare! Eppure, sa? Flora, di Lei, non diceva male, come non diceva male d’alcuno; neppure di quel vigliacco che l’abbandonò, così da un giorno all’altro, senza ragione. Lo scusava, anzi; diceva d’averlo stancato, oppresso coi suoi continui timori e la sua gelosia. E anche Lei scusava, incolpando invece d’ogni suo torto le donne, le donne che ella odiava tutte profondamente in sé stessa… E quando, pochi giorni or sono, sono venuto a raggiungerla qua, ha voluto scusare anche me, il mio tradimento, la mia menzogna, incolpando sé stessa, certi suoi vezzi involontarii, il malvagio istinto, com’ella lo chiamava, il bisogno, cioè, che sentono tutte le donne di piacere finanche al marito della propria sorella…

Seguitò così un pezzo a sparlare, a sparlare. Il Gelli aveva appoggiato le braccia al tavolino, e vi aveva affondato il volto. S’era addormentato? A un tratto, Margherita, la sbiobbina, si presentò su la soglia, spaventata. Il Mauri le fe’ cenno di non parlare.

– Morta? – domandò, senza voce.

Quella chinò il capo più volte, e allora il Mauri, in punta di piedi, corse alla camera da letto; ma, alla vista della donna esanime, scoppiò in violenti singhiozzi e si buttò su di lei disperatamente.

La sbiobbina s’accostò al dormente, per scuoterlo; ma Silvio Gelli levò il capo dalle braccia e le disse, aggrondato, con gli occhi chiusi:

– Non dormo, sa. Lo lasci piangere, ormai… Io lasci..

LO SPIRITO MALIGNO

Carlo Noccia fu da giovane per circa sette anni in Africa, a Bona, commerciante, vi soffrì anche la fame nei primi tempi, e soltanto a furia di stenti, di rischi e d’incredibili fatiche riuscì a metter da parte un gruzzolo modesto.

Ritornato in Sicilia, per non apparire ingenuo in mezzo ai commercianti suoi compaesani, produttori e sensali d’agrumi e di zolfo, gente ladra, usa a combattere tra le insidie e con ogni sorta d’inganni, provò il bisogno di lasciar loro intendere che con quelle stesse arti egli aveva guadagnato colà il suo danaro. Dovette insomma confarsi al modo di pensare di quelli e disonorar le sue fatiche e il frutto di esse per aver pregio e considerazione agli occhi loro. E s’aggirò, faccente, con l’aria d’un furbo matricolato, in mezzo al traffico rumoroso del piccolo porto di mare, tra i grandi depositi di zolfo accatastati su la spiaggia; a bordo dei piroscafi d’ogni nazione, tra marinai e interpreti e scaricatori e stivatori, aspirando con voluttà l’odor del catrame e della pece, mentre gli occhi gli lacrimavano bruciati dalla polvere dello zolfo diffusa nell’aria. Stordito dai gridi dei barcaioli e dei facchini del porto, tra un continuo sbaccaneggiar di liti, e i fischi delle sirene e il fumo delle macchine, credette sinceramente che la necessità d’ingannare, i cattivi pensieri venissero dal fermento stesso di quella vita esagitata, esalassero dalle bocche delle stive, dall’acqua stessa del mare sporca di zolfo e di carbone, dal muffido pacciame delle alghe secche su la spiaggia solcata, scavata dal transito incessante dei carri striduli, carichi di minerale; credette sinceramente ch’egli, senza volere, vivendo lì, respirando in quell’aria, avrebbe appreso quell’arte in poco tempo; e fu felicissimo quando poté aver la dimostrazione che già gli altri credevano che non avesse più bisogno d’apprender altro. Si vide tutt’a un tratto posto a capo d’uno dei più grossi depositi di zolfo. Il proprietario, giovanotto ambizioso, che aveva dovuto interrompere gli studi universitarii per la morte improvvisa del padre, era affatto ignaro di commercio e attendeva piuttosto a ingraziarsi con servigi e favori gli animi dei suoi compaesani per essere eletto sindaco del Comune. Naturalmente, diventò subito preda dei più furbi speculatori di piazza, e segnatamente di un certo Grao, il quale cominciò a irretirlo in una vasta impresa da tentare col nobilissimo scopo di allibertare il commercio dello zolfo dallo sfruttamento delle case estere d’esportazione che avevano sede nei maggiori centri dell’isola; impresa per cui egli, in poco tempo, centuplicando le sue ricchezze (e diceva poco!) avrebbe avuto gloria di salvatore dell’industria zolfifera siciliana, e sarebbe stato eletto sindaco subito, senza alcun dubbio.

Il Noccia ammirava sopra tutti questo Grao; lo teneva in conto d’un oracolo. Forse, a destare in lui tanta ammirazione e così cieca fiducia aveva gran parte una figliuola, che costui aveva, bellissima, e della quale egli si era innamorato. Il fatto è che quando il Grao gettò in quella vasta impresa il suo principale, e questi domandò a lui, suo magazziniere e amministratore, consigli e schiarimenti sui giuochi ora al rialzo ora al ribasso a cui quegli lo esponeva, egli, con la massima buona fede, gli dette sempre quei consigli e quegli schiarimenti che il Grao di nascosto e senza parere gli aveva suggeriti. Se non che, sempre, alla scadenza degli impegni, il suo principale, se aveva giocato al ribasso, s’era trovato di fronte a uno spaventoso rialzo, e viceversa; sicché in meno d’un anno era stato liquidato.

Nessuno volle credere alla buona fede del Noccia. Come mai non s’era accorto che il Grao faceva volta per volta di soppiatto il giuoco inverso?

Non se n’era accorto, perché anche lui credeva a occhi chiusi che quella vasta impresa commerciale, se non proprio centuplicato, avrebbe certo accresciuto di molto le ricchezze del suo principale. Al primo, al secondo, al terzo colpo fallito, credette sinceramente alla disperazione del Grao, e che nel nuovo giuoco proposto fosse la salvezza e il rifacimento dei danni.

Del resto, ad attestar la sua buona fede stava il fatto che alla fine nella rovina del suo principale egli vide anche la sua: perduto il posto e, quel che più gli dolse, anche la speranza di far sua la figlia del Grao; e che si sentì come cascar dalle nuvole allorché il Grao gli venne avanti con le braccia aperte per ringraziarlo di quanto aveva fatto.

Protestò allora, di fronte al Grao stesso, la sua innocenza e la sua buona fede ma quegli, ammiccando furbescamente e battendogli una mano sulla spalla, gli fece intendere che lo riteneva, anche per quella protesta, suo degno compare, anzi suo degno genero; e un’altra cosa gli fece intendere: che nessuno lo avrebbe lodato di non essersi approfittato del suo posto e di quel giuoco per arricchire, e che anzi sarebbe stato stimato da tutti uno sciocco, un buono a nulla, proprio come quel suo principale e degno come questo d’esser giocato e poi buttato là in un canto con una pedata.

Avvenne intanto che per invidia dell’agiatezza che gli era venuta da quelle nozze con la figlia del ricchissimo speculatore, si vide addosso inaspettatamente l’odio feroce di tutti i suoi compaesani. Presero a chiamarlo Giuda e a stimarlo capace d’ogni infamia, di ogni perfidia e ad avvelenargli con questa stima anche l’amore per la sposa.

Volle dimostrare che non era, non era, perdio, quel che tutti lo stimavano; ma ecco che in tre o quattro occasioni, senza che ne sapesse né il come né il perché, dai suoi atti e dalle sue buone intenzioni era saltata fuori all’improvviso la dimostrazione contraria, fino al punto che, un giorno, per una inesplicabile intestatura su un conto sbagliato, s’era visto citare in tribunale per poche centinaja di lire da un suo subalterno colmato di beneficii.

Il Noccia cominciò a credere allora all’esistenza d’un certo spirito maligno nato e nutrito dall’odio, dall’invidia, dal rancore, dai cattivi pensieri e insomma da tutto il male che ci vogliono i nostri nemici; uno spirito maligno che ci sta sempre attorno agile vigile e pronto a nuocerci, approfittando dei nostri dubbi e della nostra perplessità, con spinte e suggerimenti e consigli e insinuazioni che hanno in prima tutta l’aria della più onesta saggezza, del più sennato consiglio, e che poi tutt’a un tratto si scoprono falsi e insidiosi, sicché tutta la nostra condotta appare all’improvviso agli occhi altrui e anche ai nostri stessi sotto una luce sinistra, dalla quale non sappiamo più, così soprappresi, come sottrarci.

Certo era stato questo spirito maligno a fargli sbagliare quel conto.

E intanto, ecco qua, anche capace d’approfittarsi di poche centinaja di lire a danno d’un poveretto lo avevan creduto i suoi compaesani. E d’allora in poi ciascuno s’era sentito in diritto di negargli quel che gli doveva, sicché per riavere il suo si vedeva ogni volta costretto a intentare una lite.

Ora, per una di queste liti, che da un pezzo si trascinava nei tribunali e che forse il Noccia, stanco e avvilito, avrebbe volentieri mandato a monte, se la rabbia non lo avesse forzato a dimostrare ancora una volta che la giustizia stava dalla sua, eccolo in viaggio per Roma a sollecitare di persona il patrocinio del deputato del suo collegio.

Aveva già quarantasette anni, e l’animo gli s’era profondamente incupito per tutta quella guerra d’odio e di invidia.

Come una bestia, ferita in una caccia feroce, e ricoverata in una tana non sua, egli si guardava ormai davanti e dietro, diffidente e ombroso.

I grandi occhi chiari, d’acciajo, negli sguardi obliqui, davano in quel suo volto fosco, bruno, cotto dal sole nelle lontane arrabbiate spiagge di Sicilia, l’impressione d’un vuoto strano. E in quel suo volto egli sentiva ora quasi un disagio insolito per certe rughe che di tratto in tratto gli si spianavano, ammirando lo splendore della città.

Aveva in petto il portafogli gonfio di molte migliaja d lire. Forse, partendo dalla Sicilia, s’era proposto di con cedersi, se non tutti, parecchi di quegli svaghi per lui affatto nuovi, che una città come Roma poteva offrirgli. Ma in quattro giorni, per quel ritegno ombroso, divenuto in lui quasi istintivo, non aveva ancora ceduto a nessuna tentazione, e si sentiva stanco, oppresso e inquieto.

Aveva preso alloggio nell’albergo della Nuova Roma presso la stazione, e faceva ogni volta chilometri e chilometri per andarvisi a rinchiudere per una mezz’oretta; ne riusciva poco dopo più smanioso di prima e senza mèta.

Così gli avvenne, la mattina del quinto giorno, di cacciarsi in un caffeuccio lì nei pressi della stazione, per passarvi un po’ di tempo.

C’erano pochi avventori e molte mosche. Il Noccia ordinò una tazza di birra e stese la mano al tavolino accanto per prendere un giornale che vi stava posato. Ma le mosche lo tormentavano. Per cacciarne una, sfondò il giornale; voleva ripagarlo, ma il padrone non permise; per cacciarne un’altra per poco non rovesciò la tazza di birra. Smise allora di leggere e, sbuffando, allungò le mani sulla panca imbottita di cuojo; ma subito ne ritrasse una, la destra, che aveva toccato qualche cosa, e si voltò a guardare.

Era una vecchia borsetta, evidentemente lasciata lì da qualche avventore.

Forse era vuota. Se non vuota, che poteva mai contenere? pochi soldi, qualche lira d’argento. E il Noccia rimase un pezzo perplesso, se prenderla o farla prendere dal caffettiere, perché la restituisse al proprietario, se fosse venuto a cercarla. Guardò il caffettiere dietro il banco. Non gli parve che avesse faccia da restituir la borsetta, se ci fosse dentro qualche cosa. Forse sarebbe stato meglio accertarsene, prima. Allungò cautamente la mano e la prese. Pesava. L’aprì un poco; vi intravide una piastra d’argento e due monetine da due centesimi. Tornò a guardare il caffettiere, e non ebbe alcun dubbio che quella piastra e quelle due monetine sarebbero andate a finire nella ciotola dentro il banco.

Che fare? Pensò che il giorno avanti aveva letto nella cronaca d’un giornale un nobile esempio da imitare: quello d’un fattorino di telegrafo che aveva trovato per istrada un portafogli con più di mille lire, ed era andato a depositarlo in questura. Imitare quel nobile esempio? In questura avrebbero voluto il suo nome e lo avrebbero stampato sui giornali nel dar l’annunzio della borsetta trovata. Pensò che nel circolo di compagnia gli sfaccendati del suo paese leggevano i giornali di Roma dall’articolo di fondo all’ultimo avviso di pubblicità in sesta pagina. Quantunque lo ritenessero capace di approfittarsi anche di poche lire, avrebbero detto sghignazzando che la borsetta, lui, l’aveva consegnata alla questura perché conteneva soltanto una piastra e quattro centesimi. Veramente, darsi per così poco tutta quell’aria d’onestà gli parve troppo. Che fare allora? Durando quell’esitazione, non stimò prudente tenere ancora la borsetta in mano, alla vista di tutti, e se la ficcò nel taschino del panciotto per riflettere con comodo se non gli sarebbe meglio convenuto, per non aver tanti impicci, rimetterla al posto dove l’aveva trovata. Ma forse allora qualche altro avventore senza scrupoli se la sarebbe presa senza pensar due volte; e quel poveretto che l’aveva smarrita…

«Oh via,» fece tra sé a questo punto il Noccia. «In fin dei conti, son cinque lire…»

E stava per trarre dal taschino la borsa, quando entrò di furia nel caffeuccio e s’avventò verso il suo tavolino un sudicia vecchia dalla faccia aguzza, che soffiava come un biacco, col naso da civetta e il muso irto di grigi peluzzi tirandosi via dagli occhi i capelli lanosi, scarmigliati sotto il decrepito cappellino annodato al mento.

– C’è lì la borsetta! la mia borsetta! l’ho lasciata lì.

Così investito, il Noccia guardò la grinta della vecchi, e subito concepì il sospetto che, essendosi egli messo in tasca la borsetta, quella dovesse ritener per certo che avesse voluto appropriarsela, e allora le rivolse un sorriso vano da scemo, e si finse ignaro: – Una borsetta? dove? – E prima si scostò e poi si alzò per farla cercar bene; e quando la vecchia, dopo aver cercato su la panca, sotto la panca tra i piedi dei tavolini con irosa smania che lasciava intender chiaramente quel sospetto, levò l’arcigna faccia e gli domandò, squadrandolo biecamente: – Lei non l’ha trovata? – egli, che pur si struggeva di non poter più ormai cacciarsi due dita in tasca per restituirgliela, ebbe naturalmente, per quello stesso struggimento, un fiero scatto e, arrossendo fin nel bianco degli occhi, le rispose: