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Kitabı oku: «In Silenzio», sayfa 9

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IL CORVO DI MÌZZARO

Pastori sfaccendati, arrampicandosi un giorno su per le balze di Mìzzaro, sorpresero nel nido un grosso corvo, che se ne stava pacificamente a covar le uova.

– O babbaccio, e che fai? Ma guardate un po’! Le uova cova! Servizio di tua moglie, babbaccio!

Non è da credere che il corvo non gridasse le sue ragioni: le gridò, ma da corvo; e naturalmente non fu inteso. Quei pastori si spassarono a tormentarlo un’intera giornata; poi uno di loro se lo portò con sé al paese; ma il giorno dopo, non sapendo che farsene, gli legò per ricordo una campanellina di bronzo al collo e lo rimise in libertà:

– Godi!

Che impressione facesse al corvo quel ciondolo sonoro, lo avrà saputo lui che se lo portava al collo su per il cielo. A giudicare dalle ampie volate a cui s’abbandonava, pareva se ne beasse, dimentico ormai del nido e della moglie.

– Din dindin din dindin…

I contadini, che attendevano curvi a lavorare la terra, udendo quello scampanellìo, si rizzavano sulla vita; guardavano di qua, di là, per i piani sterminati sotto la gran vampa del sole:

– Dove suonano?

Non spirava alito di vento; da qual mai chiesa lontana dunque poteva arrivar loro quello scampanìo festivo?

Tutto potevano immaginarsi, tranne che un corvo sonasse così, per aria.

«Spiriti!» pensò Cichè, che lavorava solo solo in un podere a scavar conche attorno ad alcuni frutici di mandorlo per riempirle di concime. E si fece il segno della croce. Perché ci credeva, lui, e come! agli Spiriti. Perfino chiamare s’era sentito qualche sera, ritornando tardi dalla campagna, lungo lo stradone, presso alle Fornaci spente, dove, a detta di tutti ci stavano di casa. Chiamare? E come? Chiamare: «Cichè! Cichè!» così. E i capelli gli s’erano rizzati sotto la berretta.

Ora quello scampanellìo lo aveva udito prima da lontano, poi da vicino, poi da lontano ancora; e tutt’intorno non c’era anima viva: campagna, alberi e piante, che non parlavano e non sentivano, che con la loro impassibilità gli avevano accresciuto lo sgomento. Poi, andato per la colazione che la mattina s’era portata da casa, mezza pagnotta e un cipolla dentro al tascapane lasciato insieme con la giacca un buon tratto più là appeso a un ramo d’olivo, sissignori, la cipolla sì, dentro al tascapane, ma la mezza pagnotta non ce l’aveva più trovata. E in pochi giorni, tre volte, così.

Non ne disse niente a nessuno, perché sapeva che quando gli Spiriti prendono a bersagliare uno, guaj a lamentarsene: ti ripigliano a comodo e te ne fanno di peggio.

– Non mi sento bene, – rispondeva Cichè, la sera ritornando dal lavoro, alla moglie che gli domandava perché avesse quell’aria da intronato.

– Mangi però! – gli faceva osservare, poco dopo, la moglie, vedendogli ingollare due e tre scodelle di minestra una dopo l’altra.

– Mangio, già! – masticava Cichè, digiuno dalla mattina e con la rabbia di non potersi confidare.

Finché per le campagne non si sparse la notizia di quel corvo ladro che andava sonando la campanella per il cielo.

Cichè ebbe il torto di non saperne ridere come tutti gli altri contadini, che se n’erano messi in apprensione.

– Prometto e giuro, – disse, – che gliela farò pagare

E che fece? Si portò nel tascapane, insieme con la mezza pagnotta e la cipolla, quattro fave secche e quattro gugliate di spago. Appena arrivato al podere, tolse all’asino la bardella e lo avviò alla costa a mangiar le stoppie rimaste. Col suo asino Cichè parlava, come sogliono i contadini; e l’asino rizzando ora questa ora quell’orecchia, di tanto in tanto sbruffava, come per rispondergli in qualche modo.

– Va’, Ciccio, va’, – gli disse, quel giorno, Cichè. – E sta’ a vedere, ché ci divertiremo!

Forò le fave; le legò alle quattro gugliate di spago attaccate alla bardella, e le dispose sul tascapane per terra. Poi s’allontanò per mettersi a zappare.

Passò un’ora; ne passarono due. Di tratto in tratto Cichè interrompeva il lavoro credendo sempre di udire il suono della campanella per aria; ritto sulla vita, tendeva l’orecchio. Niente. E si rimetteva a zappare.

Si fece l’ora della colazione. Perplesso, se andare per il pane o attendere ancora un po’, Cichè alla fine si mosse; ma poi, vedendo così ben disposta l’insidia sul tascapane, non volle guastarla: in quella, intese chiaramente un tintinno lontano; levò il capo:

– Eccolo!

E, cheto e chinato, col cuore in gola, lasciò il posto e si nascose lontano.

Il corvo però, come se godesse del suono della sua campanella, s’aggirava in alto, in alto, e non calava.

«Forse mi vede», pensò Cichè; e si alzò per nascondersi più lontano.

Ma il corvo seguitò a volare in alto, senza dar segno di voler calare. Cichè aveva fame; ma pur non voleva dargliela vinta. Si rimise a zappare. Aspetta, aspetta; il corvo, sempre lassù, come se glielo facesse apposta. Affamato, col pane lì a due passi, signori miei, senza poterlo toccare! Si rodeva dentro, Cichè, ma resisteva, stizzito, ostinato.

– Calerai! calerai! Devi aver fame anche tu!

Il corvo, intanto, dal cielo, col suono della campanella, pareva gli rispondesse, dispettoso:

– Né tu né io! Né tu né io!

Passò così la giornata. Cichè, esasperato, si sfogò con l’asino, rimettendogli la bardella, da cui pendevano, come un festello di nuovo genere, le quattro fave. E, strada facendo, morsi da arrabbiato a quel pane, ch’era stato per tutto il giorno il suo supplizio. A ogni boccone, una mala parola all’indirizzo del corvo: – boja, ladro, traditore – perché non s’era lasciato prendere da lui.

Ma il giorno dopo, gli venne bene.

Preparata l’insidia delle fave, con la stessa cura, s’era messo da poco al lavoro, allorché intese uno scampanellìo scomposto lì presso e un gracchiar disperato, tra un furioso sbattito d’ali. Accorse. Il corvo era lì, tenuto per lo spago che gli usciva dal becco e lo strozzava.

– Ah, ci sei caduto? – gli gridò, afferrandolo per le alacce. – Buona, la fava? Ora a me, brutta bestiaccia! Sentirai .

Tagliò lo spago; e, tanto per cominciare, assestò al corvo due pugni in testa.

– Questo per la paura, e questo per i digiuni!

L’asino che se ne stava poco discosto a strappar le stoppie dalla costa, sentendo gracchiare il corvo, aveva preso intanto la fuga, spaventato. Cichè lo arrestò con la voce poi da lontano gli mostrò la bestiaccia nera:

– Eccolo qua, Ciccio! Lo abbiamo! lo abbiamo!

Lo legò per i piedi; lo appese all’albero e tornò al lavoro. Zappando, si mise a pensare alla rivincita che doveva prendersi. Gli avrebbe spuntate le ali, perché non potesse più volare; poi lo avrebbe dato in mano ai figliuoli e agli altri ragazzi del vicinato, perché ne facessero scempio. E tra sé rideva.

Venuta la sera, aggiustò la bardella sul dorso dell’asino tolse il corvo e lo appese per i piedi al posolino della groppiera; cavalcò, e via. La campanella, legata al collo del corvo, si mise allora a tintinnire. L’asino drizzò le orecchie e s’impuntò.

– Arrì! – gli gridò Cichè, dando uno strattone alla cavezza.

E l’asino riprese ad andare, non ben persuaso però di quel suono insolito che accompagnava il suo lento zoccolare sulla polvere dello stradone.

Cichè, andando, pensava che da quel giorno per le campagne nessuno più avrebbe udito scampanellare in cielo il corvo di Mìzzaro. Lo aveva lì, e non dava più segno di vita, ora, la mala bestia.

– Che fai? – gli domandò, voltandosi e dandogli in testa con la cavezza. – Ti sei addormentato?

Il corvo, alla botta:

– Cràh!

Di botto, a quella vociaccia inaspettata, l’asino si fermò, il collo ritto, le orecchie tese. Cichè scoppiò in una risata.

– Arrì, Ciccio! Che ti spaventi?

E picchiò con la corda l’asino sulle orecchie. Poco dopo, di nuovo, ripeté al corvo la domanda:

– Ti sei addormentato?

E un’altra botta, più forte. Più forte, allora, il corvo:

– Cràh!

Ma questa volta, l’asino spiccò un salto da montone e prese la fuga. Invano Cichè, con tutta la forza delle braccia e delle gambe, cercò di trattenerlo. Il corvo, sbattuto in quella corsa furiosa, si diede a gracchiare per disperato; ma più gracchiava e più correva l’asino spaventato.

– Cràh! Cràh! Cràh!

Cichè urlava a sua volta, tirava, tirava la cavezza; ma ormai le due bestie parevano impazzite dal terrore che si incutevano a vicenda, l’una berciando e l’altra fuggendo. Sonò per un tratto nella notte la furia di quella corsa disperata; poi s’intese un gran tonfo, e più nulla.

Il giorno dopo, Cichè fu trovato in fondo a un burrone, sfracellato, sotto l’asino anch’esso sfracellato: un carnajo che fumava sotto il sole tra un nugolo di mosche.

Il corvo di Mìzzaro, nero nell’azzurro della bella mattinata, sonava di nuovo pei cieli la sua campanella, libero e beato.

LA VEGLIA

I.

Marco Mauri, nel bujo della scala avvivato appena da l’incerto barlume che s’insinuava dal corridojo dove aveva lasciato la candela accesa, domandò a un signore che s’affrettava a salire:

– Il medico? Venga, muore!

Quegli si arrestò un istante, come per discernere chi l’investiva con quella domanda e con quell’annunzio:

– Muore?

Il Mauri, singhiozzando e gestendo, senza poter rispordere, si mise a risalire a balzi la scala, poi tolse da terra la candela, attraversò il corridojo, infilò per primo l’uscio in fondo.

– Qua, – disse, – in quest’altra camera!

Il nuovo arrivato lo seguì ansioso, guardingo, come se dalle cose che balzavan dall’ombra al lume fuggente della candela che quegli teneva in mano, volesse prima indovinare dove fosse venuto a cacciarsi. Su la soglia della seconda camera si arrestò, ansante.

Era un uomo di circa cinquant’anni, alto di statura, dall’aria rabbuffata; portava occhiali a staffa, cerchiati d’oro non aveva né barba né baffi; quasi calva la sommità del capo ma ciocche di capelli biondi gli scendevano scompostamente su la fronte e su le tempie. Se le rialzò; e si tenne un tratto le mani sul capo.

Giaceva sul letto disfatto, nella camera in disordine appena rischiarata, una donna. Livida, col viso già orribilmente stirato ai due lati del naso, teneva gli occhi chiusi, i capelli, d’un bellissimo color rosso, sciolti e sparsi su guanciale. Pareva già come inabissata nella morte, ma frequenti, muti singulti incoscienti le scotevano ancora il capo appena appena.

Un vecchio pretucolo senza sottana, bruno, coi calzoni a mezza gamba, le calze lunghe e le fibbie di argento alle scarpine, interruppe la preghiera che labbreggiava distratto accanto al letto e si levò da sedere in un’ansia dubbiosa; mentre il Mauri diceva a bassa voce, smaniando, tra le lagrime:

– Qua, qua, guardi: la ferita è qua! – (e si premeva forte l’indice d’una mano sul basso ventre). – Qua. Il colpo, evidentemente, è deviato: la mano era inesperta. Sente? Singhiozza così, da questa mattina… Perché? Non l’hanno operata a tempo, capisce? non hanno voluto operarla… Veda, veda Lei, le dia subito ajuto.

Non s’aspettava che quell’uomo, da lui creduto il medico, rimasto lì a piè del letto, con gli occhi dilatati fissi sulla moribonda, si rivoltasse a un tratto a guatarlo.

– Non ode, sa! non ode più! – aggiunse, allora, con un gesto disperato.

Ma quegli si voltò verso il prete che già si era accostato timido, perplesso.

– Don Camillo Righi? – domandò.

– A servirla, proprio io, sissignore! E… Lei, di grazia! Il dottor Silvio Gelli?

– Ah, il marito? – ghignò il Mauri.

– Zitto lei! – saltò a dirgli il vecchio pretucolo, stizzito. – Fuori di qua! fuori di questa camera!

E lo trasse per un braccio nella camera attigua.

– No, scusate, spiegatemi, – sopravvenne a dirgli l’altro, guardandolo freddamente, con disprezzo; ma s’interruppe, vedendo all’improvviso venir fuori da un angolo in ombra un mostriciattolo, una povera sbiobbina, alta appena un metro, dal volto giallastro disfatto, in cui però spiccavano vivacissimi gli occhi neri, pieni di spavento.

– Di là, Margherita, di là, – le disse il prete, indicando la camera della moribonda. – Mia sorella, – aggiunse, rivolto al Gelli, con uno sguardo che invocava compassione.

Ma il Gelli riprese a dire con durezza:

– Mi avete scritto che moriva…

– Pentita, sì, creda, signor professore! – s’affrettò a rassicurarlo il Righi. – Proprio pentita, sa! Lei stessa, anzi, la poverina, ha voluto chiederle perdono per mio mezzo.

– Chi è dunque costui? – domandò, sprezzante, il Gelli.

– Ecco, Le dirò… È venuto, non so di dove…

– Ma sì, da Perugia, da Perugia, – interloquì il Mauri, ponendosi a sedere su un divanuccio presso al tavolino su cui ardeva la candela.

Il Righi riprese, impacciatissimo:

– La sera dello stesso giorno che ci capitò qua la signora. Io e le mie donne credemmo anzi dapprima che fosse un parente. Eh, Margherita?

La sbiobbina, rimasta presso l’uscio, impaurita, chinò più volte il capo, guardando il Gelli, con un sorriso incosciente su le labbra.

– Poi, – seguitò il Righi, – quando la signora… dopo, volle confessarsi con me, seppi che… sì, lui la… la perseguitava, ecco!

Il Mauri ruppe in un altro ghigno, scrollando il capo.

– Vah, io non capisco! – esclamò il prete. – Non c’è stato possibile, creda, mandarlo via.

– E non me ne andrò! – raffibbiò sordamente il Mauri, guardando verso terra.

Silvio Gelli lo fissò un tratto; poi domandò al Righi:

– Questa è casa vostra?

– Albergo! – rispose il Mauri, invece del prete, senza alzar gli occhi.

– Nossignore! – rimbeccò pronto il Righi, su le furie – Chi gliel’ha detto? dove sta scritto? Questa è, se mai, pensione, ma d’estate. Ora non è stagione, ed è casa mia soltanto, e vi ricevo chi mi pare e piace, e le ripeto: Vada via! Quante volte gliel’ho a dire? Come parere ch’io abbia tollerato la sua sconvenienza, scusi! Lei non ha più nulla da far qui, ora, che è venuto il signor professore! Dunque, si levi su!

– Non me ne vado! – ripeté il Mauri, rimanendo seduto e guardando fisso il prete, con gli occhi da matto.

– Neanche se vi scaccio io? – gli gridò allora il Gelli, appressandosi e parandoglisi di fronte.

– Nossignore! M’insulti, mi bastoni; ma mi lasci star qui! – proruppe, con un orribile schianto nella voce, il Mauri. – Che le faccio io? che ombra posso più darle? Me ne starò qua, in questa camera… per carità! Mi lasci piangere. Lei non può piangerla, signore. La lasci piangere a me: perché quella infelice non ha bisogno, creda, d’essere perdonata; ma d’esser pianta! Lei, mi perdoni, avrebbe dovuto ammazzare come un cane colui che prima gliela tolse e poi ebbe cuore d’abbandonarla; non deve scacciar me che l’ho raccolta, che l’ho adorata e che per lei ho spezzato anche la mia vita. Per lei, io, Marco Mauri, sappia che ho abbandonato la mia famiglia, mia moglie, i miei figli!

Si levò in piedi, così dicendo, con gli occhi sbarrati, le braccia alzate, e soggiunse:

– Veda un po’ se è possibile che lei mi scacci!

Silvio Gelli, in preda a uno sbalordimento che non lasciava intendere se in lui fosse più sdegno o pietà, ira o vergogna, rimase a guardare quell’uomo già maturo, così alterato dalla furia del disperato cordoglio. Gli vide scorrere grosse lagrime per la faccia contratta, che andavano a inzuppargli l’ispida barba nera, qua e là brizzolata, spartita sul mento.

Un gemito angoscioso venne dalla camera da letto.

Il Mauri si mosse istintivamente per accorrere. Ma il Gelli lo arrestò, intimandogli:

– Non entri!

– Sì signore, – si rimise egli, inghiottendo le lagrime. – Vada Lei; è giusto. Veda, veda se sia possibile far qualche cosa. Lei è un gran medico, lo so. Ma già, meglio che muoja! Dia retta, la lasci morire, perché… se lei è venuto a perdonarla, io…

Si nascose il volto con le mani, rompendo un’altra volta in singhiozzi, e andò a buttarsi di nuovo sul divanuccio, tutto raggomitolato, nel rabbioso cordoglio che lo divorava.

Don Camillo Righi toccò pian piano il braccio al Gelli e indicò la camera della moribonda, che forse si era scossa dal letargo.

– Ma. no, scusate… – gli disse il Gelli, con un sorriso sforzato, tremante su le labbra. – Intenderete bene che io non m’aspettavo…

– Ha ragione, ha ragione; ma la prego di compatire: costui è pazzo… – si lasciò scappare il Righi.

– Pazzo… pazzo… – nicchiò allora il Mauri. – Sì, per disperazione forse, sì… per rimorso! Ma perché non gli hai tu scritto, prete, che Flora s’è uccisa per me?

– Flora? – domandò il Gelli, senza volerlo.

– Fulvia, Fulvia, lo so! – si corresse subito il Mauri.

– Ma s’è fatta chiamar Flora, dopo. Lei non lo sa, e io so tutto: la sua vita d’ora e quella di prima: tutto; e so anche perché lei è venuto qua.

– Ah, bene! – esclamò il Gelli. – Io, invece, comincio a non saperlo più.

– Glielo dico io! – ribatté il Mauri. – Senta: sono su l’orlo d’un abisso, sia ch’ella viva, sia che muoja; posso dunque parlare come voglio, senza più riguardo a nulla né a nessuno.

– Signor professore, scusi… – si provò a suggerire di nuovo il Righi, tra le spine.

– Ma no, ma no: lo lasci dire… – gli rispose il Gelli.

– Siamo davanti alla morte! – esclamò il Mauri. – Non c’è più gelosia. Né lei, del resto, può aver ragione di adontarsi di me. Flora, quand’io la conobbi, era sulla strada. Dunque? Ha fatto male codesto prete a non scriverle che si è uccisa per me.

– Ma io, – si scusò il Righi, tirato di nuovo in ballo, – io ho obbedito al mio sacro ministero, e basta.

– Buffonate! – tornò a sghignare il Mauri. – Volete sul serio rappresentare la commedia del perdono, adesso? Bene: vada là, dunque, lei; vada ad accordarle il perdona e se ne torni dond’è venuto, là, là, a Como, nell’amena sua villa di Cavallasca, con l’amor proprio contento, con la bella soddisfazione della propria generosità! Ma vi par questo i luogo e l’ora di rappresentar commedie? Glielo dica lei francamente, a codesto prete, che cosa l’ha spinto a venir qua. Il rimorso, prete, il rimorso! Perché lui, lui, ridusse quella disgraziata alla disperazione, tant’anni fa! È vero? Lo dica. Finiamola. Là c’è una donna che muore assassinata. Finiamola! Ora lei s’è fatto un uomo virtuoso, uno scienziato illustre… Sfido! S’è tenuta con sé la figliuola!

– Vi proibisco… – gridò il Gelli, fremendo in tutto i corpo e contenendosi a stento.

– E che dico io? – riprese umile il Mauri. – Dico che quell’anima innocente ha avuto il potere di farla rinsavire non è vero? Ma pensi intanto, che neppure quella donna sarebbe là, se lei non si fosse tenuta la figliuola.

– Voi avete abbandonato i vostri figli, e avete il coraggio di parlare così, di fronte a me?

– Sissignore! E io m’accuso, io! Io sono qua con lo strazio d’un doppio delitto, infatti. Perché l’ho ingannata io, questa donna. Sissignore: le ho detto ch’ero scapolo, che non avevo nessuno. Le ho detto la verità a modo mio. Quella che era verità per me. Mia moglie invece, capisce? è andata a trovarla… lì, a Perugia, e le ha detto… che le avrà detto? Io non so! So che lei, lusingandosi di ridar la pace a una famiglia, se n’è venuta qua, per torsi di mezzo… Ora come vuole ch’io me ne vada? Lei, la martire, m’ha perdonato. Ma a me non può bastare il suo perdono. Bisogna che io me ne stia a piangere, qua, finch’ella è in vita, e poi… poi, non so! Senta: mi vuol dare ascolto? Si levi la maschera, lei che è venuto a perdonare, e vada a buttarsi in ginocchio davanti a quel letto, a farsi piuttosto perdonare lei, e dica a quella povera donna che è una santa, le dica che è la vittima di tutti noi, le dica che gli uomini sono vigliacchi: non si disonorano mai, gli uomini! Solo se rubano un po’ di danaro, perché, se poi rubano l’onore a una donna, è niente! se ne vantano! Guardi, guardi come dovremmo fare, noi uomini…

D’improvviso s’inginocchiò davanti alla sbiobbina atterrita; le prese le braccia e le gridò:

– Sputami! Sputami! sputami in faccia!

Sopravvennero alle grida due donne, svegliate di soprassalto, mezzo discinte: la signora Nàccheri, cognata del Righi, vedova, e la figliuola Giuditta, con un bambino in braccio.

Il Gelli e il prete erano rimasti lì, sbalorditi dalla violenza di quel forsennato.

La Nàccheri accorse a liberare la povera sbiobbina, che tremava tutta, lì lì per svenire.

– Va’, va’, Margherita! Oh guardate, Signore Iddio, che s’ha a vedere! Ma si vergogni, lei, e la faccia finita una buona volta! Siamo stufi, sa! siamo stufi! Su, via, si levi, su!

Il Mauri, rimasto ginocchioni, con la faccia per terra, singhiozzava. A un tratto, balzò in piedi, e domandò:

– Non sono più un uomo civile, io, è vero? Non c’è più neppure l’ombra della civiltà, in me? Che scompiglio, gran Dio, per questo illustre signore che è venuto a perdonare! per questo signor Canonichetto affittacamere! E lei, signora? Oh oh oh, guarda! E il parrucchino riccio, biondo? Se l’è dimenticato sul tavolino da notte? Buffoni, buffoni! M’inchino, mille ossequii, buffoni!

E, inchinandosi furiosamente e sghignazzando, scappò via.

– Quell’uomo impazzisce… – mormorò il Gelli, stupefatto.

– Ma mi pare che sia già ito via col cervello, scusi! – osservò la Nàccheri.

– Screanzato! – aggiunse la figlia.

Don Camillo Righi, rimasto più a lungo degli altri trasecolato (pensava forse che il matto avrebbe potuto buttargli in faccia ben altre accuse), si scosse per presentare alla cara cognata e alla nipote il signor professore, che aveva avuto la santa ispirazione di accorrere all’invito, per accordare di presenza il perdono:

– Dio lo benedica! Tanto buono…

Le due donne cercavano di scusarsi con lui di quanto era accaduto e per i loro indumenti notturni, quand’ecco di ritorno il Mauri, ilare, che si spingeva innanzi un omacciotto calvo, barbuto, stizzito dalla furia sconveniente di quel matto.

– Ecco il dottor Balla!

– Lei vada via! subito! via! – inveì allora il Gelli, afferrando per il bavero della giacca il Mauri e scrollandolo e spingendolo verso l’uscio sul corridojo.

– Sissignore! sissignore! – disse il Mauri, senza opporre nessuna resistenza, rinculando. – Mi lasci dire soltanto due parole al dottore! Ecco, dottore; la salvi lei, per carità! Non la faccia salvare a lui, altrimenti per me è perduta… Me ne vado, me ne vado da me… si calmi!.. Mi raccomando, dot…

Il Gelli gli diede un ultimo spintone e richiuse l’uscio.

– Ha fatto bene, benone, benissimo – esclamò il Righi sollevato.

– Ma la porta, giù, scusate, perché ha da rimanere aperta? – domandò la Nàccheri, stizzita, al cognato. – Che modo è codesto? Va’, Margherita, va’: di’ che chiudano subito!

La sbiobbina andò, e tutti, vedendola passare in mezzo a loro, osservarono il modo con cui ella moveva le gambe sbieche; come se non avessero altro da fare in quel momento.

Il dottor Balla sbuffò; poi, guardando con dispetto tutti quei visi stravolti intorno a sé, annunziò:

– Sono stato a Montepulciano.

– Ah, bene! Dunque? – domandò il Righi.

– Dunque… che dunque? Niente! Una scarrozzata inutile. Ho visto il collega Cardelli… gli ho riferito… Ma egli stima… sì, inutile ormai la sua venuta.

– Abbiamo qui con noi, – disse il Righi, – il marito della signora… il dottor Gelli… un luminare.

– Ah, – esclamò il Balla. – Felicissimo!

Gli s’appressò e, con la facondia collerica di un uomo esasperato della propria sorte, il quale, convinto delle persecuzioni continue di essa, abbia precisato nel suo cervello le ingiustizie patite e le ripeta sempre con le stesse parole, con la stessa espressione, quasi compiacendosi di aver saputo così bene precisarle ed esprimerle, gli espose le sciagurate condizioni in cui si trovava in quel piccolo paese di Toscana, a esercitare la professione di medico. C’era, è vero, un ospedaletto fornito anche… sì, discretamente; ma erano due medici soli: l’uno, il Nardoni, dedicato più specialmente alla chirurgia; lui, alla fisica. Ora il collega Nardoni era infermo da parecchi giorni.

– Infermo, già, infermo… – ripeté, come se il Nardoni glielo facesse apposta, per creargli imbarazzi. Quindi concluse improvvisamente: – Scusi, ha visitato la signora?

Il Gelli negò col capo.

– No? come no? Ah… già!

E il Balla guardò con stizza il Righi, compunto, e le due donne ancor più compunte.

– Che dobbiamo fare, insomma? – domandò alla fine. – È già quasi il tocco, scusino.

Il Gelli entrò per primo nella camera da letto; gli altri lo seguirono.