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Kitabı oku: «In Silenzio», sayfa 2

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Dopo cena, sulla stessa tavola appena sparecchiata, si metteva a studiare, con l’intenzione di presentarsi l’anno appresso agli esami di licenza liceale, per entrar poi – con l’esenzione dalle tasse, se gli veniva fatto – all’Università. Si sarebbe iscritto in legge, e se riusciva a ottener la laurea, questa gli avrebbe servito per qualche concorso di segretario allo stesso Ministero della Pubblica Istruzione. Voleva sollevarsi al più presto da quella meschina e non ben sicura condizione di scrivano. Ma studiando, certe sere, era a poco a poco invaso e vinto da un cupo scoraggiamento. Gli parevan così lontane dal suo presente affanno quelle cose da studiare! E, distratto in quella lontananza, sentiva come vano il suo stesso affanno; e che non dovesse né potesse aver mai fine. Il silenzio di quelle tre stanzette quasi nude era tanto, che gli faceva perfino avvertire il ronzio del lume a petrolio tolto dalla sospensione e posato lì sulla tavola per vederci meglio: si toglieva le lenti dal naso; fissava con gli occhi socchiusi la fiamma e grosse lagrime allora gli pollavano dalle palpebre e piombavano sul libro aperto sotto il mento.

Ma erano momenti. La mattina dopo tornava ad assaettarsi più ostinato, protendendo dalle spallucce ricurve, a modo dei miopi, quell’ossuto visetto di cera, stirato e madido, con quei capelli lisci di malato, troppo cresciuti tra gli orecchi e le gote, e quella violenza delle lenti che gli smaltavano gli occhi rimpiccoliti lucenti e precisi, pinzandogli a sangue le gracili pareti del naso.

Di tanto in tanto veniva a fargli qualche visitina Rosa, la vecchia serva. Piano piano gli faceva notare anch’essa tutte le magagne di quella balia; e, per metterlo in guardia, gli riferiva quanto le dicevano sul conto di lei le donne del vicinato. Cesarino si stringeva nelle spalle. Sospettava che Rosa parlasse per rancore, perché fin da principio, per non essere mandata via, gli aveva proposto d’allevare il bimbo col latte sterilizzato, come aveva veduto fare a tante mamme che se n’erano poi trovate contente. Ma le dovette render giustizia alla fine, quando si vide costretto a cacciar via su due piedi quella balia già gravida da due mesi. Per fortuna il bambino non soffrì del cambiato allevamento, anche per le cure amorose della buona vecchia, la quale si mostrò lietissima di ritornare al servizio di quei due abbandonati.

E ora, finalmente, Cesarino poté assaporare davvero la dolcezza della pace conquistata con tanta pena. Sapeva il suo Ninnì affidato in buone mani, e poteva lavorare studiar tranquillamente. La sera, rincasando, trovava tutto in ordine; Ninnì lindo come uno sposino, e gustosa la cena e soffice il letto. Era la felicità. I primi gridolini, certe mossette piene di grazia di Ninnì lo facevano impazzire dalla gioja. Lo mandava a pesare ogni due giorni, per paura che calasse di peso con quell’allattamento artificiale, non ostante che Rosa lo rassicurasse:

– Ma non sente che a momenti pesa più di me? Sempre con la trombetta in bocca!

La trombetta era il biberon.

– Su, Ninnì, fatti una sonatina!

E Ninnì, subito: non se lo faceva dire due volte, e non gli bastava che gliela reggessero gli altri, la trombetta se la voleva reggere anche da sé, là, da bravo trombettiere e socchiudeva languidi i cari occhiuzzi dalla voluttà. Lo guardavano tutt’e due, in estasi; e, poiché il bimbo, spesso prima che finisse di succhiare, s’addormentava, zitti zitti si levavano e andavano in punta di piedi e rattenendo il respiro a deporlo nella culla.

Riprendendo lo studio serale con raddoppiata lena, ormai sicuro dell’esito, le vere ragioni per cui Napoleone Bonaparte era stato sconfitto a Waterloo, Cesarino oramai le penetrava benissimo.

Se non che, una sera, rientrando in casa – di furia, come soleva, quasi assetato d’un bacio del suo Ninnì – fu arrestato su la soglia da Rosa, la quale, tutta turbata, gli annunziò che c’era di là un signore che voleva parlargli e che lo aspettava da una buona mezz’ora.

Cesarino si trovò di fronte un uomo di circa cinquant’anni, alto di statura e ben piantato, vestito tutto di nero per lutto recentissimo, grigio di capelli e bruno in volto dall’aria cupa, grave. Si era alzato al suono del campanello della porta, e lo attendeva nella saletta da pranzo.

– Desidera parlarmi? – gli domandò Cesarino, osservandolo, sospeso e costernato.

– Sì, da solo; se permette.

– Venga, entri.

E Cesarino gl’indicò l’uscio della sua cameretta e lo fece passare avanti; poi, richiuso l’uscio, con le mani che già gli ballavano, si volse, alterato in viso, pallidissimo, con gli occhi strizzati dietro le lenti e le ciglia corrugate, e avventò la domanda:

– Alberto?

– Rocchi, sì. Sono venuto…

Cesarino gli s’appressò, convulso, trasfigurato, come se volesse inveire:

A far che? In casa mia?

Quegli si trasse indietro, impallidendo e contenendosi:

– Mi lasci dire. Vengo con buone intenzioni.

– Che intenzioni? Mia madre è morta!

– Lo so.

– Ah, lo sa? E non le basta? Se ne vada via subito, o lo farò pentire!

– Ma scusi!

– Pentire, pentire d’esser venuto qua a infliggermi l’onta…

– Ma no… scusi…

– L’onta della sua vista! Sissignore. Che vuole me?

– Se non mi lascia dire, scusi… Si calmi! – riprese egli, così investito, sconcertato. – Io comprendo… Ma bisogna che le dica…

– No! – gridò Cesarino, risoluto, fremente, levando le gracili pugna. – Guardi, io non voglio saper nulla! Non voglio spiegazioni! Le basti avere osato di comparirmi davanti! E se ne vada!

– Ma qua c’è mio figlio… – disse allora quegli, torbido e spazientito.

– Vostro figlio? – inveì Cesarino. – Ah, siete venuto per questo? Ve ne ricordate adesso, che c è vostro figlio qua?

– Prima non potevo… Se non mi lasciate dire…

– Che volete dire? Andate via! Andate via! Avete fatto morire mia madre! Andate via, o chiamo gente!

Il Rocchi socchiuse gli occhi; trasse, gonfiandosi, un profondo sospiro e disse:

– Va bene. Vuol dire che farò valere altrove le mie ragioni.

E s’avvio.

– Ragioni? Voi? – gli gridò dietro Cesarino, perdendo il lume degli occhi. – Miserabile! Dopo che m’hai ucciso la madre, vuoi aver ragioni da far valere? Tu, contro di me? Ragioni?

Quegli si voltò a guardarlo, fosco; ma aprì poi la bocca a un sorriso tra di sdegno e di compassione per la gracilità di quel ragazzo che lo insultava.

– Vedremo, – disse.

E se n andò.

Cesarino rimase al bujo, nella saletta, dietro la porta tutto vibrante dell’impeto violento che in lui, timido, debole, avevano fatto il rancore, l’onta, la paura di perdere il suo piccino adorato. Rimessosi alla meglio, andò a bussare all’uscio di Rosa, che s’era chiusa a chiave, col bimbo stretto tra le braccia.

– Ho capito! Ho capito! – gli disse Rosa.

– Voleva Ninnì.

– Lui?

– Sì. E le sue ragioni, capisci? Vuol far valere…

– Lui? E chi può dar ragione a lui?

– È il padre. Ma mi può togliere forse Ninnì ora? L’ho cacciato via, come un cane! Gli ho detto che… che m’ha ucciso la madre… e che l’ho raccolto io, il bambino… e che ora è mio, è mio; e nessuno me lo può strappare dalle braccia! Mio! Mio!… Guarda un po’… Miserabile… assa… assassino…

– Ma sì! Ma certo! Si calmi, signorino! – gli disse Rosa, più afflitta e costernata di lui. – Mica con la forza potrà venire a prenderglielo, il bambino. Lei avrà pure le sue ragioni da far valere. E vorrei veder questa, ora, che ci levassero Ninnì che abbiamo allevato noi. Ma stia tranquillo, che non si farà più vedere, dopo la degna accoglienza che lei gli ha fatta.

Né queste, però, né altre assicurazioni che la buona vecchia ripeté durante tutta la sera, valsero a tranquillare Cesarino. Il giorno dopo, là, al Ministero, provò un vero, eterno supplizio. A mezzogiorno, scappò a casa, trepidante, col cuore in gola. Non voleva più ritornare all’ufficio per le tre del pomeriggio; ma Rosa lo spinse ad andare, promettendogli che avrebbe tenuto la porta sprangata e non avrebbe aperto a nessuno e che non avrebbe lasciato Ninnì neanche per un minuto. Così egli andò; ma rincasò alle sei, senza recarsi al collegio per la ripetizione a gli scolaretti.

Nel vederselo davanti come uno stordito, così abbattuto e costernato, Rosa cercò in tutti i modi di scuoterlo. Ma invano. Aveva un presentimento Cesarino, che gli rodeva l’anima e non gli dava requie. Passò insonne tutta la nottata.

Il giorno appresso, non ritornò a casa a mezzodì per il desinare. La vecchia Rosa non sapeva come spiegarsi quel ritardo. Verso le quattro, finalmente, lo vide arrivare ansante, livido, con una fissità truce negli occhi.

– Devo darglielo. M’hanno chiamato in questura. C’era anche lui. Ha mostrato le lettere di mia madre. È suo.

Disse così, a scatti, senza alzar gli occhi a guardare il bimbo, che Rosa teneva in braccio.

– Oh cuore mio! – esclamò questa, stringendosi al seno Ninnì. – Ma come? Che ha detto? Come ha potuto la giustizia?…

– È il padre! È il padre! – rispose Cesarino. – Dunque è suo!

– E lei? – domandò Rosa. – Come farà lei?

– Io? Io, con lui. Ce n’andremo insieme.

– Con Ninnì, da lui?

– Da lui.

– Ah, così?… tutt’e due insieme, allora? Ah, così va bene! Non lo lascerà… E io, signorino? Questa povera Rosa?

Cesarino, per non risponderle direttamente, si tolse in braccio il piccino, se lo strinse al petto, e, piangendo, cominciò a dirgli:

– La povera Rosa, Ninnì? Insieme con noi anche lei? Non è giusto! Non si può! Le lasceremo tutto, alla povera Rosa. Questa poca roba che è qua. Stavamo insieme tanto bene, tutt’e tre, è vero, Ninnì mio? Ma non hanno voluto… non hanno voluto…

– Ebbene, – disse Rosa, inghiottendo le lagrime. – Si vuole affliggere così per me, adesso, signorino? Io sono vecchia; non conto più; Dio per me provvederà. Purché siano contenti loro… Del resto, dica: non potrò forse venire a trovarla, a vedere questo mio angioletto? Non mi cacceranno via, se verrò. Alla fin fine, perché non dev’essere così? Passato il primo momento, sarà forse anche un bene per lei, signorino, che le pare!

– Forse, – disse Cesarino. – Intanto, Rosa, bisogna che tu prepari tutto, presto… tutto quello che abbiam fatto a Ninnì, le mie robe e le tue anche. Si va via stasera. Siamo aspettati a pranzo. Senti: io ti lascio tutto…

– Che dice, signorino mio! – esclamò Rosa.

– Tutto… tutto quel po’ che ho con me… in denaro. Ben altro ti debbo, per tutto l’affetto… Zitta, zitta! No ne parliamo. Tu lo sai, e io lo so. Basta. Anche quei pochi mobili… Noi troveremo di là un’altra casa… Tu farai di questa ciò che vorrai. Non mi ringraziare. Prepara tutto e andiamo via. Tu, prima. Non saprei andarmene, lasciandoti qua. Poi, domani, verrai a trovarmi, e io ti lascerò la chiave e tutto.

La vecchia Rosa obbedì, senza rispondere. Aveva i cuore così gonfio che, ad aprir la bocca per parlare, singhiozzi, certo, e non parole le sarebbero venuti fuori. Preparò tutto, anche il suo fagotto.

– Lo lascio qua? – domandò. – Tanto, se doman debbo ritornare…

– Sì, certo, – le rispose Cesarino. – E ora, eccoti: bacia Ninnì… Bacialo, e addio.

Rosa si prese in braccio il piccino che guardava un po’ sbigottito; ma non poté in prima baciarlo: bisognò che si sfogasse un pezzo, pur dicendo:

– È una sciocchezza piangere… perché domani… Ecco a lei, signorino… se lo prenda. E coraggio, eh? Un bacio anche a lei… A domani!

Se ne andò senza voltarsi indietro, soffocando i singhiozzi nel fazzoletto.

Subito Cesarino sprangò la porta. Si passò una mano su i capelli, che gli si drizzarono, irti. Andò a posare Ninn sul letto: gli mise in mano l’orologino d’argento, perché stesse quieto. Scrisse in gran fretta poche righe su un foglio di carta: la donazione a Rosa della povera suppellettile di casa. Poi scappò in cucina; preparò lesto lesto un buon fuoco; lo portò in camera; chiuse gli scuri, l’uscio e al lume della lampadina che la vecchia Rosa teneva sempre accesa davanti un immagine della Madonna, si stese sul letto accanto a Ninnì. Questo allora lasciò cadere sul letto l’orologino, e – al solito – alzò la mano per strappare dal naso al fratello le lenti. Cesarino, questa volta, se le lasciò strappare; chiuse gli occhi e si strinse il bimbo al petto:

– Quieto, ora, Ninnì, quieto… Facciamo la nanna bellino, la nanna.

L’ALTRO FIGLIO

– C’è Ninfarosa?

– C è. Bussate.

La vecchia Maragrazia bussò, e poi si calò a sedere pian piano sul logoro scalino davanti la porta.

Era la sua sedia naturale; quello, come tant’altri davanti le porte delle casupole di Farnia. Lì seduta, o dormiva o piangeva in silenzio. Qualcuno, passando, le buttava in grembo un soldo o un tozzo di pane; ella si scoteva appena dal sonno o dal pianto; baciava il soldo o il pane; si segnava, e riprendeva a piangere o a dormire.

Pareva un mucchio di cenci. Cenci unti e grevi, sempre gli stessi, d’estate e d’inverno, strappati, sbrindellati, senza più colore e impregnati di sudor puzzolente e di tutto il sudicio delle strade. La faccia giallastra era un fitto reticcio di rughe, in cui le palpebre sanguinavano, rovesciate, bruciate dal continuo lacrimare; ma, tra quelle rughe e quel sangue e quelle lagrime, gli occhi chiari apparivano come lontani, quelli d’un infanzia senza memorie. Ora, spesso, qualche mosca le si attaccava, vorace, a quegli occhi; ma ella era così sprofondata e assorta nella sua pena, che non l’avvertiva nemmeno; non la cacciava. I pochi capelli, aridi, spartiti sul capo, le terminavano in due nodicini pendenti su gli orecchi, i cui lobi erano strappati del peso degli orecchini massicci a pendaglio portati in gioventù. Dal mento, giù giù fin sotto la gola, la floscia giogaja era divisa da un solco nero che le sprofondava nel petto cavo.

Le vicine, messe a sedere su l’uscio, non le badavano più. Stavano quasi tutto il giorno lì, e chi rattoppava panni, chi sceglieva legumi, chi faceva la calza, e insomma, tutte occupate in qualche lavoro; conversavano davanti a quelle loro casupole basse, che prendevano luce dall’uscio; case e stalle insieme, dal pavimento acciottolato come la strada; e di qua la mangiatoja, dove qualche asinello o qualche mula scalpitavano, tormentati dalle mosche; di là, il letto alto, monumentale; e poi una lunga cassapanca nera, d’abete o di faggio, che pareva una bara; e due o tre seggiole impagliate; la madia; e poi, attrezzi rurali. Su le pareti grezze, fuligginose, per unico ornamento, certe stampacce da un soldo, che volevano raffigurare i santi del paese. Per la strada intanfata di fumo e di stalla ruzzavano ragazzi cotti dal sole, alcuni ignudi nati, altri con la sola camicina, a brendoli, sudicia; e le galline razzolovano, e grugnivano, soffiando col grifo tra la spazzatura , i porcellini cretacei.

Quel giorno si parlava della nuova comitiva d’emigranti che la mattina dopo doveva partire per l’America.

– Parte Saro Scoma, – diceva una. – Lascia la moglie e tre figliuoli.

– Vito Scordìa, – soggiungeva un’altra, – ne lascia cinque e la moglie gravida.

– È vero che Càrmine Ronca, – domandava una terza, – se lo porta con sé il figliuolo di dodici anni, che già andava alla zolfara? Oh Santa Maria, il ragazzo, almeno, avrebbe potuto lasciarglielo alla moglie. Come farà quella povera cristiana, ora, a darsi ajuto?

– Che pianto, che pianto, – gridava lamentosamente una quarta più là, – tutta la notte, in casa di Nunzia Ligreci! Il figlio Nico, tornato appena da soldato, vuol partire anche lui!

Udendo queste notizie, la vecchia Maragrazia si turava la bocca con lo scialle per non scoppiare in singhiozzi. La foga del dolore le rompeva però, dagli occhi sanguigni, in lagrime senza fine.

Da quattordici anni erano partiti anche a lei per l’America due figliuoli; le avevano promesso di ritornare dopo quattro o cinque anni; ma avevano fatto fortuna laggiù, specialmente uno, il maggiore, e si erano dimenticati della vecchia mamma. Ogni qual volta una nuova comitiva di emigranti partiva da Farnia, ella si recava da Ninfarosa, perché le scrivesse una lettera, che qualcuno dei partenti doveva per carità consegnare nelle mani dell’uno o dell’altro di quei figliuoli. Poi seguiva per un lungo tratto dello stradone polveroso la comitiva, che si recava, sovraccarica di sacchi e di fagotti, alla stazione ferroviaria della prossima città, fra le madri, le spose e le sorelle che piangevano, disperate; e, camminando, guardava affitto affitto gli occhi di questo o di quel giovane emigrante che simulava una romorosa allegria per soffocare la commozione e stordire i parenti che lo accompagnavano.

– Vecchia matta, – qualcuno le gridava. – O perché mi guardate così? Vorreste cavarmi gli occhi?

– No, bello, te li invidio! – gli rispondeva la vecchia – Perché tu li vedrai i miei figliuoli. Di’ loro come m’hai lasciata; che non mi ritroveranno più, se tardano ancora.

Intanto là le comari del vicinato seguitavano a fare il conto di quelli che partivano il giorno appresso. A un tratto un vecchio dalla barba e dai capelli lanosi, che se n’era stato finora zitto ad ascoltare, steso a pancia all’aria e fumando la pipa in fondo alla straducola, rizzò il capo che teneva appoggiato a una bardella d’asino, e, posandosi le grosse mani rocciose sul petto:

– S’io fossi re, – disse, e sputò, – s’io fossi re, nemmeno una lettera farei più arrivare a Farnia da laggiù.

– Evviva Jaco Spina! – esclamò allora una delle vicine. – E come farebbero qua le povere mamme, le spose, senza notizie e senz’ajuto?

– Sì! Ne mandano assai! – brontolò il vecchio, e sputò di nuovo. – Le madri, a far le serve; e le spose vanno a male. Ma perché i guaj che trovano laggiù non li dicono, nelle loro lettere? Solo il bene dicono, e ogni lettera è per questi ragazzacci ignoranti come la chioccia: – pïo pïo pïo – se li chiama e porta via tutti quanti! Dove son più le braccia per lavorare le nostre terre? A Farnia, ormai, siamo rimasti noi soli: vecchi, femmine e bambini. E ho la terra e me la vedo patire. Con un solo pajo di braccia che posso fare? E ne partono ancora, ne partono! Pioggia in faccia e vento alle spalle, dico io. Si rompano il collo, maledetti!

A questo punto, Ninfarosa schiuse la porta, e parve spuntasse il sole in quella stradetta.

Bruna e colorita, dagli occhi neri, sfavillanti, dalle labbra accese, da tutto il corpo solido e svelto, spirava una allegra fierezza. Aveva sul petto colmo un gran fazzoletto di cotone rosso, a lune gialle, e grossi cerchi d’oro agli orecchi. I capelli corvini, lucidi, ondulati, volti indietro senza scriminatura le si annodavano voluminosamente sulla nuca attorno a uno spadino d’argento. Nel mento rotondo, una fossetta acuta nel mezzo le dava una grazia maliziosa e provocante.

Vedova d’un primo marito, dopo appena due anni di matrimonio, era stata abbandonata dal secondo, partito per l’America cinque anni addietro. Di notte – nessuno doveva saperlo – dalla porticina posta sul dietro della casa dov’era l’orto, qualcuno (un pezzo grosso del paese) veniva a visitarla. Perciò le vicine, oneste e timorate, la vedevano di mal’occhio, quantunque in segreto poi la invidiassero. Gliene volevano anche, perché in paese si diceva che, per vendicarsi dell’abbandono del secondo marito, aveva scritto parecchie lettere anonime agli emigrati in America, calunniando e infamando alcune povere donne.

– Chi predica così? – disse, scendendo su la via. – Ah, Jaco Spina! Meglio, zio Jaco, se restiamo a Farnia noi soli! Zapperemo noi donne la terra.

– Voi donne, – brontolò di nuovo il vecchio con voce catarrosa, – per una cosa sola siete buone.

E sputò.

– Per che cosa, zio Jaco? Dite forte.

– Piangere e un’altra cosa.

– E dunque per due, allegramente! Io non piango però, vedete?

– Eh, lo so, figlia. Non piangesti neppure quando ti morì il primo marito!

– Ma se morivo prima io, zio Jaco, – ribatté pronta Ninfarosa, – non avrebbe forse ripreso moglie, lui? Dunque! Vedete chi piange qua per tutti? Maragrazia.

– Questo dipende, – sentenziò Jaco Spina, sdrajandosi di nuovo a pancia all’aria, – perché la vecchia ha acqua da buttar via, e la butta anche dagli occhi.

Le vicine risero Maragrazia si scosse ed esclamò:

– Due figli ho perduto, belli come il sole, e volete che non pianga?

– Belli davvero, oh! E da piangerli, – disse Ninfarosa. – Nuotano nell’abbondanza, laggiù, e vi lasciano morire qua, mendica.

– Loro sono i figli e io sono la mamma, – replicò la vecchia. – Come possono capirla la mia pena?

– Ih! Io non so perché tante lagrime e tanta pena, – riprese Ninfarosa, – quando voi stessa, a quel che dicono, li faceste scappar via per disperati.

– Io? – esclamò Maragrazia, dandosi un pugno sul petto e sorgendo in piedi, trasecolata. – Io? Chi l’ha detto?

– Chi si sia, l’ha detto.

– Infamità! Io? Ai figli miei? Io, che…

– Lasciatela perdere! – — la interruppe una delle vicine. – Non vedete che scherza?

Ninfarosa prolungò la risata, ondeggiando dispettosamente su le anche; poi, per rifar la vecchia della celia crudele, le domandò con voce affettuosa:

– Su, su, nonnetta mia, che volete?

Maragrazia si cacciò in seno la mano tremolante e ne trasse fuori un foglietto di carta tutto gualcito e una busta; mostrò l’uno e l’altra, con aria supplichevole, a Ninfarosa, e disse:

– Se vuoi farmi la solita carità…

– Ancora una lettera?

– Se vuoi…

Ninfarosa sbuffò; ma poi, sapendo che non se la sarebbe levata d’addosso, la invitò a entrare.

La sua casa non era come quelle del vicinato. La vasta camera, un po’ buja, quando la porta era chiusa, perché prendeva luce allora soltanto da una finestra ferrata che s’apriva su la porta stessa, era imbiancata, ammattonata, pulita e ben messa, con una lettiera di ferro, un armadio, un cassettone dal piano di marmo, un tavolino impiallacciato di noce: mobilia modesta, ma di cui tuttavia si capiva che Ninfarosa non avrebbe potuto da sola pagarsi il lusso, coi suoi guadagni molto incerti di sarta rurale.

Prese la penna e il calamajo, posò il foglietto gualcito sul piano del cassettone e si dispose a scrivere, lì in piedi.

– Dite su, sbrigatevi!

– Cari figli – cominciò a dettare la vecchia.

– Io non ho più occhi per piangere… – seguitò Ninfarosa, con un sospiro di stanchezza.

E la vecchia:

– Perché gli occhi miei sono abbruciati di vedervi almeno per l’ultima volta…

– Avanti, avanti! – la incitò Ninfarosa. – Questo gliel’avete scritto, a dir poco, una trentina di volte.

– E tu scrivi. È la verità, cuore mio, non vedi? Dunque, scrivi: Cari figli…

– Daccapo?

– No. Adesso un’altra cosa. Ci ho pensato tutta stanotte. Senti: Cari figli, la povera vecchia mamma vostra vi promette e giura… così, vi promette e giura davanti a Dio che, se voi ritornate a Farnia, vi cederà in vita il suo casalino.

Ninfarosa scoppiò a ridere:

– Pure il casalino? Ma che volete che se ne facciano, se già sono ricchi, di quei quattro muri di creta e canne che crollano a soffiarci su?

– E tu scrivi, – ripeté la vecchia, ostinata. – Valgono più quattro pietruzze in patria, che tutto un regno fuorivia. Scrivi, scrivi.

– Ho scritto. Che altro volete aggiungere?

– Ecco, questo: che la vostra povera mamma, cari figli, ora che l’inverno è alle porte, trema di freddo; vorrebbe farsi un vestitino e non può; che vogliate farle la carità di mandarle almeno una carta da cinque lire, per…

– Basta basta basta! – fece Ninfarosa, ripiegando il foglietto e cacciandolo entro la busta. – Ho bell’e scritto. Basta.

– Anche per le cinque lire? – domandò, investita da quella furia inattesa, la vecchia.

– Tutto, anche per le cinque lire, gnorsì.

– Scritto bene… tutto?

– Auff! Vi dico di sì!

– Pazienza… abbi un po’ di pazienza con questa povera vecchia, figlia mia, – disse Maragrazia. – Che vuoi? Sono mezzo stolida, ora. Dio ti paghi la carità, e la Bella Madre Santissima.

Prese la lettera e se la cacciò in seno. Aveva pensato di affidarla al figlio di Nunzia Ligreci, che si recava a Rosario di Santa Fè, dov’erano i suoi figliuoli; e s’avviò per portargliela.

Già le donne, sopravvenuta la sera, erano rientrate in casa e quasi tutte le porte si chiudevano. Per le straducole anguste non passava più un’anima. Il lampionajo andava in giro, con la scala in collo, per accendere i rari lampioncini a petrolio, che rendevano più triste col loro scarso lume piagnucoloso la vista malcerta e il silenzio di quelle viuzze abbandonate.

La vecchia Maragrazia andava curva, premendosi con una mano sul seno la lettera da mandare ai figliuoli, come per comunicare a quel pezzo di carta il suo calore materno. Con l’altra, o si grattava a una spalla, o si grattava in testa. A ogni nuova lettera, le rinasceva prepotente la speranza, che con quella sarebbe alla fine riuscita a commuovere e a richiamare a sé i figliuoli. Certo, leggendo quelle sue parole, pregne di tutte le lagrime versate per loro in quattordici anni, i suoi figliuoli belli, i suoi dolci figliuoli non avrebbero più saputo resistere.

Ma questa volta, veramente, non era molto soddisfatta della lettera che recava in seno. Le pareva che Ninfarosa l’avesse buttata giù troppo in fretta, e non era neanche ben sicura che ci avesse proprio messo l’ultima parte, delle cinque lire per il vestitino. Cinque lire! Che guasto avrebbero fatto ai suoi figliuoli, già ricchi, cinque lire, per vestire le carni della loro vecchia mamma infreddolita?

Attraverso le porte chiuse delle casupole, le giungevano intanto le grida di qualche madre che piangeva la prossima partenza del figliuolo.

– Oh figli! Figli! – gemeva allora tra sé Maragrazia, premendosi più forte la lettera sul seno. – Con che cuore potete partire? Promettete di ritornare; poi non ritornate più… Ah, povere vecchie, non credete alle loro promesse! I vostri figliuoli, come i miei, non ritorneranno più… non ritorneranno piu…

A un tratto, si fermò sotto un lampioncino, sentendo romor di passi per la viuzza Chi era?

Ah, era il nuovo medico condotto, quel giovine venuto da poco, ma che presto – a quanto dicevano – sarebbe andato via, non perché avesse fatto cattiva prova, ma perché malvisto dai pochi signorotti del paese. Tutti i poveri, invece, avevano preso subito a volergli bene. Sembrava un ragazzo, a vederlo; eppure era proprio vecchio di senno, e dotto: faceva restar tutti a bocca aperta, quando parlava. Dicevano che anche lui voleva partire per l’America Ma non aveva più la mamma, lui: era solo!

– Signor dottore, – pregò Maragrazia vorrebbe farmi una carità?

Il giovane dottore si fermò sotto il lampioncino, frastornato. Pensava, andando, e non s’era accorto della vecchia.

– Chi siete? Ah, voi..

Si ricordò d’aver veduto più volte quel mucchio di cenci davanti alle porte delle casupole.

– Vorrebbe farmi la carità, – ripeté Maragrazia, – di leggermi questa letterina che debbo mandare ai miei figliuoli?

– Se ci vedo… – disse il dottore, ch’era miope, rassettandosi sul naso le lenti.

Maragrazia trasse dal seno la lettera; gliela porse e restò in attesa ch’egli cominciasse a leggerle le parole dettate a Ninfarosa: – Cari figli… – Ma che! Il medico, o non ci vedeva, o non riusciva a decifrare la scrittura: accostava agli occhi il foglietto, lo allontanava per vederlo meglio al lume del lampioncino, lo rovesciava di qua, di là… Alla fine, disse:

– Ma che è?

– Non si legge? – domandò timidamente Maragrazia.

Il dottore si mise a ridere.

– Ma qua non c’è scritto nulla, – disse. – Quattro sgorbii, tirati giù con la penna, a zig-zag. Guardate.

– Come! – esclamò la vecchia, restando.

– Ma sì, guardate. Nulla. Non c’è scritto proprio nulla.

– Possibile? – fece la vecchia. – Ma come? Se gliel’ho dettata io, a Ninfarosa, parola per parola! E l’ho vista che scriveva…

– Avrà finto, – disse il medico stringendosi nelle spalle.

Maragrazia rimase come un ceppo; poi si diede un gran pugno sul petto:

– Ah, infamaccia! – proruppe. – E perché m’ha ingannata così? Ah, per questo, dunque, i miei figli non mi rispondono! Dunque, nulla! Mai nulla ha scritto loro di tutto quello che io le ho dettato… Per questo! Dunque non ne sanno niente i figli miei, del mio stato? Che io sto morendo per loro? E io li incolpavo, signor dottore, mentr’era lei, quest’infamaccia qua, che si è sempre burlata di me… Oh Dio! Oh Dio! E come si può fare un simile tradimento a una povera madre, a una povera vecchia come me? O oh, che cosa! Oh…

Il giovane dottore, commosso e indignato, si provò dapprima a quietarla un poco; si fece dire chi fosse quella Ninfarosa, dove stesse di casa, per farle il giorno dopo una strapazzata, come si meritava. Ma la vecchia badava ancora a scusare i figliuoli lontani del lungo silenzio, straziata dal rimorso d’averli incolpati per tanti anni dell’abbandono, sicurissima ora ch’essi sarebbero ritornati, volati a lei se una sola di quelle tante lettere, ch’ella aveva creduto di mandar loro, fosse stata scritta veramente e fosse loro pervenuta.

Per troncare quella scena, il dottore dovette prometterle che la mattina seguente avrebbe scritto lui una lunga lettera per quei figliuoli:

– Su, su, non vi disperate così! Verrete domattina d Me. A dormire, adesso! Andate a dormire.

Ma che dormire! Circa due ore dopo, il dottore, ripassando per quella straducola, la ritrovò ancora lì, che piangeva, inconsolabile, accosciata sotto il lampioncino. La rimproverò, la fece levare, le ingiunse d’andar subito a casa, subito, perché era notte.

– Dove state?

– Ah, signor dottore… Ho un casalino, qua sotto, all’uscita del paese. Avevo detto a quell’infamaccia di scrivere ai figli miei che lo avrei loro ceduto in vita, se volevano ritornare. S’è messa a ridere, svergognata! Perché sono quattro muretti di creta e canne. Ma io…

– Va bene, va bene, – troncò di nuovo il dottore . – Andate a dormire! Domani scriveremo anche del casalino. Su venite, v’accompagno.

– Dio La benedica, signor dottore! Ma che dice? Accompagnarmi, vossignoria! Vada, vada avanti; io sono vecchierella e vado piano.

Il dottore le diede la buona notte, e s’avviò. Maragrazia gli tenne dietro, a distanza; poi, arrivata al portoncino in cui lo vide entrare, si fermò, si tirò sul capo lo scialle s’avvolse bene, e sedette su lo scalino lì davanti la porta per passarvi la notte, in attesa.

All’alba, dormiva, quando il dottore, ch’era mattiniero uscì per le prime visite. Essendo il portoncino a un solo battente, nell’aprirlo, si vide cadere ai piedi la vecchia dormente, che vi stava appoggiata.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
280 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
Ses
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