Kitabı oku: «In Silenzio», sayfa 4
LA MORTE ADDOSSO
– Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è… Ha perduto il treno?
– Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.
– Poteva corrergli dietro!
– Già. È da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti quegl’impicci di pacchi, pacchetti, pacchettini… Più carico d’un somaro! Ma le donne – commissioni… commissioni… – non la finiscono più! Tre minuti, creda, appena sceso dalla vettura, per dispormi i nodini di tutti quei pacchetti alle dita: due pacchetti per ogni dito.
– Doveva esser bello… Sa che avrei fatto io? Li avrei lasciati nella vettura.
– E mia moglie? Ah sì! E le mie figliuole? E tutte le loro amiche?
– Strillare! Mi ci sarei spassato un mondo.
– Perché lei forse non sa che cosa diventano le donne in villeggiatura!
– Ma sì che lo so! Appunto perché lo so. Dicono tutte che non avranno bisogno di niente.
– Questo soltanto? Capaci anche di sostenere che ci vanno per risparmiare! Poi, appena arrivano in un paesello qua dei dintorni, più brutto è, più misero e lercio, e più imbizzariscono a pararlo con tutte le loro galenterie più vistose! Eh, le donne, caro signore! Ma del resto, è la loro professione… – «Se tu facessi una capatina in città, caro! Avrei proprio bisogno di questo… di quest’altro… e potresti anche, se non ti secca (caro, il se non ti secca)… e poi, giacché ci sei, passando di là…» – Ma come vuoi, cara mia, che in tre ore ti sbrighi tutte codeste faccende? – «Uh, ma che dici? Prendendo una vettura…» – Il guajo è, capisce?, che dovendo trattenermi tre ore sole, sono venuto senza le chiavi di casa.
– Oh bella! E perciò…
– Ho lasciato tutto quel monte di pacchi e pacchetti in deposito alla stazione; me ne sono andato a cenare in una trattoria, poi, per farmi svaporar la stizza, a teatro. Si crepava dal caldo. All’uscita, dico, che faccio? Andarmene a dormire in un albergo? Sono già le dodici; alle quattro prendo il primo treno; per tre orette di sonno, non vale la spesa. E me ne sono venuto qua. Questo caffè non chiude, è vero?
– Non chiude, nossignore. E così, ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?
– Perché? Non sono sicuri? Erano tutti ben legati…
– No no, non dico! Eh, ben legati, me l’immagino, con quell’arte speciale che mettono i giovani di negozio nell’involtare la roba venduta… Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rosea, levigata… ch’è per sé stessa un piacere a vederla… così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza… La stendono sul banco e poi, con garbo disinvolto, vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben ripiegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l’altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di più, per amore dell’arte; poi ripiegano da un lato e dall’altro a triangolo e cacciano sotto le due punte, allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legar l’involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d’ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.
– Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio…
– Io? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un’ora fermo a guardare dentro una bottega, attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d’essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta… quel bordatino… quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? Se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d’incartarlo… Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l’involto o appeso al dito o in mano o sotto il braccio… li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista… immaginando… – uh, quante cose immagino! Lei non può farsene un’idea. Ma mi serve. Mi serve questo.
– Le serve? Scusi… che cosa?
– Attaccarmi così, dico con l’immaginazione… attaccarmi alla vita, come un rampicante attorno alle sbarre d’una cancellata. Ah, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione… aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri… ma non della gente che conosco. No no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse… una nausea… Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! Fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello, ci vivo, ci respiro, fino ad avvertire.. sa quel particolare alito che cova in ogni casa? Nella sua nella mia… Ma nella nostra, noi, non l’avvertiamo più per ché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì…
– Sì, perché… dico, dev’essere un bel piacere, questo che lei prova, immaginando tante cose…
– Piacere? Io?
– Già… mi figuro…
– Ma che piacere! Mi dica un po’. È stato mai a consulto da qualche medico bravo?
– Io no, perché? Non sono mica malato!
– No no! Glielo domando per sapere se ha mai veduto in casa di questi medici bravi la sala dove i clienti stanno ad aspettare il loro turno per esser visitati.
– Ah, sì… mi toccò una volta accompagnare una mia figliuola che soffriva di nervi.
– Bene. Non voglio sapere. Dico, quelle sale… Ci ha fatto attenzione? Quei divani di stoffa scura, di foggia antica… quelle seggiole imbottite, spesso scompagne… quelle poltroncine… È roba comprata di combinazione, roba di rivendita, messa lì per i clienti; non appartiene mica alla casa. Il signor dottore ha per sé, per le amiche della sua signora, un ben altro salotto, ricco, splendido. Chi sa come striderebbe qualche seggiola, qualche poltroncina di quel salotto portata qua nella sala dei clienti, a cui basta quell’arredo così, alla buona. Vorrei sapere se lei, quando andò per la sua figliuola, guardò attentamente la poltrona o la seggiola su cui stette seduto, aspettando.
– Io no, veramente…
– Eh già, perché lei non era malato… Ma neanche i malati spesso ci badano, compresi come sono del loro male. Eppure, quante volte certuni stan lì intenti a guardarsi il dito che fa segni vani sul bracciuolo lustro di quella poltrona su cui stan seduti! Pensano e non vedono. Ma che effetto fa, quando poi si esce dalla visita, riattraversando la sala, il riveder la seggiola su cui poc’anzi, in attesa della sentenza sul nostro male ancora ignoto, stavamo seduti! Ritrovarla occupata da un altro cliente, anch’esso col suo male nascosto; o là, vuota, impassibile, in attesa che un altro qualsiasi venga a occuparla… Ma che dicevamo? Ah, già… il piacere dell’immaginazione… Chi sa perché, ho pensato subito a una seggiola di queste sale di medici, dove i clienti stanno in attesa del consulto…
– Già… veramente..
– Non capisce? Neanche io. Ma è che certi richiami di immagini, tra loro lontane, sono così particolari a ciascuno di noi, e determinati da ragioni ed esperienze così singolari, che l’uno non intenderebbe più l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farne uso. Niente di più illogico, spesso, di queste analogie. Ma la relazione, forse, può esser questa, guardi: – Avrebbero piacere quelle seggiole d’immaginare chi sia il cliente che viene a seder su loro in attesa del consulto? Che male covi dentro? Dove andrà, che farà dopo la visita? – Nessun piacere. E così io: nessuno! Vengono tanti clienti, ed esse sono là, povere seggiole, per essere occupate. Ebbene, è anche un’occupazione simile la mia. Ora mi occupa questo, ora quello. In questo momento mi sta occupando lei, e creda che non provo nessun piacere del treno che ha perduto, della famiglia che l’aspetta in villeggiatura, di tutti i fastidii che posso supporre in lei…
– Uh, tanti, sa!
– Ringrazii Dio, se sono fastidii soltanto. C’è chi ha di peggio, caro signore. Io le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui, ma così, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi… anzi… per sentirne il fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non debba importare a nessuno di finirla. E questo è da dimostrare bene, sa? Con prove ed esempii continui a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di sé stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni… Sì sì. Questa che ora qua è una sciocchezza… questa che ora qua è una noja… e arrivo finanche a dire questa che ora è per noi una sventura, una vera sventura… sissignori, a distanza di quattro, cinque, dieci anni, chi sa che sapore acquisterà… che gusto, queste lagrime… E la vita, perdio, al solo pensiero di perderla… specialmente quando si sa che è questione di giorni… – Ecco… vede là? Dico là, a quel cantone… vede quell’ombra malinconica di donna? Ecco, s’è nascosta!
– Come? Chi… chi è che…?
– Non l’ha vista? S’è nascosta…
– Una donna?
– Mia moglie, già…
– Ah! La sua signora?
– Mi sorveglia da lontano. E mi verrebbe, creda, d’andarla a prendere a calci. Ma sarebbe inutile. È come una di quelle cagne sperdute, ostinate, che più lei le prende a calci, e più le si attaccano alle calcagna. Ciò che quella donna sta soffrendo per me, lei non se lo può immaginare. Non mangia, non dorme più… Mi viene appresso, giorno e notte, così… a distanza… E si curasse almeno di spolverarsi quella ciabatta che tiene in capo, gli abiti… Non pare più una donna, ma uno strofinaccio. Le si sono impolverati per sempre anche i capelli, qua sulle tempie; ed ha appena trentaquattro anni. Mi fa una stizza, che lei non può credere. Le salto addosso, certe volte, le grido in faccia «Stupida!» scrollandola. Si piglia tutto. Resta lì a guardarmi con certi occhi… con certi occhi che, le giuro, mi fa venire qua alle dita una selvaggia voglia di strozzarla. Niente. Aspetta che mi allontani per rimettersi a seguirmi – Ecco, guardi… sporge di nuovo il capo dal cantone…
– Povera signora…
– Ma che povera signora! Vorrebbe, capisce? Ch’io me ne stessi a casa, mi mettessi là fermo placido, come vuol lei, a prendermi tutte le sue più amorose e sviscerate cure… a goder dell’ordine perfetto di tutte le stanze, della lindura di tutti i mobili, di quel silenzio di specchio che c’era prima in casa mia, misurato dal tic-tac della pendola nel salotto da pranzo… Questo vorrebbe! Io domando ora a lei, per farle intendere l’assurdità… ma no, che dico l’assurdità! La macabra ferocia di questa pretesa, le domando se crede possibile che le case d’Avezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene lì tranquille, sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale? Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate! Immagini i cittadini d’Avezzano, i cittadini di Messina, spogliarsi tranquilli per mettersi a letto, ripiegare gli abiti, metter le scarpe fuori dell’uscio, e cacciandosi sotto le coperte godere del candor fresco delle lenzuola di bucato, con la coscienza che fra poche ore sarebbero morti… Le sembra possibile?
– Ma forse la sua signora…
– Mi lasci dire! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegl’insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese, le dice: «Scusi, permette? Lei, egregio signore, ci ha la morte addosso». E con quelle due dita protese, gliela piglia e gliela butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano intanto tranquilli a ciò che faranno domani o doman l’altro. Ora io, caro signore, ecco… venga qua… qua, sotto questo lampione… venga… le faccio vedere una cosa… Guardi qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: Epitelioma, si chiama. Pronunzii, pronunzii… sentirà che dolcezza: epiteli – oma… La morte, capisce? È passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca e m’ha detto: «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!». Ora mi dica lei, se, con questo fiore in bocca, io me ne posso stare a casa tranquillo e alieno, come quella disgraziata vorrebbe. Le grido: «Ah sì, e vuoi che ti baci?» – «Sì, baciami!» – Ma sa che ha fatto? Con uno spillo, l’altra settimana s’è fatto uno sgraffio qua, sul labbro, e poi m’ha preso la testa: mi voleva baciare… baciare in bocca… Perché dice che vuol morire con me. È pazza. A casa io non ci sto. Ho bisogno di starmene dietro le vetrine delle botteghe, io ad ammirare la bravura dei giovani di negozio. Perché lei lo capisce, se mi si fa un momento di vuoto dentro… lei lo capisce, posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco… cavare la rivoltella e ammazzare uno che, come lei, per disgrazia, abbia perduto i treno… No no, non tema, caro signore: io scherzo! – Me ne vado. Ammazzerei me, se mai… Ma ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche… Come le mangia lei? Con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà: si premono con due dita, per lungo, come due labbra succhiose… Ah che delizia! – Mi ossequi la sua egregia signora e anche le sue figliuole in villeggiatura. Me le immagino vestite di bianco e celeste, in un bel prato verde in ombra… E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione… All’alba lei può far la strada a piedi. Il primo cespuglietto d’erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno tanti giorni ancora io vivrò. Ma lo scelga bello grosso, mi raccomando. Buona notte, caro signore.
VA BENE
1. Stato di servizio (fino addì 5 marzo del 1904).
A Sorrento, da Corvara Francesco Aurelio e Florida Amidei, nella notte dal 12 al 13 febbrajo dell’anno 1861, nasce Cosmo Antonio Corvara Amidei, e subito è accolto male: a sculacciate; preso per i piedi dalla levatrice e tenuto per qualche momento a testa giù, perché, quasi strozzato a causa delle doglie stanche della madre, è entrato nel mondo senza strillare.
Botte, finché non strilla.
Entrando, bisogna strillare.
Dal 13 di febbrajo del 1861 al 15 di marzo del 1862, cinque balie. La prima e la seconda, cambiate perché scarse di latte; la terza, perché nel fargli il bagno, una mattina, lo tuffa nell’acqua ancor quasi bollente, scordandosi di temperarla. Scottatura di secondo grado. È per morirne; Dio misericordioso non vuole; ma gli muore, invece, la madre. La quarta balia lo lascia cadere tre volte dal letto, e non di più; e gli fa poi ruzzolare la scala, insieme con lei, una volta sola. Ferite di poco conto: la più grave, rottura dell’osso del naso.
A nove anni, dopo aver sofferto tutte le malattie, che sono come i gradini per cui dalla tenera infanzia – con l’ajuto del medico da un lato e del farmacista dall’altro – si sale alla vispa fanciullezza, Cosmo Antonio Corvara Amidei, animato da fervido zelo religioso, entra in seminario.
Pochi giorni prima d’entrarvi, seguendo alla lettera una delle sette opere corporali di misericordia, s’era spogliato d’un bell’abituccio nuovo che il babbo gli aveva portato da Napoli; ne aveva vestito un povero ragazzetto che se ne stava su la spiaggia ignudo nato, ed era ritornato a casa col solo berrettino da marinajo in capo. In compenso, il babbo gli aveva detto tante belle cose, imbecille, somaro, scimunito, e gli aveva carezzato con tanto slancio gli orecchi, che per miracolo non glieli aveva strappati.
In seminario Cosmo Antonio Corvara Amidei studia e attende alle pratiche religiose con grandissimo fervore; tanto che – a sedici anni – minaccia di dare in tisico. Tutt’a un tratto, però, quando ha già preso i primi ordini religiosi, gli avviene d’impuntarsi in questo passo del trattato De Gratia:
«Si quis dixerit gratiam perseverantiae non esse gratis datam, anathema sit.»
Perché la perseveranza, per il caso che qualcuno volesse saperlo, è – secondo la teologia cattolica cristiana – una grazia che Dio concede a chi vuol salvare, senza attenzione ai meriti o ai demeriti del salvando.
Deus libere movet, dice San Tommaso.
Cosmo Antonio Corvara Amidei ci ragiona su ben bene parecchie settimane, e una notte alla fine vien sorpreso in camicia, con una candela in mano, infocato in volto, con gli occhi sbarrati, brillanti di febbre, che va cercando per il dormitorio una chiave.
Che chiave?
La chiave della perseveranza.
È ammattito. Per fortuna, gli sopravviene la meningite. Esce dal seminario. Un mese tra la vita e la morte.
Quando alla fine può riaversi, ha perduto la fede; ma pare che abbia perduto anche tant’altre cose: i capelli, intanto, la parola, un po’ anche la vista; non si ricorda più di nulla e sta, circa un anno, intronato e come levato di cervello. Si riscuote a furia di trombate d’acqua alla schiena; e, a ventidue anni e qualche mese, può presentarsi agli esami di licenza liceale e andare a Napoli, all’Università, per addottorarsi in lettere e filosofia, calvo, mezzo cieco e col naso schiacciato dalla caduta infantile.
Nell’ottobre del 1887 ottiene, per concorso, il posto di reggente nel ginnasio inferiore di Sassari. I ragazzi, si sa, sono vivaci; il professore è brutto e non ci vede molto: dunque, baldoria; e, per conseguenza, continue riprensioni del direttore del ginnasio al subalterno che non sa tenere la disciplina. Ma anche per le vie di Sassari il professor Cosmo Antonio Corvara Amidei è sbeffeggiato da tutti i monelli, finché non viene un collega, Dolfo Dolfi, professore di scienze naturali, che prende a proteggerlo in iscuola e fuori; anzi fa di più: lo invita ad accasarsi con lui (novembre del 1888).
Dolfo Dolfi entra tardi nell’insegnamento, senza titoli, senza concorso, per protezione d’un deputato autorevolissimo, dopo aver fatto l’esploratore in Africa e per tant’anni a Genova il giornalista: s’è battuto una diecina di volte, e ne ha prese e ne ha date, più date che prese; è libero pensatore, e ha con sé una figliuola naturale, a cui ha imposto questo magnifico nome: Satanina.
Protetto da Dolfo Dolfi, Cosmo Antonio Corvara Amidei vorrebbe finalmente rifiatare, ma non può: il suo protettore non gliene lascia il tempo: gli parla de’ suoi viaggi, delle sue campagne giornalistiche, de’ suoi duelli; gli narra le sue innumerevoli, straordinarie avventure, e vuole anche discutere con lui di filosofia, di religione, ecc. ecc. Bestialità, con tanto di petto in fuori. (Nota bene: Dolfo Dolfi ha la faccia piena di nèi e, parlando, se li arriccia tutti; una gamba qua, una gamba là.) Cosmo Antonio Corvara Amidei si fa piccino piccino, man mano che quegli le sballa più grosse, e approva, approva senza mai contraddire. Egli ormai è ben protetto, non si nega; gli alunni e i monellacci di strada per paura del Dolfi lo lasciano in pace; ma è vero altresì ch’egli non è più padrone di sé, del suo tempo, del suo misero stipendiuccio di professore di ginnasio inferiore. Se ha bisogno imprescindibile di qualche soldino, deve domandarlo a Satanina, e la ragazza, che ha già quindici anni e fa da mammina, glielo dà con gran mistero, raccomandandogli di non farne sapere nulla, per carità, al babbino, ché altrimenti vorrebbe anche lui la sua parte per i minuti piaceri, e dove s’andrebbe a finire?
Buona ragazza, Satanina; tanto che Cosmo Antonio Corvara Amidei vorrebbe chiamarla più brevemente e graziosamente Nina, Ninetta; ma Dolfo Dolfi non vuole.
– Che Nina! Che Niinetta! Satana, si chiama Satana:
Salute, o Satana,
O ribellione,
O forza vindice
Della ragione
Si va avanti così tre anni.
Tutti domandano al professor Corvara Amidei come faccia a andar d’accordo con quella bufera d’uomo che è il professor Dolfo Dolfi; egli si stringe nelle spalle; apre le mani e abbozza un sorriso squallido, socchiudendo gli occhi; perché con quella domanda – è facile intenderlo – la gente vorrebbe farlo capace della sua imbecillità.
Eh sì; Cosmo Antonio Corvara Amidei, in fondo, sarebbe anche disposto a ammettere la propria imbecillità; non ne è però al tutto convinto, giacché, a pensarci bene, gli pare che sia forse alquanto più imbecille di lui la vita in genere, ecco; e che non valga perciò la pena d’essere o d apparire accorti o scaltri, massime quand’essa dimostri con tanta perseveranza l’impegno di volerla proprio pigliare coi denti contro di uno. In questo caso, bisogna lasciarla fare la vita, ché un fine forse – nascosto – lo ha; e, se non ha un fine, avrà pure una fine, questo è certo
L’ebbe, difatti, un bel giorno e d’improvviso, la fine. Ma non per lui, ahimé! Per il professor Dolfo Dolfi. Colpo apoplettico fulminante, mentre faceva lezione (16 marzo 1891)
Cosmo Antonio Corvara Amidei ne rimane esterrefatto. Non se l’aspettava! Gli pare che la casa sia diventata a un tratto vuota, misteriosamente vuota; perché nessun oggetto in essa ha un barlume d’anima, un qualche ricordo intimo per lui; e sembra invece che stia là, triste, a aspettar colui che non potrà più ritornare
Satanina piange inconsolabile. Egli, dapprima, non si prova nemmeno a consolarla, stimando che ogni sua parola sarebbe vana. Ma poi il direttore del ginnasio, i colleghi gli domandano come intenda di regolarsi con quella povera orfana rimasta così, in mezzo a una strada, senza diritto a pensione, senza alcun parente, né prossimo né lontano. Il professor Corvara Amidei risponde subito che se la terrà con sé, c’è bisogno di dirlo? Le farà lui da padre, che diamine! Tanto il direttore del ginnasio quanto i colleghi, a questa sua risposta, alzano le spalle e socchiudono gli occhi, sospirando. Come! Non ne sono contenti? Non pare loro ben fatto? Il professor Corvara Amidei s’allontana sconcertato. Ne parla a Satanina, e – con suo sommo stupore – sente rispondersi anche da lei che non è possibile; ch’ella non può più, ormai, rimanere con lui; che le conviene andar via, al più presto, anzi subito.
– Dove?
– Alla ventura!
– E perché?
Il perché glielo spiegano poco dopo i colleghi. Ha poco più di trent’anni il professor Corvara Amidei; e Satanina, già diciotto; dunque, non così vecchio ancora lui da farle da padre, né così giovine lei da essere semplicemente sua figlia. Chiaro, eh? Ma il professor Corvara Amidei si guarda prima la punta delle scarpe, poi quella delle dita; si prova a inghiottire. Intendono forse i suoi colleghi ch’egli dovrebbe… sposar Satanina? Appena quest’idea gli balena, rimane come basito; poi sorride amaramente. Via, glielo dicono per ischerzo. Si vede costretto a riparlare con Satanina, per convincerla che commetterebbe una pazzia, una vera pazzia, a andarsene – com’ella dice – alla ventura; e allora anche lei, Satanina, gli fa intendere che a un solo patto potrebbe rimanere con lui: a patto, sissignore, di diventare sua moglie.
Cosmo Antonio Corvara Amidei teme d’impazzire, o che tutti si siano messi d’accordo per fargli una beffa atroce. Non riesce in alcun modo a capacitarsi come quella giovinetta possa sentire sul serio la necessità di diventare sua moglie, quasi che davvero la convivenza con lui possa dar pretesto a ciarle in paese. Ma possibile che tal necessità non le appaja quasi grottesca e, a ogni modo, ripugnante? Va a guardarsi allo specchio; si vede anche più brutto di quel che non sia: ingiallito dai patimenti e dalla miseria, squallido, calvo, quasi cieco. Pensa a lei, a Satanina, così giovine, così fresca, così florida, e ha come una vertigine. Sua moglie? Possibile? Si reca a ridomandarglielo, balbettando. E Satanina – sissignore – gli risponde di sì, senz’arrossire, e che anzi, se egli vi fosse disposto, ella gliene serberebbe eterna gratitudine
Cosmo Antonio Corvara Amidei si mette allora a piangere come un bambino, facendole con la mano cenno di tacere, per carità! Grata, lei? Ma che dice? E allora lui? Una tal gioja, dunque, gli serbava la sorte? Come crederci? Per più giorni il professor Corvara Amidei non può articolar parola.
Le nozze si debbono affrettare, sia per la considerazione che i due fidanzati sono costretti a vivere insieme, sotto lo stesso tetto, sia per la speranza del direttore del ginnasio, che esse valgano a scuotere il professore dal beato istupidimento in cui è caduto. Ma questa speranza riesce vana. Dopo le nozze – celebrate solo civilmente (14 marzo 1892), non potendo il professor Corvara Amidei sposare anche davanti a Dio, per i suoi precedenti impegni con la Chiesa – l’istupidimento cresce con la beatitudine.
Quel che tanti anni di sofferenze non han potuto, può tutt’a un tratto la gioja. Cosmo Antonio Corvara Amidei dimentica la grammatica latina, dimentica tutto, diventa proprio inetto a ogni cosa. Non vede che Satanina; non pensa che a Satanina, non sogna che Satanina; non attenderebbe più neanche a cibarsi, se Satanina stessa non ve lo costringesse; tanto gli basta la gioja di vedersela davanti, ridente e vorace; le darebbe da mangiare anche le sue misere carni, se le stimasse degne dei dentini di lei.
Intanto, Dolfo Dolfi non c’è più per tenere a freno gli scolaretti in iscuola e i monellacci in istrada; e la gazzarra è scoppiata, in classe e fuori, più indiavolata che mai. Il direttore del ginnasio ne è furibondo; raffibbia al subalterno le più dure riprensioni; ma a che possono giovare? Il professor Corvara Amidei lo guarda sorridente, come se non fossero rivolte a lui. Allora Satanina si vede costretta a scrivere a quel deputato tanto amico e protettore della buon’anima di suo padre, scongiurandolo di far valere la sua cresciuta autorità perché il professor Corvara Amidei sia tolto subito dall’insegnamento e chiamato invece a prestar servizio più tranquillo o in qualche biblioteca o al Ministero della Pubblica Istruzione.
Così, due mesi dopo, Cosmo Antonio Corvara Amidei con molto dispiacere de’ suoi scolaretti che, in fin dei conti, gli vogliono un gran bene, ma con piacere grandissimo del direttore del ginnasio e dei colleghi, parte per Roma, «comandato» al Ministero. Satanina è incinta, e soffre molto durante il viaggio di mare; ma non ci pensa più appena sbarcata a Civitavecchia; tal gioja le suscita il rimetter piede nel Continente, il pensiero di Roma, vicina.
Ah, che bollore improvviso alza il sangue del padre avventuroso nelle vene di lei!
Al Ministero, il professore Corvara Amidei è relegato nella stanza degli scrivani, come correttore. Ma non corregge nulla. Quei miseri impiegatucci alla giornata han fiutato subito con chi hanno da fare. Fosse, putacaso, un vecchio ladro di bella reputazione, allora sì; inchini e scappellate; ma un povero galantuomo di quella fatta, perché rispettarlo? Del resto, non gli fanno nulla. Qualche scherzetto innocente, per passare il tempo, quando mancano le pratiche da ricopiare. Degli errori poi, che essi commettono ricopiando, la colpa – si sa – è appioppata a lui, al professor Corvara Amidei.
– Mi raccomando, signori miei; lasciatemi riveder le carte. Attenzione! Lei, ragione, con una g sola la scriva, per piacere, mi raccomando!
– Meglio abbondare, professore, meglio abbondare quando si tratta di ragione.
– E va bene! – sospira il professor Corvara Amidei, stringendosi nelle spalle, allungando il collo e socchiudendo gli occhi dietro le lenti doppie, da miope, che pajono due fondi di bottiglia.
Gli scrivani, ogni qual volta gli sentono emettere questo sospiro: E va bene! Scoppiano a ridere a coro. Perché? Il professor Corvara Amidei non ci ha fatto mai caso; ma ripete frequentissimamente (quando qualche cosa gli va proprio male) quel suo: E va bene! E ormai tutti quegli scrivani, fra loro, non lo chiamano altrimenti che Il professor Vabene.
Quand’egli viene a saperlo, si stringe nelle spalle, sorridente, allunga il collo, socchiude gli occhi, è proprio lì lì per sospirar… Ah, ecco, dunque è vero, sì: ha preso questo vezzo, senz’accorgersene, per la lunga abitudine di rassegnarsi ai colpi del destino avverso. Ma, ormai, un compenso a tutto ciò che ha sofferto, a tutto ciò che gli toccherà forse a soffrire ancora, lo ha, e non gl’importa più di nulla. Lo sbeffeggino pure tutti gli scrivani del mondo, lo chiamino Va bene, Va male, Va zero, come che sia, egli ha ora Satanina, e se n’infischia. A lei, dal Ministero, tien fisso di continuo il pensiero e quasi la vede, là, nelle stanze dell’umile casetta presa a pigione in Via San Niccolò da Tolentino.
Il 15 di agosto del 1893, Satanina dà felicemente alla luce un maschietto, Dolfino. Fra l’esultanza quasi delirante, un solo piccolo guajo: Satanina non si sente di allattare da sé il figliuolo. E Dolfino è messo a balia, lontano in un paesello della Sabina. Pazienza! Vuol dire che d’ora in poi il professor Corvara Amidei farà a meno del sigaro del caffè e di qualche altra coserella, per pagar le spese del baliatico.
Quando il saltimbanco, tra l’accorato stupore della folla raccolta intorno, fa lavorare un suo pagliaccetto gracile, pallido, come grida? «Ancora più difficile, signori! Stiano a vedere: si passa a un esercizio ancora più diffficile!»
Quanti esercizi, dalla nascita in poi, il destino saltimbanco non aveva fatto eseguire a Cosmo Antonio Corvara Amidei, suo pagliaccetto? Ma il più difficile, ancora non gliel’aveva fatto eseguire. Aspettava il giorno 20 maggio dell’anno 1894.
Con un cartoccio di schiumette sotto il braccio (quanto piacciono le schiumette a Satanina!) il professor Corvara Amidei rincasa quel giorno, al solito, alle ore diciotto e mezzo precise; sale la scala interminabile; trae il chiavino; cerca e trova a tasto il buco della serratura, apre, entra. Satanina non è in casa. E dov’è? Ella non suole mai andar fuori a quell’ora. Qualcosa, certamente, dev’esserle accaduta; perché, né la tavola nel salottino da pranzo è apparecchiata, né in cucina c’è alcunché preparato per il desinare: i fornelli, spenti; e tutto in ordine, come a mezzogiorno ha dovuto lasciarlo la servetta che tengono a mezzo servizio, per la spesa e la pulizia di casa. Ma che mai può essere accaduto a Satanina? Forse qualche improvvisa chiamata dalla balia di Dolfino? E sarebbe partita così, senza neppure avvertirlo al Ministero? Ridiscende la scala quant’è lunga, per domandare al portinajo qualche notizia; ne domanda anche ai bottegaj lì presso, alla servetta del pigionale che gli sta accanto: nessuno sa nulla. Su, in casa, non può resistere a lungo al contrasto fra la confusione che ha nell’animo e l’ordine e la quiete delle tre stanzette, le quali pare stieno a aspettare, con tutti i mobili, che la placida vita consueta seguiti a svolgersi fra loro. Esce, dapprima senza meta, in cerca; poi si reca al Telegrafo e spedisce alla balia di Dolfino un telegramma d’urgenza, con risposta pagata; seguita a gironzolare, di qua e di là, dove lo portano i piedi, con la testa che gli gira come un molino; e non s’accorge neppure che s’è fatto bujo. Quando gli pare che il telegramma di risposta non possa ormai più tardare di molto, rincasa con la speranza di trovar su Satanina; ma il portinajo gliela leva subito; e allora egli si sente così stanco, così stanco, da non saper come fare a risalire ancora una volta tutta quella scala. Come Dio vuole, ci riesce; entra al bujo, al bujo perviene nella camera da letto, al bujo rimane a attendere, sprofondato in una poltrona.