Sadece LitRes`te okuyun

Kitap dosya olarak indirilemez ancak uygulamamız üzerinden veya online olarak web sitemizden okunabilir.

Kitabı oku: «In Silenzio», sayfa 6

Yazı tipi:

– E va bene!

IL GIARDINETTO LASSÙ

I.

Che voleva dirmi?

L’affanno cresciuto non dava adito alle parole, che volevano certo esser aspre, a giudicare dagli sguardi e dai gesti con cui, tossendo, cercava di farmi comprendere.

– Il servo? – gli domandai, cercando, angustiato, un’interpretazione.

Accennò di sì più volte col capo, irosamente; poi con la mano tremolante mi fece altri gesti.

– Lo caccio via?

Sì, sì, sì, m’accennò col capo, di nuovo.

Per quanto l’indignazione, a cui pareva in preda il povero infermo, ora si comunicasse anche a me, al pensiero che quel servo vigliacco si fosse approfittato dei brevi momenti durante la giornata, nei quali ero costretto ad allontanarmi; pure restai perplesso. Venivo proprio ad annunziargli che, d’ora in poi, non avrei più potuto trattenermi a vegliarlo, a curarlo, come nei primi giorni della malattia. Cacciando ora il servo, poteva egli restar solo lì in casa?

Mi venne in mente lì per lì di persuaderlo a cercar ricovero o in un ospedale o in qualche casa di salute, e gliene feci la proposta.

Nonno Bauer (lo chiamavo così fin da quand’ero ragazzo) mi guardò con occhi smarriti, poi guardò in giro lentamente la camera, la cui vecchia suppellettile gli era tanto cara quanto la sua stessa persona, e dal seggiolone di cuojo, entro al quale stava sprofondato, volse infine gli occhi alla finestra, senza rispondermi.

C’era di là un giardinetto. Apparteneva a gl’inquilini del secondo piano; ma chi veramente ne godeva era lui, Nonno Bauer, che da quella finestra bassa poteva conversar comodamente col giardiniere e, allungando appena un braccio, toccare i rami d’un mandorlo, che adesso pareva tutto fiorito di farfalle.

Mi accorsi che due lagrime erano sgorgate dai calvi occhi infossati del mio caro vecchietto; due lagrimoni che ora gli scorrevano su le guance di cera.

– Lei non vorrebbe, è vero? – m’affrettai a dirgli, impietosito.

Negò col capo, senza guardarmi, quasi vergognoso, mentre la commozione gli agitava le labbra.

– No? Ebbene, vuol dire che si provvederà in altro modo. Intanto Lei non si affligga.

Il povero vecchio alzò gli occhi lacrimosi a ringraziarmi, e un mezzo sorriso, quasi puerile, gli affiorò alle labbra che, subito, si contrassero come per fare il greppo. Tanto intenerimento aveva provato in quel punto per sé.

Povero Nonno Bauer! Moriva, o meglio si spegneva a poco a poco, lì solo; e dopo una lunga vita, tutta stenti e fatiche, esser privato all’ultimo di quegli oggetti familiari, testimoni della pace finalmente conquistata, gli era parsa una vera crudeltà.

II.

Era nato in Italia, da genitori alsaziani; e, fin da giovanetto, era stato col nonno, e poi con mio padre, nell’umile ufficio di scritturale di banco. Dopo il nostro rovescio finanziario e la conseguente morte di mio padre, se n’era andato in Alsazia a trovare i parenti sconosciuti. Trascorsi circa sette anni, eccolo di ritorno in Italia, vinto dalla nostalgia per il paese in cui era nato e cresciuto.

Era ritornato con una modesta sostanza, ereditata da un cugino morto celibe. In quei sette anni, io ero rimasto solo, senza più la mamma, e quasi povero. Nonno Bauer venne a trovarmi, appena ritornato, e mi profferse di abitare con lui. Non accettai, perché, per le buone relazioni di cui godevo, avevo da poco ottenuto un impiego di fiducia, che m’obbligava a viaggiare continuamente. Tuttavia, non perdetti mai di vista il buon vecchietto; andavo a trovarlo ogni qualvolta ritornavo a Roma; e lui m’accoglieva con tenerezza paterna.

Era per me una vera delizia la sua compagnia. Conversando con lui, mi pareva di tuffar l’anima in un bagno di antica semplicità

Nonno Bauer era rimasto in uno stato di vergine ignoranza per quasi tutte le cose della vita, e bisognava vedere con quale e quanta meraviglia la sua mente si aprisse man mano alle cognizioni più ovvie, ora che la vita per lui era quasi finita. Passava ore e ore in biblioteca a leggere, a studiare, per rendersi conto di tante e tante cose che, veramente, ormai non doveva più importargli di sapere. Restava stordito di ciò che apprendeva così tardi; riportava l’ammaestramento al tempo in cui avrebbe potuto giovargli, e s’immergeva allora in lunghe e profonde considerazioni, immaginando il diverso cammino che avrebbe potuto prendere con esso la sua vita.

Ma la sua passione più viva erano le piante. Una volta andò via da una casa per non veder morire un albero che era cresciuto, non si sa come, in mezzo al cortile.

Quel povero albero – io lo ricordo – s’era levato sul magro stelo cinereo con evidente sforzo e rizzando i rami come a supplicare, desideroso di vedere il sole e l’aria libera, angosciato dalla paura di non avere in sé tanto rigoglio da arrivare oltre i tetti delle case che lo circondavano. Ma, finalmente, c’era arrivato! E come brillavano felici le frondi della cima e quanta invidia destavano in quelle che stavano giù senz’aria, senza sole! Anche nella morte, nello staccarsi dai rami, in autunno, le foglie di lassù avevano una lieta sorte: volavano via col vento, in alto, cadevano su i tetti, vedevano il cielo ancora; mentre le povere foglie basse morivano nel fango della via, calpestate.

In tutte le stagioni, all’ora del tramonto, quell’albero si popolava d’una miriade di passeri, che pareva vi si dessero convegno da tutti i tetti della città. Quei rami allora palpitavano più d’ali che di foglie; pareva che ogni foglia avesse voce; che tutto l’albero cantasse, fremebondo.

Dalle finestre delle case i bambini sorridevano storditi, a quel passerajo fitto, continuo, assordante. Nonno Bauer si affacciava con me; sorrideva con aria misteriosa di vecchio mago, mi diceva socchiudendo gli occhi:

– Aspetta…

E batteva forte, due volte, le mani. Subito, come per incanto, tutto l’albero taceva, esanime.

– Che te ne pare?

Ma, di lì a poco, lo sbaldore ricominciava: ogni passero tornava a inebriarsi del proprio gridìo e di quello degli altri, e il concento diveniva man mano più fitto, più assordante di prima.

Ora avvenne che il proprietario di quella casa, un bel giorno, pensò di alzar tutto in giro il muro per fabbricare un altro piano. E allora l’albero che con tanto stento si era guadagnata la libertà del sole, dell’aria aperta, piegò avvilito la cima, si curvò sul tronco.

Nonno Bauer, vedendolo così, cominciò a smaniare, a sentire una pena che gli toglieva il respiro.

– Guarda, guarda! – mi diceva, mostrandomi i passerotti che dalle grondaje spiccavano il volo e si tenevano sospesi su le ali gridando quasi per esortar più da vicino l’albero a rizzarsi.

E forse quei passerotti, anche loro, ripetevano al vecchio albero le solite frasi, gli inutili consigli, i vani ammonimenti, che si sogliono dare ai caduti, a gli sconsolati: «Fatti coraggio! Non bisogna avvilirsi! Raccogli le forze! Rialzati!»

Ma il vecchio albero non aveva ormai più forza di rialzarsi: aveva stentato tanto per arrivare fin lassù, a quell’altezza: più su, ormai, non poteva arrivare. Meglio morire.

Andato via da quella casa, Nonno Bauer se n’era venuto in questa col giardinetto, che non apparteneva a lui. Non andava più da un pezzo in biblioteca; erano cominciati gli acciacchi della vecchiaja, dopo la settantina; e Nonno Bauer, non potendo più uscir di casa tutti i giorni, se ne stava alla finestra a conversar col giardiniere e a fare all’amore – com’egli diceva – con le rose del giardino.

III.

Di quelle rose e degli altri fiori s’innamorò tanto, che cominciò a struggersi dal desiderio di avere anche lui un giardinetto. Gli venne allora un’idea che non mi piacque affatto quando me la manifestò, quantunque la fondasse in un ragionamento pieno di buon senso.

– Alla mia età, – mi disse, – bisogna pensare, figliuolo mio, anche alla morte. E giacché non ho tanti quattrini da farmi due case con due giardinetti, me ne farò una sola, ma bella, e con un giardinetto che varrà per due. Questo mi servirà per sfogare ora il desiderio che m’è nato, quella che mi servirà per poi.. E quando questo poi sarà arrivato, al giardinetto di Nonno Bauer verrai a pensarci tu.

Così acquistò un buon pezzo di terra al camposanto.

La casa, sotto, invece che sopra; e senza nessuna pretesa. Una piccola nicchietta, e lì. Perché i morti hanno questo di buono: che possono anche fare a meno di star comodi, e dell’aria e del sole e d’ogni altra cosa, visto e considerato che si son tolto per sempre il fastidio di muoversi, di respirare, e che, se son freddi, non sentono più nessun bisogno di riscaldarsi.

Ma veramente Nonno Bauer, stando intere giornate lassù, quando si sentiva bene, intento a far nascere il giardino da quel suo pezzo di terra, pareva un morto venuto su dalla sua nicchietta sotterranea per darsi ancora da fare, per muoversi, per bearsi ancora dell’aria e del sole, zitto zitto e affaccendato, senza più nessun pensiero, nessuna curiosità della vita, senza neppure accorgersi dello stupore di certi visitatori del camposanto che si fermavano in distanza a mirarlo a bocca aperta, lì chino su questa o quella pianta con la forbice o con la zappetta o con l’annaffiatojo, o seduto su la sedia a libricino che si portava ogni mattina appesa al braccio, il cappellaccio di paglia in capo, l’ombrello aperto su la spalla, immobile, con gli occhi fissi nel vuoto, assorti in qualche pensiero lontano, che gli atteggiava d’un lieve sorriso le labbra tra la barbetta argentea.

Veniva a qualcuno, quasi quasi, la tentazione d’andarlo a scuotere e d’ordinargli che se ne tornasse giù subito, a riporsi, perché a un morto non è lecito, perdio, sconcertar così la gente, farla impazzire con tutte quelle sue faccende là attorno al giardinetto, o con quella immobilità sul sediolino e quell’ombrello aperto sulla spalla.

La sera, Nonno Bauer, ritornando a casa, parlava col giardiniere dalla finestra. Bisognava sentire che conversazioni! Aveva ottenuto da lui semi e tralci da trapiantare lassù; e i fiori – sosteneva – sbocciavano meglio, assai meglio là che qua, perché infine, i morti a qualche cosa erano ancora buoni.

Ora, inchiodato da quindici giorni in quel seggiolone di cuojo, da cui non doveva più rialzarsi, egli non sentiva altra pena che quella di non poter recarsi, neanche in vettura, a vedere il suo caro giardinetto lassù. Ed era per lui una consolazione veder quest’altro, invece, dalla finestra, sollevandosi un poco su la vita, a stento, e allungando il collo quanto più poteva. Le rose che vi fiorivano non erano forse sorelle delle rose che fiorivano lassù? Meno belle, ma sorelle.

E sapete perché quel giorno io trovai Nonno Bauer così arrabbiato contro il suo servo? Perché non era vero che questi si fosse recato ogni mattina al camposanto a curare il giardinetto, come Nonno Bauer gli aveva ordinato. Il vicino giardiniere, venuto quella mattina a fargli visita, gliene aveva dato la brutta notizia.

Non ci fu verso: dovetti cacciar via il servo: lo cacciai anche, in verità, perché lo ritenevo infedele e sgarbato. Il vicino giardiniere promise che ci sarebbe andato lui ogni giorno a curare le piante, sorelle più belle, e così Nonno Bauer si tranquillò.

Io pensai (conoscendo purtroppo che la morte non poteva esser lontana) di domandare l’assistenza di due suore per quegli ultimi giorni, ed egli non si oppose. Era cosciente del suo stato, e non se ne rammaricava punto; aveva vissuto a lungo, aveva assaporato la pace; ora si sentiva stanco: era tempo di chiudere gli occhi e dormire per sempre, là, nella nicchietta, sotto le rose dell’altro giardino.

IV.

Ogni giorno, andando a visitarlo, mi sorgeva innanzi alla porta la speranza che la mia assidua costernazione dovesse essere ovviata da un repentino miglioramento; ma la men giovane delle suore che veniva ad aprirmi la porta, rispondeva sempre con un gesto di triste rassegnazione alla mia prima, ansiosa domanda.

Mi trattenevo da lui qualche ora; la conversazione però languiva, poiché egli, dopo avermi accolto con un sorriso mesto e muto di riconoscenza, spesso richiudeva gli occhi; e allora io, per non disturbarlo, me ne stavo zitto, come le due suore assistenti. Veramente, quegli occhi, non si sapeva più come guardarglieli, così scavati dentro come erano nel male che lo consumava.

Nessun rumore, nessun segno di vita arrivava in quella linda casetta appartata, in cui il vecchietto aspettava tranquillo la morte. Talvolta, nel silenzio, attraverso le vetrate, giungeva il cinguettìo di un passero: io e le due suore alzavamo gli occhi alla finestra: il passero era lì, su ramo fiorito del mandorlo, e, scotendo or di qua or di là il capino, guardava curioso nella camera, come se volesse domandare: «Che fate?». Poi, a un tratto, un frullo, e via! Quasi avesse compreso che cosa in quella camera si stesse ad aspettare.

Un giorno Nonno Bauer mi domandò se ero stato a vedere il suo giardinetto. C’ero stato, ma non avevo voluto dirglielo.

– Perché non me l’hai detto? – fece egli. – Qua o là, ormai, non è lo stesso? Anzi, meglio là… Hai visto come è bello? Vi tengo tutti impicciati, e io ho tanta voglia di dormire…

Gli parlai allora delle sue piante tutte in fiore, esagerando, per fargli piacere, la mia ammirazione. Gli occhi di Nonno Bauer si avvivarono di contentezza.

– Ci andrò presto… Peccato, che non possa più vederlo. . .

Lo spettacolo di quell’essere ancor del tutto cosciente che con tanta tranquillità s’era conciliato col pensiero della morte, mi cagionava un occulto, indefinibile sentimento. Ma, di lì a pochi giorni, un’altra cosa doveva stupirmi maggiormente.

S’era ammalato d’una malattia assai grave l’unico figlio di un mio intimo amico, vispo e leggiadro fanciullo di circa sette anni, che già s’accarezzava sul labbro un pajo di baffetti immaginarii e, a cavallo d’una seggiola, con una sciabola di legno in mano, un elmo di cartone in capo, marciava a debellare in Africa i Beduini.

Ero andato a casa di quel mio amico per affari e lo avevo trovato con la moglie in preda a un cordoglio angoscioso, attorno al lettuccio dell’infermo adorato.

– Tifo… tifo…

Non sapevano dir altro, padre e madre, e si nascondevano la faccia con le mani, come per non vedere il fanciulletto avvampato dalla febbre.

Ancora turbato e commosso andai quel giorno con molto ritardo a visitare Nonno Bauer. Egli prestò ascolto alla triste notizia recata da me per scusare il ritardo: volle anzi sapere quanti anni avesse il bambino e se i medici avessero dichiarata la malattia.

– Tifo?

Scosse il capo, con le ciglia corrugate, poi richiuse gli occhi, e nella cameretta ritornò il silenzio consueto.

– Quanti giorni sono? – domandò dopo un lungo tratto, senza aprire gli occhi.

Non potendo supporre che egli pensasse ancora a quel fanciullo infermo e non intendendo perciò la domanda, gli domandai a mia volta:

– Quanti giorni di che?

– Che il bambino è ammalato? – spiegò Nonno Bauer, come se parlasse in sogno.

– Nove giorni, – risposi. – E la febbre sempre alta a un modo.

– Bagni freddi, gliene fanno? Anche uno ogni due ore, senza paura… Diglielo al tuo amico.

Dopo un altro lungo silenzio, volle sapere anche il nome del fanciullo.

Il giorno appresso mi recai con lo stesso ritardo a visitare Nonno Bauer, e così nei giorni successivi. Andavo prima a prender notizia del bambino, e non già perché questo mi interessasse più del mio caro vecchietto, ma perché Nonno Bauer se ne interessava lui più di me, e per prima cosa, ogni giorno, nel vedermi entrare, mi domandava:

– Come sta? Come sta?

Era rimasto impressionato del caso di quel bambino che moriva contemporaneamente a lui; e, mentre per sé non si lagnava nemmeno, di quello si affliggeva così che pareva non se ne potesse dar pace.

– Ma di’, ma un consulto non l’hanno ancora tenuto?

E consigliava i medici da chiamare. Avrebbe voluto salvarlo a ogni costo.

Purtroppo però il fanciullo era spacciato. Il giorno in cui diedi a Nonno Bauer la triste notizia, c’era da lui a visita il vicino giardiniere, il quale era venuto a riferirgli che il rosajo tutto intorno aveva gettato tanto, che la pietra sepolcrale ne era quasi nascosta.

– Signor Bauer, le rose dicono: là dentro non ci si va

Ma Nonno Bauer stava peggio anche lui, quel giorno. Guardava con occhi spenti; pareva non intendesse.

Andato via il giardiniere, cadde in letargo. Poi, si riscosse con un sospiro e disse:

– Se volessero portarlo lì…

Credetti che vaneggiasse, e, per richiamarlo in sensi, gli domandai:

– Dove, Nonno Bauer?

– Lì…

E alzò appena la mano.

Compresi, e provai una viva tenerezza. Egli intendeva nel suo giardinetto, lassù, al camposanto. Voleva con sé il bambino, lì, nella nicchietta, sotto le rose.

– Diglielo… diglielo… – riprese con insistenza, rianimandosi un po’ e guardandomi negli occhi: – Glielo dirai?

LA MASCHERA DIMENTICATA

Nella sala già quasi piena per la riunione indetta dal Comitato elettorale in casa del candidato Laleva, tutti, vedendolo entrare zitto zitto zoppicante e con gli occhi fissi e cupi sotto la fronte grinzuta, s’erano voltati, stupiti, a mirarlo.

Don Ciccino Cirinciò? Possibile? E chi lo aveva invitato?

Si sapeva che da anni e anni non s’immischiava più di nulla, tutto assorto com’era nelle sue sciagure: la morte della moglie e di due figliuoli, la perdita della zolfara dopo una sequela di liti giudiziarie, e la miseria: sciagure che avrebbe fatto meglio a portare in pubblico con dignità meno funebre, perché non spiccasse agli occhi di tutti i maldicenti del paese quel sigillo particolare di scherno con cui la sorte buffona pareva si fosse spassata a bollargliele, se era vero che la moglie gli fosse morta per aver partorito su la cinquantina non si sapeva bene che cosa: chi diceva un cagnolo, chi una marmotta; e che avesse perduto la zolfara per una virgola mal posta nel contratto d’affitto; e che zoppicasse così per una famosa avventura di caccia, nella quale invece dell’uccello era volato in aria lui con tutti gli stivaloni e lo schioppo e la carniera e il cane, investito dalle alacce d’un mulino a vento abbandonato sul poggio di Montelusa, le quali tutt’a un tratto s’erano messe a girare da sé; per cui ormai era inteso da tutti come don Ciccino Cirinciò «quello del mulino».

Cosa strana: se da qualche malcreato sentiva fare allusione a quel parto della moglie o a quella virgola nel contratto d’affitto, sorrideva triste o scrollava le spalle; ma nel sentirsi chiamare quello del mulino usciva dai gangheri, minacciava col bastone e urlava che il suo era un paese di carognoni imbecilli.

Ora questi carognoni imbecilli ecco che si maravigliavano del suo intervento alla riunione elettorale. Ma ci voleva tanto i pensare ch’egli doveva – prima di tutto – gratitudine eterna al vecchio avvocato don Francesco Laleva, padre del candidato d’oggi, l’unico tra tutti gli avvocati del foro che lo avesse ajutato e difeso nell’occasione delle liti per la zolfara? Queste liti, è vero, le aveva perdute; l’ajuto, perciò, se vogliamo, era stato vano; ma che per questo? L’obbligo della gratitudine non restava forse per lui stesso, sacrosanto? E poi – a parte la gratitudine – ci voleva tanto forse a crederlo capace di un sentimento, che doveva in quell’ora esser comune a tutti i galantuomini, disgraziati e non disgraziati? Perdio, il sentimento della dignità del proprio paese! Era, sì o no, un cittadino anche lui? Le disgrazie, va bene; ma, come cittadino, non poteva essere forse indignato anche lui delle spudorate vergogne che il vecchio deputato uscente commetteva da venti anni impunemente? Non parlava; non aveva mai parlato, perché – le parole – vento! Ma ora ch’era venuto il tempo d’agire, sissignori; eccolo qua; si presentava da sé, non invitato, per mettersi a disposizione del figlio del suo antico e unico benefattore.

I radunati stettero un pezzo a mirarlo a bocca aperta; qualcuno si toccò con un dito la fronte, come per dire: «Eh, che volete? Gli s’è voltato il cervello, poveretto!». Perché sapevano tutti che non era vero che dovesse poi tanta gratitudine al padre del Laleva, il quale non lo aveva né ajutato né difeso; ma solo dissuaso dal mettersi in lite per quella zolfara maledetta. Se non che, a forza di ragionare tra sé e sé le sue disgrazie, chi sa, povero Cirinciò, com’era arrivato adesso a rappresentarsi uomini e cose, tutti gli avvenimenti della sua vita; e quali parti in questi lontani avvenimenti della sua vita attribuiva a presunti amici, a presunti nemici! E chi sa da che strambe ragioni era stato perciò indotto a presentarsi ora lì non invitato; e che cosa, nei misteriosi arzigogoli, nelle segrete previsioni del suo spirito conturbato, doveva rappresentare per lui questa sua partecipazione alla lotta politica in favore del figlio di don Francesco Laleva; che beneficii sbardellati se ne riprometteva, che tremendi pericoli e responsabilità si immaginava di dovere affrontare… Ma sì, quegli occhi che lampeggiavano sotto la fronte aggrottata; quelle pugna serrate sui i ginocchi… Povero don Ciccino!

Cirinciò, invece, guardava così, perché non riusciva a spiegarsi il perché di tutta quella meraviglia per la sua venuta.

Vedendosi osservato, spiato da lontano con quell’aria di costernazione perplessa e afflitta, cominciò a entrare in sospetto, che non lo volessero lì. Aveva forse capito male l’invito del Comitato elettorale?

A un certo punto, non potendone più, s’alzò sdegnoso, e, zoppicando, s’accostò a domandarlo al Laleva: – Scusate, debbo rimanere o me ne debbo andare? Ho forse fatto male a venire?

– Ma no! Perché, caro don Ciccino? – s’affrettò a rispondergli il Laleva. – Siamo tutti felicissimi, e io particolarmente, della sua venuta! Ma si figuri! Segga, segga. L’ho per un onore; e ne ho tanto piacere!

«E allora?» domandò a sé stesso Cirinciò, tornando a sedere. «Perché tutti mi guardano così?»

Che ci fosse in lui qualche cosa ch’egli non vedeva e che gli altri vedevano? Perché in quel momento gli pareva proprio che potesse, come tutti gli altri, occuparsi delle elezioni, e che non ci fosse, in questo, nulla di straordinario.

Capiva bene, sì o no? Ma sì, perdio, che capiva benissimo tutte le discussioni che ora si facevano attorno a lui su le probabilità più o meno di vittoria, sulla disposizione dei varii partiti locali in questo e in quel comune del collegio, sul computo dei voti favorevoli e contrarii, non solo, ma gli pareva anzi di veder più chiaro di certuni nella tattica da seguire verso qualche capoelettore ancora neutrale nella lotta. Tanto che a un certo punto, dimenticandosi del dubbio che lo aveva finora tenuto ingrugnato e sospettoso, non poté più trattenersi; s’alzò, prese la parola e in breve, con chiarezza e semplicità, espresse il suo concetto, come a lui pareva che si dovesse fare.

Fu nella sala uno sbalordimento generale; perché proprio nessuno riusciva a capacitarsi come mai don Ciccino Cirinciò potesse vedere così chiaro e giusto. Eppure, sì, era proprio quella la mossa da tentare; si doveva far proprio come diceva lui.

Tre, quattro volte, durante la lunga discussione, si rinnovò quello sbalordimento per il retto giudizio e la giustezza dei consigli e la finezza degli espedienti da lui suggeriti. Non pareva vero! Signori miei, don Ciccino Cirinciò… Ma parlava benissimo! Chi l’avrebbe creduto? Un oratore… Ma bravo! Ma bene! Viva Cirinciò!

Più sbalordito di tutti, alla fine, perché da un canto non gli pareva proprio d’aver detto cose così straordinarie da suscitare tanto stupore, tanto fervore d’ammirazione; ma, dall’altro canto, mezzo ubriacato dagli applausi, Cirinciò si trovò designato da tutti a un posto di combatti mento difficilissimo, nel comune di Borgetto, che si riteneva la cittadella inespugnabile del partito avversario.

Cercò di tirarsi indietro, con la scusa che non conosceva nessuno lì; che non c’era mai stato; disse anche che non erano imprese per lui; che aveva esposto così, in astratto il suo modo di vedere, ma che nell’atto pratico si sarebbe perduto. Non vollero neppur lasciarlo finire di parlare; lo costrinsero ad accettare quel posto di combattimento: e così, la mattina dopo, don Ciccino Cirinciò, provvisto d mezzi e di commendatizie, partì per Borgetto.

Vi fece miracoli, a detta di tutti, nei quindici giorni che precedettero l’elezione politica. Veri miracoli, se in due settimane riuscì a cambiare la posizione del Laleva in quel comune da così a così.

Fu per il bisogno di raggiungere e toccare una realtà qualunque nel vuoto strano, in cui quell’avventura impensata lo aveva così d’improvviso gettato? Vuoto arioso e lieve, nel quale tutti gli aspetti nuovi, d’uomini e di cose gli apparivano come in una luce di sogno, nella freschezza di quell’azzurro di marzo corso da allegre nuvole luminose? O fu per il prorompere di tante energie ancor vive e ignorate, da anni e anni compresse in lui, soffocate dall’incubo delle sciagure? Energie giovanili, intatte, che lo avrebbero portato chi sa dove, chi sa a quali imprese, a quali vittorie, se la sua vita non si fosse chiusa come s’era chiusa nel lutto di quelle sciagure?

Il fatto è che operò miracoli in quel paesello dove nessuno lo conosceva. E certo perché nessuno lo conosceva.

Tutto fuori di sé, là, in preda a quelle energie insospettate e scatenate d’un subito in lui, affrontò imperterrito gli avversarii, li forzò a discutere e a riconoscere prima gli errori e l’insipienza, poi la vergogna del loro vecchio deputato; e non si diede un momento di requie: ora qua a scrollare i titubanti; ora là a sventare un’insidia, a presiedere un comizio, a sfidare al contraddittorio anche lo stesso deputato uscente, o chi per lui: tutto quanto il paese!

Cose che non avrebbe mai supposto non che di poter dire, ma neppure di pensare lontanamente, gli venivano alle labbra, spontanee, con un’abbondanza e facilità di parola, un’efficacia d’espressioni, che ne restava lui stesso come abbagliato. Pareva che una vena nuova di vita gli fosse rampollata dentro, e si fosse messa a scorrere in lui con urgenza impetuosa. Coglieva a volo tutto, comprendeva tutto a un minimo cenno; e ogni cosa, dentro, pur restandogli nuova e fresca, gli diventava subito nota e propria; se n’impadroniva con quelle forze vergini, che non avevano potuto aver mai uno sfogo in lui, e che ora lo rendevano alacre e sicuro della vittoria, come un giovane, tra la frenesia che già aveva preso a bollire in tutti coloro che gli si facevano attorno sempre in maggior numero, e che a stento riuscivano a tenergli dietro in quella tumultuosa agitazione.

Non pensò più neanche d’aver una gamba zoppicante. Non gli faceva più male. Gli anni? Sessantadue, sì… Ma che voleva dire? Avanti! Era come se cominciasse ora la vita. Avanti! Avanti! Qua, per il momento, c’era da correre a minacciare a quel signor assessore la denunzia delle cento schede trattenute ai soci del circolo operajo, poi a documentare il tentativo di corruzione del signor sindaco: il pagamento di cinquanta voti a dieci lire l’uno. Come documentarlo? Ma con le testimonianze, perdio! S’incaricava lui di far confessare quei contadini alla presenza d’un notajo, lui, lui… Avanti!

Arrivò così al giorno della vittoria che pareva un altro, ricreato in quell’aura di popolarità, tra gente nuova, in un paese nuovo, preso d’assalto, messo sottosopra e conquistato in pochi giorni. E, la sera della proclamazione del nuovo eletto, si presentò raggiante nella vasta sala del Circolo dei «civili»dove era imbandita una splendida mensa in suo onore; per quanto già gli apparissero evidenti i segni della stanchezza nella vecchia maschera dimenticata.

Circolava intanto in quella sala, nell’attesa che i posti fossero assegnati nella mensa, un certo squallido ometto scontorto, dal cranio d’avorio, luccicante sotto i lumi. Quasi a nascondersi, teneva il capo insaccato nelle spallucce ossute, ma cacciava in tutti i crocchi la punta della barbetta arguta, gialliccia, come scolorita, e figgeva in faccia a questo e a quello gli occhietti lustri, acuti come due spilli, che gli spiccavano maligni nel cereo pallore del viso. Si fermava un momento a ripetere una domanda insistente alla quale era chiaro che non riceveva una risposta che lo soddisfacesse; negava col dito, scrollava le spalle come se esclamasse: «Ma che! Ma che! Impossibile!», o stirava il volto sporgendo il labbro inferiore, come uno che non riesca a capacitarsi, e s’allontanava rivoltandosi a guardare di sfuggita e di sbieco, con quegli occhietti puntuti, Cirinciò.

Cirinciò se n’accorse subito.

Pur tra il fervore entusiastico dell’accoglienza, si sentì ferire fin da principio da quegli occhietti. Cercò di sfuggirli, rituffandosi in mezzo alla confusione della festa. Ma di qua, di là, da vicino, da lontano, donde meno se l’aspettava, si sentiva pungere dalla fissità quasi spasimosa di quegli occhietti persecutori; e, appena punto, raggelare, sconcertare, rimescolar tutto da un sentimento oscuro che, facendogli impeto rabbiosamente, gli occupava come di una tenebra di vertigine il cervello. Si ripigliava; ma avvertiva internamente che non gli era più possibile ormai tenersi fermo, ché tutto, dentro, gli vagellava, non tanto per la persecuzione di quegli occhietti, di cui in fine non aveva nulla da temere, quanto perché… perché non lo sapeva bene lui stesso.

Non era timore, non era vergogna; ma si sentiva come tratto di dentro a nascondersi e a scomparire da quella festa.

Troppo chiasso, oh Dio… troppo chiasso.

E andando in giro per la sala, intronato, faceva atto con le mani di smorzare i rumori.

Ma più faceva così, più si acuiva proprio fino allo spasimo in quei tali occhietti una curiosità pazzesca.

E allora Cirinciò cadde in preda a una così cupa esasperazione, che di fuori ebbe lo strano effetto di farlo apparire quasi cangiato all’improvviso.

Si riebbe un momento allorché tutti lo presero e lo portarono in trionfo a sedere a capo tavola; ma, cessata l’agitazione della cerca dei posti, appena tutti si furono accomodati, Cirinciò, volgendo lo sguardo in giro, ricadde più intronato che mai e nell’intronamento si fissò, come impietrato, vedendosi vicinissimo, a quattro posti di distanza, quell’ometto che seguitava a fissarlo, e ora – ecco – allungava il collo verso di lui, con l’indice teso come un’arma presso uno di quegli occhietti diabolici, quasi a prender la mira, e gli domandava: