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Kitabı oku: «In Silenzio», sayfa 7

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– Ma scusate, non siete don Ciccino Cirinciò, voi?

Non era sul nome la domanda. Non potevano capirlo gli altri; ma lui, sì, Cirinciò lo intese benissimo.

Che quegli fosse don Ciccino Cirinciò, glielo dovevano aver detto e ripetuto tutti cento volte, a quell’ometto. Ma appunto di questo non riusciva a capacitarsi quell’ometto: che cioè don Ciccino Cirinciò ch’egli tempo addietro aveva conosciuto, fosse questo che ora gli stava davanti… Questo? Possibile!

– Quello del mulino?

Sì, sì, quello del mulino… Aveva ragione! Non era credibile! – Cirinciò adesso tutt’a un tratto lo riconosceva anche lui.

Non era credibile, non appariva più credibile neanche a lui stesso, che quello del mulino, lui, proprio lui, potesse trovarsi lì, in mezzo a quella festa, e che avesse potuto fare tutto quel che aveva fatto, senza saperne più il perché.

Che importava a lui, infatti, ora che con gli occhi di quell’ometto si vedeva rientrare in sé medesimo con tutte le sue sciagure e la sua miseria, che importava più a lui della vittoria del Laleva? Delle vergogne del deputato sconfitto?

Tutti i convitati, nel vederlo così d’un subito appassire, credettero in prima che fosse effetto di momentanea stanchezza, e cercarono di ravvivarlo con incitamenti e congratulazioni; ma si sentirono rispondere e agghiacciare con certi scemi e strascicati: «Già… già…» che rivelarono assente, lontano mille miglia dalla festa, lo spirito di lui.

E quando, il giorno appresso, Cirinciò se ne partì da Borgetto, ingrugnato, funebre, rispondendo a mala pena ai saluti, tutti restarono a guardarsi tra loro, non sapendo comprendere la ragione di un mutamento così improvviso, e parecchi avanzarono il sospetto che fosse un imbroglione, un miserabile impostore venuto a mistificarli.

LA BALIA

I.

– Finalmente! – esclamò la signora Manfroni, strappando di mano alla serva la lettera da Roma tanto sospirata, nella quale il genero, Ennio Mori, doveva darle tutti i minuti ragguagli promessi, intorno al parto recente della figlia Ersilia.

Inforcò subito gli occhiali e si mise a leggere.

Già sapeva da telegrammi precedenti, che il parto era stato laborioso, ma che tuttavia la figlia non correva alcun rischio. Ora però la lettera le dava a sapere che qualche rischio Ersilia veramente lo aveva corso e che anzi c’era stato bisogno d’un ostetrico. Questa notizia il Mori la dava non certo per affliggere i parenti della moglie, ora che tutto, bene o male, era passato; ma per lagnarsi della caparbietà di lei che, contro i suoi saggi consigli, s’era ostinata a portare fino all’ultimo il busto troppo stretto, i tacchi delle scarpe troppo alti.

– Asino! i tacchi!

E parecchie volte la signora Manfroni, friggendo, ripeté quell’asino! durante la lettura. A un tratto s’impuntò, più che mai stizzita, e levò gli occhi dalla lettera e guardò in giro, quasi cercasse qualcuno con cui sfogarsi.

– Come? come?

Ah, la balia non doveva essere romana? O perché no, signor avvocato Mori? Le balie romane hanno troppe pretensioni? Oh guarda, l’economia adesso! Come se la dote di Ersilia non potesse permettere un tal lusso al signor avvocato socialista. Eh già! e intanto che bella figura avrebbe fatto Ersilia per le vie di Roma con a fianco una zotica contadinotta siciliana da lavare a sei o a sette acque, parata da balia!

– Asino! Asino! Asino!

– Ohé! Non si mangia oggi? Perché la tavola non è ancora apparecchiata?

Il signor Manfroni entrò, vociando così, al solito. Di là aveva già sgridato la serva e la cuoca.

– Piano, Saverio, piano… – disse la moglie. – Sai bene che c’è sempre un mondo da fare in casa nostra.

– Da fare? Voi? E io?

– Leggiti, leggiti la bella lettera del tuo carissimo genero, piuttosto.

– Ersilia?

– Sentirai.

Il signor Manfroni si calmò di botto; scorse la lettera poi, ripiegandola:

– Benissimo! Ho la balia che ci vuole.

Aveva di questi lampi il signor Manfroni, nei quali egli per primo s’abbagliava e a cui doveva – a suo credere – la sua ingente fortuna commerciale.

Con aria derisoria e di sfida la signora Manfroni domandò:

– Sarebbe?

– La moglie di Titta Marullo.

– La moglie di quell’avanzo di forca?

– Taci!

– La moglie di quel capopopolo?

– Taci!

– La moglie d’un coatto!

– Lasciami dire! – gridò il Manfroni. – Sei donna tu e, per tua norma, qua, Domineddio, stoppa, stoppa, cara mia, ti ci ha messo! stoppa in luogo di cervello. Con le belle condizioni sociali, nelle quali viviamo…

– Come c’entrano le condizioni sociali? – domandò, stordita, la moglie.

– C’entrano! C’entrano! – ribatté furiosamente il signor Saverio. – Perché, noi, noi che siamo riusciti col lavoro assiduo e per… come si dice? perticace, cioè, no… sì, giusto dico, perticace, a metter da banda una sostanza qualsiasi, noi, oggi, per tua norma, di fronte all’avvenire che si fa man mano più torbido e minaccioso… hai capito?

– No! Che vuoi che capisca?

– E non te lo dico io? Stoppa!

Afferrò una seggiola, l’accostò a quella su cui stava la moglie e vi sedette in gran furia, sbuffando.

– Io, Titta Marullo, – riprese, sforzandosi di parlar sotto voce, perché i servi non udissero, – io, Titta Marullo, per tua norma, lo scacciai dal panificio, per le sue idee rivoluzionarie.

– Come quelle del signor Mori, a cui hai dato tua figlia!

– Lasciami dire! – urlò il Manfroni. – E perché gli ho dato mia figlia, io? Prima di tutto perché Ennio è un ottimo giovine; poi, sissignora, perché socialista! sissignora! E mi è convenuto! e mi ha fatto gioco! Sai dirmi perché sono tanto rispettato, io, da tutta quella canaglia a cui do da mangiare? Stoppa! Ma qui Ennio non c’entra… Parlavamo di Titta Marullo. Lo scacciai dal panificio. Rimasto sul lastrico, il disgraziato, si regolò in modo da farsi mandare all’isola, a domicilio coatto. Ora io, ricco, ma con qui dentro qualcosa che batte e che, per tua norma, si chiama cuore, prendo sua moglie, la ficco in un vagone di terza classe e la spedisco a Roma, balia del mio nipotino!

Poteva avere centomila ragioni il signor Manfroni, ma aveva anche su uno zigomo un ridicolissimo porro, sul quale la moglie appuntava gelidamente uno sguardo quanto mai dispettoso, quando si vedeva costretta a sottomettersi a quelle ragioni. E il signor Manfroni, nel vedersi ogni volta guardato il porro, provava un tale urto di nervi che, per non fare uno sproposito, troncava subito la discussione. Sonò il campanello e ordinò alla serva:

– Di’ a Lisi che venga subito qua.

Lisi, che fungeva da cocchiere e da servotto, si presentò su la soglia senza giacca, con le maniche della camicia rimboccate su le braccia e la bocca aperta a un riso muto, come soleva ogni qual volta i padroni lo chiamavano al loro cospetto.

Il signor Manfroni, fin dal primo vederlo, aveva scoperto uno straordinario ingegno in questo ragazzo.

– Sai dove sta la moglie di Titta Marullo?

– Sissignore. Ho capito! – rispose Lisi, e sollevò una spalla e si contorse, mentre un sorriso scemo gli alzava quasi il bollo in gola.

– Che hai capito, animale? – gli gridò il Manfroni, che non era in vena d’ammirarlo, in quel momento.

Lisi si storcignò di nuovo, come se il padrone gli avesse fatto un bel complimento, e rispose:

– Vado a dirglielo, sissignore.

– Dille che venga subito qua. Debbo parlarle.

E, di lì a poco, il signor Manfroni ebbe una prova lampantissima del non comune ingegno di Lisi. Figurarsi che, mentre era ancora a tavola con la moglie, vide irrompere nella stanza Annicchia, la moglie di Titta, piangente di gioja, con un bambinello in braccio di circa due mesi.

– Ah, signorino! signorino mio! si lasci baciare la mano!

E, così esclamando, gli s’inginocchiò ai piedi. La serva, la cuoca s’erano affacciate all’uscio per assistere alla scena, e Lisi innanzi a loro rideva, trionfante, beato.

Tra gli occhi e le sopracciglia del signor Saverio s’impegnò una viva lotta: quelli volevano sbarrarsi per lo stordimento improvviso, e queste contemporaneamente aggrottarsi dalla rabbia. Ritrasse subito la mano che la giovine inginocchiata voleva baciargli: guardò verso l’uscio e urlò:

– Fuori! No, tu qua, Lisi! Che le hai detto?

– Che Titta verrà! – esclamò Annicchia senza levarsi. – Che me l’ha liberato Lei, signorino mio!

Il Manfroni balzò in piedi e brandì la seggiola:

– Aspetta, canaglia!

Lisi scappo via come un daino.

– Non è vero? – fece Annicchia, appassendo, rivolta alla signora Manfroni.

E si rialzò lentamente. Ci volle del bello e del buono per farle intendere che la liberazione del marito non dipendeva, né poteva dipendere in alcun modo dalla volontà e dalle amicizie del signor Manfroni, il quale, se lo aveva scacciato dal panificio, ella era testimonia di quanta longanimità avesse prima dato prova, unicamente per lei che, da bambina, gli era cresciuta in casa ed era stata compagna di giuoco d’Ersilia, tant’anni.

Mentre il marito dava queste spiegazioni, la signora Manfroni osservava la giovine e, con l’immaginazione, la parava da balia e approvava col capo, approvava come se già la vedesse con un goffo zendado rosso in testa e uno spillone dai tremuli fiori d’argento tra i biondi capelli.

Annicchia, allorché il Manfroni le espose la ragione per cui aveva mandato Lisi a chiamarla, restò tra stordita e perplessa.

– E questo mio bambinello? – disse, mostrandolo. – A chi lo lascio?

Se lo strinse al seno; si mise a piangere di nuovo.

– Tata non torna, Luzzì! non torna!

Infine, scoprendo la faccia lacrimosa, aggiunse, rivolta alla signora Manfroni:

– Non lo conosce; ancora non l’ha veduto, quest’angeletto che gli è nato.

– Potresti darlo ad allevare, con un po’ di quello che avrai da Ersilia.

– Oh, per la signorina Ersilia, – s’affrettò a dire Annicchia, – si figuri con che cuore lo vorrei fare! Ma… troppo lontano! a Roma!

Il signor Saverio spiegò lì per lì che: Partenza! Pronti! col treno e col piroscafo, non c’erano più distanze, ormai.

– Sissignore, – disse Annicchia, – Vossignoria, dice bene; ma io sono una povera ignorante; mi sperderei. Non ho mai dato un passo fuori del paese. E poi, – aggiunse, – Vossignoria sa che ho con me la suocera: come potrei lasciarla, povera vecchia? Siamo restate noi due sole. Titta me l’ha tanto raccomandata! E se sapesse come viviamo! io, con le braccia legate da questa creaturina; lei, vecchia di settant’anni! Volevo dare ad allevare il piccino e mettermi a servizio. Già, Titta non troverà più nulla della bella roba comperata quando sposammo: roba da poverelli, si sa, ma pulita. Svenduta, a questo e a quello… Ma la vecchia non vuole ch’io vada a servizio. È superba; non vuole. Però, essendo per la signorina Ersilia, forse… Ecco, potrei tentare di dirglielo.

– Sì, ma la risposta, subito. Dovresti partire domattina, al più tardi.

Annicchia rimase ancora perplessa.

– Sentirò, e Le saprò dire sì o no, – disse infine; e andò via.

Abitava in una viucola lì presso. Già tutte le vicine, al tanto lieto quanto falso annunzio di Lisi, s’erano affollate nella nuda casetta a pian terreno, intorno alla vecchia madre del deportato che se ne stava seduta, tutta inarcocchiata, con un fazzoletto nero in capo annodato sotto il mento e le mani nodose su un rozzo scaldino di terracotta posato su le ginocchia. Lodavano quelle il buon cuore e la generosità del Manfroni, e la vecchia, con la testa bassa, emetteva di tratto in tratto come un grugnito, non si sapeva se d’assenso o di dispetto, saettando con gli occhi certi sguardi che esprimevano diffidenza e fastidio. Quando Annicchia si presentò su la soglia e con l’aspetto e con le prime parole raggelò su le labbra delle vicine le frasi ammirative per il signor Manfroni, la vecchia suocera alzò la testa e guardò in giro con sdegno le vicine; poi, all’annunzio della proposta del Manfroni, si levò in piedi.

– Che gli hai risposto?

Annicchia volse uno sguardo alle vicine, come per dire: Fatele intender voi, che io debbo accettare.

– Gli ho risposto che sarei venuta a dirvelo, mamma.

– Non voglio! Non voglio! – gridò subito, irosa, la vecchia.

– Non vorrei nemmeno io; ma…

E di nuovo Annicchia si rivolse per ajuto alle vicine. Queste allora, un po’ l’una e un po’ l’altra, cercarono di persuadere alla vecchia le ragioni per cui la nuora non avrebbe dovuto perder l’occasione che le si offriva di provvedere onestamente a sé, a lei, al bambino. Una, anzi, ch’era venuta col suo figliuolo in braccio, attaccato a una enorme poppa:

– Qua! qua! guardate, – si mise a gridare, – ho latte per due! Me lo piglio io, il bambino… Qua, guardate!

E, cavando il capezzolo di bocca al poppante, sollevando con una mano la mammella, fece sprizzare il latte in faccia alle comari del vicinato che, ridendo e riparandosi con le braccia, si scostarono addossandosi l’una all’altra.

Ma la vecchia non volle piegarsi; si ribellò a tutte le insistenze, gridando alla nuora:

– Se vai, è contro la mia volontà, e ti maledico! Ricordatene!

II.

L’avvocato Ennio Mori aspettava alla stazione l’arrivo del treno da Napoli. Piccolo di statura, magrissimo, con le spalle in capo, sbuffava, impaziente, o si grattava la faccetta ossuta, dalla tinta itterica, invasa e quasi oppressa da una barba nera troppo cresciuta, o si aggiustava le lenti che non volevano reggerglisi sul naso, o si tastava di tanto in tanto le tasche del pastrano e della giacca piene di giornali.

Si accostò a un ferroviere.

– Scusi, il treno da Napoli?

– È in ritardo di quaranta minuti.

– Ferrovie italiane! Cose da pazzi!

E s’allontanò, in cerca d’un posto qualunque per sedere; là in fondo, sotto l’orologio, in qualche sporgenza del muro, poiché tutti i sedili erano ingombri.

Gli toccava fare anche da servitore alla balia che doveva arrivare:

– Cose da pazzi!

Dopo due anni di matrimonio e di dimora in Roma, sua moglie era come uscita or ora da quella tribù di selvaggi dell’estremo lembo della Sicilia: non sapeva né muoversi per casa, né uscir sola per provvedere ai bisogni minuti della famiglia; non sapeva far altro che rimproverar lui dalla mattina alla sera, sempre imbronciata, e punzecchiarlo dove più si teneva: nella logica, nella logica; e affliggerlo con la più stupida e odiosa gelosia, non per amore, ma per puntiglio. Non si sentiva amata! E sfido! Che aveva mai fatto, che faceva per essere amata? Se pareva anzi che provasse gusto a farsi odiare! Mai una parola gentile, mai una carezza, mai! e sempre armata di diffidenza, spinosa, dura, arcigna, permalosa. Ah, parola d’onore, aveva fatto un bel guadagno a sposarla!

– Cose da pazzi!

Sbuffò, tornò ad aggiustarsi sul naso le lenti; trasse uno dei tanti giornali e si mise a leggere.

Ma, pure in quella lettura, come in casa trattando con la moglie, non riusciva a trovare un momento di requie; e, quasi a ogni notizia, tornava a ripetere quella sua solita frase: – Cose da pazzi! – . Seguitava a leggere, tuttavia; e, ogni giorno, non si dichiarava soddisfatto, se non aveva scorso da capo a fondo tutti i fogli più in vista di Roma e di Milano, di Napoli, di Torino, di Firenze, di cui aveva sempre così piene le tasche.

– Medicina, – soleva dire. – Mi muovono la bile.

Troppo, però! Eh, glielo aveva detto anche il medico. Troppo, sì, forse; ma poi, non leggendo i giornali, lo spettacolo diretto dell’amenissima vita italiana, la compagnia della moglie, non gli avrebbero guastato il fegato? Meglio dunque i giornali.

– E questo maledetto treno da Napoli, insomma, arriva o non arriva?

Guardò l’orologio; scattò in piedi, smarrito. Era trascorsa più di un’ora! S’avviò di corsa verso l’uscita. Dove trovare adesso quella poveretta, che doveva essere arrivata e non sapeva l’indirizzo di casa?

Ma la trovò, per fortuna, nell’ufficio della dogana, dove si visitano i bagagli, che piangeva seduta sul sacco. I doganieri cercavano di confortarla; le consigliavano di andare in questura, non conoscendo essi quell’avvocato moro di cui ella parlava.

– Annicchia!

– Signorino! – gridò la poveretta, levandosi d’un balzo, alla voce.

E per poco non l’abbracciò, dalla gioja. Tremava tutta.

– Perduta, signorino mio, perduta… E come avrei fatto io, se Vossignoria non veniva?

– Ma quel degnissimo galantuomo di mio suocero, – le gridò Mori, – non poteva scriverti l’indirizzo di casa mia su un pezzettino di carta?

– Ma io non so leggere… – gli fece osservare Annicchia, che si sforzava di soffocare gli ultimi singhiozzi e si asciugava le lagrime.

– Cose da pazzi. Avresti potuto dare l’indirizzo a un vetturino, senza che m’incomodassi io a venire. Del resto son venuto. Ero dentro la stazione. Non mi sono accorto dell’arrivo del treno. Basta.

Montando in vettura, le raccomandò:

– Non far parola a mia moglie di quest’incidente. Succederebbe un caso del diavolo.

Trasse di tasca un altro giornale e si mise a leggere.

Annicchia si restrinse, per occupare nella vettura quanto meno posto le fosse possibile. Provava una gran soggezione, seduta lì, accanto al padrone, sola con lui. Ma fu per poco. Era addirittura intronata dal lungo viaggio, dalle tante e nuove impressioni che le avevano tumultuosamente investito la povera anima, chiusa finora e ristretta là, nelle abituali occupazioni dell’angusta sua vita. Non ricordava più nulla; non pensava, non vedeva più nulla; sentiva soltanto il sollievo d’esser giunta, finalmente; d’aver superato il terrore della traversata sul piroscafo da Palermo a Napoli, lo sgomento della furia del treno. Ov’era giunta? Si provava a guardar fuori della vettura; ma gli occhi le dolevano. Avrebbe avuto tanto tempo di veder Roma, la grande città dov’era il Papa! Intanto, già si trovava accanto a uno ch’ella conosceva, e tra poco avrebbe riveduto la «signorina sua» e si sarebbe di nuovo sentita quasi nel suo paese. Sorrise. Le si affacciò per un istante al pensiero il figliuolo lontano, la vecchia suocera, ma ne scacciò subito l’immagine per il bisogno istintivo di non turbarsi quel momento di sollievo dopo le lunghe sofferenze angosciose del viaggio.

– A Napoli, – le domandò a un tratto il Mori, – è venuto qualcuno a rilevarti sul piroscafo?

– Ah, sissignore! Un galantuomo! Tanto buono… – s’affrettò a rispondergli Annicchia. – Anzi mi ha comandato di salutarla.

– Ti ha comandato?

– Sissignore, di salutarla.

– Ti avrà pregato.

– Sissignore; ma… un padrone mio…

Ennio Mori sbuffò e si rimise a leggere il giornale.

– Medicina, medicina!

– Come dice? – arrischiò, timidamente, Annicchia.

– Niente: parlo con me.

Annicchia rimase un po’ perplessa, poi aggiunse:

– Anche a Palermo è venuto alla stazione un altro galantuomo che mi ha poi accompagnata fino al vapore: tanto buono anche lui.

– E t’ha comandato anche lui di salutarmi?

– Sissignore, anche lui.

Il Mori abbassò su le gambe il giornale, si aggiustò sul naso le lenti e le domandò, accigliato:

– Tuo marito?

– Sempre là! – sospirò Annicchia. – All’isola! Ah, se Vossignoria che sta qui a Roma, che c’è il Re…

– Sta’ zitta! – la interruppe, di scatto, il Mori, come se, nominando il re, quella poveretta gli avesse pestato un piede.

– Basterebbe una parolina… – osò d’aggiungere Annicchia, sommessamente.

– Cose da pazzi! – sbuffò di nuovo il Mori, così urtato, che spiegazzò il giornale che teneva su le gambe e lo buttò fuori della vettura. – Credi che ci abbiano mandato soltanto tuo marito, a domicilio coatto? Ci mandano anche noi!

– I signori? – domandò Annicchia, stupita e incredula. – Come ce li mandano i signori?

– Sta’ zitta! – replicò il Mori, a cui riusciva addirittura insopportabile quella supina ignoranza.

E si mise, fosco, a riflettere su l’impresa disperata di dare una nuova coscienza a quell’infima gente della sua Sicilia, in cui era così profondamente radicato il sentimento della servilità.

La carrozza, alla fine, giunse in Via Sistina, ove il Mori abitava.

Ersilia era ancora a letto. Sotto il roseo parato a padiglione dell’ampio letto, tra il candore dei guanciali e de’ merletti, appariva più bruna di carnagione, quasi nera, immagrita com’era dalle doglie del recente parto.

Annicchia corse ad abbracciarla festosamente.

– Signorina! Signorina mia! Eccomi qua… Mi pare un sogno! Come sta? Ha sofferto molto, è vero? Oh, figlia mia! Si vede… Non si riconosce più… Mah, così vuole Dio: noi donne siamo fatte per patire.

– Un corno! – protestò Ersilia. – Che stupide, le donne… Tutte così! Ci provate gusto, è vero? a ripetere che noi donne siamo fatte per patire. E a furia di ripeterlo, eccoli qua, i signori uomini, credono davvero, ades so, che nojaltre dobbiamo stare al loro servizio, per il loro comodo e per il loro piacere. Noi le schiave, è vero? e loro i padroni. Un corno!

Ennio Mori, a cui era diretta la botta, ripiegò furiosa mente il terzo giornale, sbuffò e uscì dalla camera.

Annicchia guardò la padrona, un po’ impacciata, e disse:

– Anche loro, poveretti, hanno tanti guaj…

– Dormire, mangiare e andare a spasso. Vorrei fare un po’ il cambio, io. Ah, uomo, uomo, e cieco d’un occhio!

– Certo, quando abbiamo finito da poco di patire per loro…

– No, sempre! Li odio tutti!

A questo punto, s’intese dall’altra parte un grido di Ennio Mori:

– L’universo mondo!

A cui rispose un altro grido:

– Eccomi, signorino! Mi comandi.

Ersilia scoppiò a ridere e spiegò ad Annicchia:

– Ho la serva sorda. Appena si grida un po’, si sente chiamata. Margherita! Margherita!

Su la soglia si presentò la vecchia sorda, con un’aria tra di offesa e di stralunata. Di là, il Mori, con gli occhi fuori del capo, le aveva fatto un gesto… un certo gesto sguajato.

– Senti, Margherita, – riprese Ersilia. – Questa è la balia, arrivata adesso… adesso, sì. Bene: ora tu insegnale la sua camera. Hai capito? Andrai a lavarti, – aggiunse, rivolgendosi ad Annicchia, – sei tutta affumicata.

Annicchia sporse il capo per guardarsi nello specchio dell’armadio e subito esclamò, con le mani per aria:

– Mamma mia!

Il fumo della ferrovia e le lagrime versate alla stazione le avevano insudiciato il volto. Prima d’andare a lavarsi, volle però raccontare alla «signorina sua», con vivacissimi gesti e frequenti esclamazioni, che facevano sbarrare tanto d’occhi alla serva sorda, le peripezie del viaggio di mare, poi di quello in ferrovia, e come a un certo punto, sentendosi scoppiare il seno per la furia del latte, si fosse messa a piangere come una bambina. I compagni di viaggio le domandavano che avesse; ma ella si vergognava a dirlo; alla fine, quelli capirono; e allora un giovinastro le propose di succhiarle lui il latte – malcreato! – e già le stendeva, ridendo, le mani al petto. Ella, gridando, aveva minacciato di buttarsi dal finestrino del vagone. Ma poi, per fortuna, alla prima fermata del treno, un vecchio ch’era lì accanto a lei, l’aveva condotta a un altro scompartimento, dove c’era una donna che aveva con sé una bambinuccia di tre mesi, misera misera, alla quale finalmente aveva potuto dar latte, sentendosi man mano rinascere.

Ersilia credeva d’aver già preso l’aria della «continentale» ed ebbe perciò fastidio di quelle vive, ingenue espressioni di pudor paesano.

– Basta, a lavarti, ora! Poi mi dirai della mamma e del babbo. Va’, va’.

– E il bambinello? – chiese Annicchia. – Non me lo vuol far vedere? Lo vedo e me ne vado.

– Là, – disse Ersilia, indicando la culla. – Ma tu no, non toccare il velo con le mani sporche. Su, Margherita, faglielo vedere.

Tra tanta ricchezza di nastri, di veli, di merletti, Annicchia vide un mostriciattolo dal volto paonazzo, più misero di quella bimba a cui aveva dato latte in treno. Pure esclamò:

– Bello! Bello! Coruccio mio, dorme come un angioletto… Vossignoria vedrà quanto glielo farò diventare… Anche il mio Luzziddu era nato così, piccolo piccolo, e ora, se lo vedesse!

S’interruppe, commossa:

– Vado e torno, – poi disse; e seguì la serva nell’altra camera.