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TRAMONTANDO IL SOLE
A Enrico Nencioni
I.
– Chiarina, ti presento un amico, Giovanni Serra – disse la padrona di casa, mentre Serra faceva un grande inchino.
– Oh Anna, ma io lo conosco! – esclamò Clara Lieti, vivacemente, stendendogli la mano con un atto famigliare.
– Veramente? E come? – soggiunse Anna, con quel falso interesse mondano, che copre di amabilità la perfetta indifferenza.
– Da vari anni… da moltissimi anni… da un numero infinito di anni, lo conosco – e Clara finì con una risatina squillante.
– Non tanti, poi, signora Lieti – osservò Giovanni Serra, quasi facendo una correzione di pura cortesia.
– Allora, tutto va bene, vi lascio insieme – concluse la gentile e frettolosa padrona di casa, allontanandosi verso gli altri gruppi che popolavano il suo salone.
Serra restò in piedi, presso la signora Lieti: e taceva. Malgrado la luce bonaria dei suoi occhi azzurri, la sua fisonomia aveva qualche cosa di austero, che contrastava con la mondanità dell’ambiente.
– Non sedete? – chiese Clara, reprimendo un breve moto d’impazienza.
Egli ebbe una fugace esitazione; poi, si sedette in una poltroncina, accanto a lei. A poca distanza da loro, tre signorine chiacchieravano e ridevano con due giovanotti.
– Perchè vi siete fatto presentare? – domandò Clara a Serra, rompendo il silenzio, parlandogli con una intonazione più intima nella voce.
– Non sono stato io. Mi ha detto, la signora Anna: venite, vi presento a una donna di spirito.
– Sono io, disgraziatamente…
– Come, disgraziatamente?
– Lo spirito è una gran disgrazia, per una donna – ella sentenziò, con una di quelle tetraggini improvvise che le oscuravano la sorridente faccia.
– Perchè, signora? E un dono affascinante, un dono conquistatore…
– Per conquistare che?
– I cuori degli uomini.
– Bella conquista!
– Non l’apprezzate più?
– No, Serra – ella disse, profondamente.
Egli la guardò, ma senza stupore. Si vedeva che non le credeva. Ella abbassò le palpebre, per celare un lampo d’ira passeggiera nei suoi dolci, ma anche fieri occhi castani.
– Mi duole, che vi abbiano presentato… – mormorò, poi, quasi parlando a sè stessa.
– Lo ripeto, non è colpa mia.
–… come se foste un estraneo – ella soggiunse, vagamente – mentre io ho pensato a voi… spesso…
– Oh! – disse lui, con una incredulità modesta e cortese.
–… molto spesso – ella terminò, senz’aver l’aria di accorgersi della sua negazione.
– E come mai? – domandò lui, con un po’ d’ironia, niente altro.
– Così – disse Clara tristemente e brevemente.
Giovanni Serra abbassò gli occhi, quasi celando una domanda che si potea forse leggere nel suo sguardo. Di lontano, mentre attraversava il salone per pregare una signora di cantare, Anna mandò loro un sorriso: li vedea discorrere, era contenta di aver bene collocati due suoi ospiti.
– Voi non credete alle voci interne dello spirito? – ella gli chiese, guardandolo fiso, con quei suoi occhi che il pensiero rendea più oscuri. – Voi non avete inteso che io pensava a voi?
– No, signora.
– Non credete a queste voci, o non ne avete inteso?
– Io ci credo, come credo purtroppo, a tutte le cose sentimentali: ma nulla mi ha detto nulla – e sorrise.
– Peccato! peccato! – ella soggiunse, a bassa voce.
Cantavano, adesso. Era una signora bionda e fine che, in giovinezza, si destinava al teatro e che un felice matrimonio aveva tolta al palcoscenico. Ma ella cantava dovunque, sempre, appena le domandavano di cantare, posando il suo manicotto o il suo ombrellino, levando la testolina dal colletto di pelliccia che ornava la sua mantellina, come un uccelletto canoro che vive del suo canto e morrebbe, se non cantasse. Tutti tacevano, nel salone: donna Clara Lieti ora guardava la cantatrice, quasi non volendo perdere una espressione di quel volto, sereno nella soddisfazione del canto. Poi, voltandosi verso Serra, pianissimo, gli disse, con un sorrisetto malizioso, tutta mutata nel viso:
– Non vi siete ammogliato, poi?
– Io? E perchè avrei dovuto ammogliarmi?
– Dicevano…
– Voi ci avete creduto? – egli le chiese, mostrando per la prima volta una ansietà nel viso.
– No, mai.
– Volevo dire – replicò lui, tranquillizzato.
– Mai creduto, mai – riprese Clara, sorridendo. – Poteano passar gli anni, potevate viaggiare, cambiar paese, cambiar viso, dimenticare la patria, ma ammogliarvi, no!
E le balenò il trionfo, nel viso. Egli si ritrasse: una espressione di austerità, di nuovo, gli chiuse il volto.
– Siete fedele, voi – esclamò lei, ridendo.
– Io, sì – replicò, a occhi bassi, duramente.
– Fedele, quand même – e rideva sempre più.
– Quand même, no, signora Lieti.
– Vale a dire?
– Vale a dire che il fedele quand même, è l’uomo che seguita ad amare, anche se è schernito, o vilipeso, o abbandonato. A me non è accaduto nulla di questo.
– Come? – diss’ella, diventata grave.
– Io non ho amato nessuna donna frivola o perfida…
– Oh sì, Serra, voi avete amata la più frivola e la più perfida fra le donne! – ella esclamò, pianissimo, con un velo di lacrime negli occhi.
– Che importa quella? Io ne ho amata un’altra – egli dichiarò pianissimo, guardando innanzi a sè, come se vedesse la visione di una creatura incorporea.
– Ahimè, sono la medesima persona – Clara disse, pianissimo, con una mortale tristezza.
– Per me, no.
– È una illusione, Serra. Ella era cattiva, e voi avete gittato il vostro cuore.
– Il mio cuore serba un divino ricordo, un ricordo ideale a cui resta fedele: e giacchè tutto si riassume e si risolve in illusione, signora, io preferisco la mia.
– E la donna umana, la donna terrena, quella fatta di ossa, di carne e di nervi, quella che vi ha fatto soffrire e vi ha fatto piangere, l’avete dimenticata, Serra?
A questa domanda così diretta, così limpida, che Clara gli faceva, con voce pianissima, ma tremante, egli rispose subito, pianissimo, ma senza tremare:
– No, per molto tempo.
– Per quanto tempo?
– Per cinque o sei anni, credo, portai questo tormento. Dopo, ebbi una grave malattia. Quando guarii, ero guarito anche del mio segreto tormento.
– Guarito? Completamente?
– Sì, signora, completamente.
– Felice? Felice?
– Sono come un uomo liberato da una grave e crudele croce. Quando la depone, egli si sente mortalmente stanco: e, forse, si domanda, se quella croce non era la sua vita.
– Non so che farei, per vedervi felice, Serra – essa gli mormorò, pianissimo, con tenerezza.
– Quando volete, sapete anche esser buona.
– Non siate così amaro. È da un’ora, che vi parlo con la più grande dolcezza.
– È così strana, per me, la cosa, che non la capisco.
– Perchè siete così ironico? Non sentite che vi parlo a cuore aperto?
– Quale cuore, donna Clara?
– Il mio cuore.
– Quello di dieci anni fa?
– Quello di oggi, Serra.
– Io non lo conosco, donna Clara.
– È un cuore pieno di umiltà e di tenerezza.
– E perchè?
– Così. Perchè la gente si stanca di essere cattiva, si disgusta della propria perfidia, ha la nausea di sè stessa!
– Pare impossibile, donna Clara.
– Non mi chiamate così!
– Non è il vostro nome? Il vostro bel nome luminoso e glorioso?
– È il duro nome di altri tempi; chiamatemi: Chiarina.
– Vi chiamerò: signora.
– Non siate così duro, Serra, ve ne prego.
– Io non sono che rispettoso.
– Il vostro rispetto è freddezza, è sarcasmo. Sapete che odio questa battaglia di freccie avvelenate.
– Signora Lieti, perdonatemi, se vi ho irritata.
– Non mi avete irritata, mi avete addolorata.
– E da quando in qua voi soffrite, signora?
– Ah il dolore è delle più trionfanti creature, sappiatelo! – ella disse, battendo le palpebre per diradare le sue lacrime.
Giovanni Serra tacque.
– Scusatemi, se vi ho detto qualche parola pungente – egli riprese, sottovoce. – Ma la vostra dolcezza, inaspettata, improvvisa, mi ha sconvolto. Perdonatemi. Nessun cuore vi è più devoto del mio, signora.
Ella lo guardò. Il pallore e la tristezza di quel bel volto di cui egli aveva adorato la gaiezza, lo colpirono. Anna si avanzava, tutta contenta, attraverso la gente che discorreva un po’ qua, un po’ là, ma riunita secondo le simpatie o gli interessi.
– Ebbene, sono rifioriti i ricordi? – chiese, mostrando i suoi bei denti bianchi di donna grassottella, elegante, fredda e felice.
– Rifioriti, certo – disse, levandosi, Clara.
– Viole mammole? Rose bianche?
– Crisantemi, crisantemi, Anna! – e sulla tetra parola fece una gran risata, si licenziò con un sorriso da Serra, con una stretta di mano da Anna, attraversò il salone, salutando ancora qualcuno ed escì.
Donna Clara Lieti, sotto l’atrio del gran portone magnatizio, in piazza Santi Apostoli, sentì un gran freddo. Erano gli ultimi di febbraio: ma sovra, nel salone, il caminetto era acceso, tanta gente vi si agitava, sotto le lampade coperte dai larghi paralumi rosei. Giù la via era fredda, nella prima ora della sera: nè via Santi Apostoli è molto frequentata. Ella affrettò il passo, chiudendosi meglio nella sua giacchetta di lontra, abbassando la faccia sotto la veletta, stringendo le mani nel manicotto. Tutto quello che era accaduto, sopra, da Anna, le appariva molto confusamente in questo primo momento di solitudine; ma a traverso il tumulto delle sue sensazioni, ella sentiva, nitidamente, tutta l’amarezza di una delusione. Come, perchè? Avrebbe forse preferito che Giovanni Serra le avesse parlato del passato, scherzando, come qualunque altro uomo avrebbe fatto, violando, nella realtà del presente e dell’oblio, tutta la sentimentalità di un grande e violento amore? No, lo scherzo l’avrebbe offesa intimamente, dandole una delusione. Avrebbe ella preferito che Giovanni Serra, l’uomo che ella avea ragione di stimare come il più leale che avesse incontrato mai, fingesse, innanzi a lei, un rimpianto che non sentiva? No, ella avrebbe inteso l’ipocrisia e ne sarebbe stata tristemente delusa. Avrebbe ella preferito che egli le facesse una scena violenta, come nei tempi in cui ella infliggeva a un amore giovane, onesto e ingenuo le torture di una glaciale civetteria e le perfidie di una fantasia muliebre mobilissima? Chi sa! Ella non sapeva bene che cosa avrebbe preferito, in quell’incontro con l’antica sua vittima, se l’oblìo assoluto, o la menzogna gentile, o il rinfocolarsi della passione: ma quello che era accaduto, non le piaceva. Era scontenta e triste. Sentiva di aver fatto troppi passi sovra un terreno infido, su cui aveva vacillato varie volte: e si pentiva della via intrapresa, così, obbedendo a non so quale segreto impulso del cuore. E dire che da tanto tempo, nel mistero della sua anima, ella si preparava a un incontro con Giovanni Serra; dire che aveva tanto desiderato, mitemente desiderato questo incontro e pensato con umiltà, con tenerezza, tutte le cose umili e tenere che gli avrebbe dette; dire che ella aveva tanto creduto all’effetto della bontà e della dolcezza, sovra un cuore che ella aveva abbeverato di fiele! L’incontro vi era stato, ma stupidamente combinato, senza poesia; ella aveva detto le cose umili e le cose tenere, ma le aveva dette male ed egli non le aveva credute; era stata buona e dolce, e non aveva fatto che tentarlo dolorosamente, rammentandogli i dolori passati. Ah come era triste, e scontenta, e affaticata, e infinitamente delusa, di tutto quello che era accaduto!
– Queste cose del passato, forse, bisogna lasciarle stare – pensò fra sè, e un sospiro le uscì dal petto.
Per andare al Corso ella non aveva osato, a quell’ora, prendere la via dell’Archetto che è deserta e male illuminata: così, aveva attraversato tutta la via Santi Apostoli, sul marciapiede, uscendo a piazza Venezia. Pensò se non fosse meglio, per rientrare in casa sua, in via Babuino, prendere una carrozza. Ma la folla, di quell’ora, al Corso, la rincorò: la sua vivace immaginazione ricevette una impressione, immediata, di distrazione.
– Non ci pensiamo – disse ancora fra sè, sentendo in fondo all’anima una delusione infinita.
Così, camminò lungo le botteghe fulgidamente illuminate, guardando con occhio distratto le vetrine. Quanto si pentiva di essere stata così affettuosa e così dolce, con Giovanni Serra! No, non avrebbe mai voluto apparirgli leggiera, frivola e schernitrice, come dieci anni prima; ma avrebbe dovuto trattarlo con disinvoltura, ecco, come se nulla fosse stato. Come un altro indifferente qualunque. Quasi quasi aveva tentato di farsi fare una dichiarazione d’amore, da lui! Quasi quasi gliene aveva fatta una, lei! E quello, intanto, glielo aveva detto così chiaramente, che non l’amava più! E tutto lo scetticismo naturale e giusto, che egli aveva alimentato nel cuore dieci anni, non era sgorgato, quando quasi quasi ella gli aveva detto di amarlo! Ora, nella via, Clara Lieti, soffriva atrocemente nell’orgoglio. Quasi aveva chiesto e non aveva ottenuto: quasi si era abbandonata ed era stata respinta. Un’ira si mescolava alla delusione; ella camminava più presto, internamente esaltata dalla ferita che aveva scoperto alla sua superbia. Poi, camminando, ad un tratto, l’ira cadde:
– Bene mi sta – pensò. – Raccolgo quel che ho seminato. Giovanni ha ragione.
Un uomo la raggiunse: erano in piazza San Marcello.
– Signora, buonasera… – e si cavò il cappello, mettendosele accanto.
Era Giovanni Serra. Un po’ pallido, niente altro.
– Buonasera – ella rispose, con voce stanca. – Siete venuto via?
– Sì: avrei voluto scendere con voi di là… ma siete fuggita, così… e poi, si poteva notare…
– Oh, non importa! – diss’ella con un sorriso amaro.
– A me, importa.
La voce di Giovanni pareva meno breve, meno secca. Evitava di guardare Clara.
– Posso accompagnarvi, un poco? – le chiese, frenando il tremore di emozione che lo vinceva.
– Sì, sì, anche molto.
– Non seccherà nessuno?
– Chi, nessuno?
– Qualcuno che vi ami e che voi amiate.
– Io non amo nessuno e nessuno mi ama, Serra – ella rispose, freddamente.
– Non è possibile, signora.
– Oh è possibilissimo, credetelo.
– Voi mi parete una donna degna dell’amore di tutto il mondo – e la guardò con un impeto di ammirazione, in cui parve risorgesse l’uomo di dieci anni prima.
– Siete stato sempre molto esagerato, per me, Serra – continuò ella a dire, con un freddo e triste sorriso – e mi avete abituata male. Vi assicuro che la gente fa di meno di amarmi, senza nessuno sforzo.
– Non vi conoscono – egli disse, a bassa voce.
– Anche chi mi conosce. Specialmente chi mi conosce.
– Siete in un periodo di pessimismo, signora.
– In verità, Serra, niuno pensa di me tutto il male che io ne penso. E sì che tutti mi giudicano assai mediocremente.
– Non parlate così – egli mormorò.
– Voi stesso, Serra.
– Io ve ne domando perdono. Ero tanto turbato… mi avete parlato in un modo così strano…
– Già: è la mia nuova maniera, quella di esser buona – disse Clara, con un sorrisetto amaro e gelido – ma mi riesce poco, come vedete.
– Fare il male, vi piaceva di più? – egli le chiese, chinandosi a guardarla attentamente, come quando gli parea intravvedere la verità di quell’anima femminile.
Ma ella schivò la confessione. Rispose, di scatto:
– Piaceva di più agli altri.
– La perfidia? A chi, dunque?
– A voi.
– A me?
– Proprio. Se io fossi stata una buona e affettuosa donnina e non una civetta infernale, se fossi stata un’anima pia e tenera e non una beffarda e arida creatura, mi avreste amata ben poco, credetemi – e le lampeggiarono gli occhi, come in quei tempi in cui egli delirava per quegli occhi.
– Se voi foste stata non buona, ma umana, semplicemente umana, Clara – egli disse, a voce bassa – allora, voi non avreste disfatta la mia vita.
– Veramente, disfatta? Mi sembra che stiate benissimo – e sogghignò.
– Io non mi lagno, signora – rispose Serra, semplicemente, ma senza durezza – e non vi rimprovero.
Ella lo guardò, in silenzio. Veramente, in quel momento, mentre attraversavano piazza Colonna tutta fulgida di lumi, Giovanni Serra le parve invecchiato. Su quegli occhi azzurri che ogni tanto aveano qualche cosa d’infantile, parea che veli e veli di lacrime fossero passati, nell’ombra e nella solitudine, quando l’uomo può lasciar erompere il suo dolore, oltre le dighe della fierezza. Su quelle labbra si era posata una stanchezza che ella soltanto ora scorgeva, la stanchezza di aver invano chiamato un nome, di aver invano invocato un bacio, di aver invano singhiozzato, nelle ore solinghe dell’abbandono. Per la prima volta, e con una intensità profonda, ella sentì che vi hanno ferite che non si chiudono mai, e sentì che il tempo può portare via una vita, ma non può portare via un dolore da un uomo vivente.
– Quanti anni avete, ora, Serra?
Ella lo chiedeva, così, vagamente, tristemente.
– Trentaquattro, signora.
– Un uomo è giovane, a questa età.
– Anche una donna – egli disse, cortesemente.
Clara ebbe un lieve moto della testa. E con una infinita tristezza, soggiunse:
– Io non ne ho più trentaquattro, amico mio.
– No? Non eravamo coetanei?
– Eravamo? Non siamo più. Io ho centotrentaquattro anni, credo. È incalcolabile quanto io sia vecchia, Serra.
E mentre ella si abbandonava a quest’asserzione, piena di un vero dolore – ella soffriva moltissimo d’invecchiare – tendeva l’orecchio, a raccogliere la contraddizione. Ma egli non contraddisse; disse, con un ritorno di candore ammirativo:
– Per me, non sarete mai vecchia.
– Vecchissima, vecchissima! – insistette lei, a denti stretti.
– Non dite questo, non lo credete: io non lo credo.
– Io ho dei capelli bianchi, fra i neri.
– Ma non si vedono: io non li vedo.
– Perchè li nascondo o li mostro con disinvoltura. Se mi guardate bene, di giorno, ho una quantità di piccole rughe, accanto agli occhi e accanto alle labbra.
– Non si vedono; io non le vedo.
– Perchè rido sempre. Ma se sono triste, non so come, i miei capelli bianchi appariscono subito e le mie rughe si vedono tutte, sottili, che tagliano leggermente la pelle, visibilissime. Che orrore!
Aveva detto questo in fretta, eccitata, come una persona che si confessa di un suo grave errore, piena di dolore, con una brutalità di particolari, che le rendean fischiante, quasi flagellante la voce.
– Io vi vedrò sempre come vi ho amata, Clara – egli le rispose, con la sua buona voce consolante.
– Ah io sono vecchia, Serra: nessuno mi ama più e nessuno mi amerà più! – gemette ella, levando il manicotto, sino alla bocca, a soffocare un singhiozzo.
Turbato sino al profondo del cuore, egli non trovò parole per esprimere il suo pensiero. Forse non ne aveva neppure uno preciso, in quell’agitazione di sentimenti. Delicatamente, con una tenerezza paterna, egli le prese una mano guantata e la carezzò fra le sue:
– Poveretta, poveretta!
– Se sapeste, se sapeste! – ella balbettò, al massimo dell’emozione.
– So… so qualche cosa… – e il calore della piccola mano che egli sentiva, dall’apertura del guanto, aumentava immensamente la sua confusione.
– Se potessi dirvi… amico mio… se potessi dirvi tutto – ed affannava, come se i più terribili segreti la soffocassero.
– Tacete… non dite niente – egli le susurrò, all’orecchio.
– Che bene mi farebbe il parlare, amico mio! ah io mi sento affogare. Da anni e da giorni, io vorrei gridare, urlare, pur di gittar via la mia pena.
E lo guardava con occhi così dolorosi e così interrogativi, così invocanti un orecchio pietoso alle confidenze, che egli si arretrò. Era pallidissimo: ma Clara, nell’egoismo della sua angoscia, non se ne accorgeva.
– Non potrei ascoltarvi, Clara.
– E perchè, e perchè?
– Così: non potrei.
– Non mi siete amico, allora?
– Sì, vi sono amico – e parlava con un evidente sforzo.
– E non vorreste confortarmi?
– Vorrei, vi giuro che lo vorrei; ma così, non posso.
– Che crudele siete! Voi sapete che se io potessi dirvi la mia croce, essa sarebbe meno schiacciante, meno pesante; voi sapete che se io potessi piangere accanto a voi, a lungo, a lungo, piangere immensamente, infinitamente, queste lacrime mi laverebbero da ogni torbido proposito: e mi negate questo sollievo. Ah siete un crudele! Non eravate, crudele!
Si erano fermati all’angolo di via Babuino, dopo aver attraversata piazza di Spagna. Egli la guardava, immobile, con gli occhi pieni di dubbio.
– Ma che donna siete voi, Clara, che non dovete intendermi nè prima, nè poi? Io, vi debbo consolare, quando tutto il tempo della vostra gioia è stato dato ad altri? Io? Chi sono io? Niente, nessuno Così avete voluto che io fossi: niente e nessuno.
– Avete ragione – ella disse, domata a un tratto, caduta nella rassegnazione e nell’umiltà.
– Non vi rammentate che vi ho adorata come uno schiavo e che avete battuto sul mio cuore, come si batte sul dorso di uno schiavo? Non vi rimprovero, non mi lamento: ma voi mi domandate anche della pietà, voi che non ne avete avuta mai!
– Avete ragione – Clara ripetè, umilmente.
– Vi rammentate, Clara, che vi ho voluto bene così teneramente e che non me ne avete voluto mai? Vi ricordate che avete lasciato che io vi amassi, incoraggiandomi talvolta, talvolta avvilendomi, facendomi passare dalla gioia alla disperazione, in un giorno, e non volendomi bene mai, mai, nè prima, nè dopo, nè mai? È vero, o no?
– È vero, è vero – ella annuì, chinando il capo, fatta quasi più piccola dall’annichilimento, in cui la gittavano il rimorso e il rimpianto.
– Vi rammentate, Clara, che ne avete amato un altro, me presente, che avete voluto che io lo sapessi, che me lo avete detto, ridendo?
– Sì, sì, è vero.
– E ora, Clara, ora che sono passati dieci anni, ora che voi avete mutato il vostro cuore, come dite, ora voi siete come allora, voi volete che io vi conforti, perchè un altro vi ha lasciata. Voi siete crudele come in quel tempo, Clara: allora ridevate, adesso piangete, ecco la differenza!
– Scusatemi – ella mormorò, nel colmo dall’avvilimento.
– Ma io sono un uomo, Clara, e se posso avere spezzato il mio cuore, se posso aver vinto ogni desiderio e ogni speranza, sono sempre un uomo, e voi non mi potete raccontare i dolori, che vi ha dato l’amore di un altro!
– Perdonatemi!
E fece l’atto di volergli prendere la mano. Ma egli la ritrasse.
– Non mi avrete capito, mai, Clara. Morirò, ma non saprete nulla di me – concluse egli, più freddamente, essendo giunto quasi a vincere la sua emozione.
Così camminarono in silenzio verso la casa di Clara. Ella andava a capo basso, sentendo di avere errato ancora, di avere inutilmente violato la fierezza del proprio cuore, mostrandone il segreto dolore, a un uomo che non poteva avere pietà di lei: sentendo di avere nuovamente offeso quel cuore che era stato così intieramente suo e che ora non aveva più forza pel desiderio, avendone solo per la dignità. Più amaro crebbe in lei il rimpianto, comprendendo di essere passata accanto all’amore, alla devozione, alla dedizione più completa, senza accorgersene, abbandonando alla solitudine, all’angoscia questo cuore inutilmente devoto e inutilmente affezionato. Era troppo tardi, oramai, anche per far risorgere in questo cuore una mite affezione: troppo tardi, per ridare a questo cuore la bella luce della fiducia. Due volte, quasi fosse sola, ella fece un piccolo cenno definitivo, con la mano aperta che pendeva lungo la gonna e le cui dita pareva avessero lasciato andare un piccolo e prezioso tesoro. Camminavano accanto: ma ella che non aveva mai capito chi egli fosse, intendeva che le loro strade erano diverse. Quando furono innanzi al portone, si fermarono. Egli aveva l’aspetto più stanco che mai; ma niuna durezza vi fu nello sguardo con cui la fissò.
– Buonasera – ella disse, con un’intonazione monotona.
– Buonasera – egli rispose, cavando il cappello e facendole un grande saluto.
Ma non si lasciarono subito. Parea che si dovessero dire qualche altra cosa. Parea che ambedue sapessero di non doversi veder più e che una qualche cosa, più intima, più misteriosa, si dovessero dire. Ella gli stese la mano: egli la rattenne un poco fra le sue, ma senza stringerla. Ambedue sedavano a stento il tumulto delle loro anime. Poi, a un tratto, egli le domandò una cosa strana, impensata:
– Che fate ora, sopra?
– Io? Nulla.
– Qualcuno vi aspetterà?
– No. Nessuno.
Il tono era della più perfetta franchezza.
– E voi, che fate? – chiese ella con eguale incoscienza.
– Vado a casa.
– A casa! E che ci farete?
– Non so.
– Buona sera, Giovanni – ella mormorò, facendo per andarsene.
Ah, quale sussulto, lo scosse! Ella che aveva sempre trovato antipatico, brutto, volgare il suo nome di battesimo, tanto che egli aveva finito per odiarlo, ella lo pronunciava adesso, dopo dieci anni, con tanta soavità! Egli s’inchinò e le baciò la mano, leggermente. Si guardarono: ella volse le spalle; pian piano entrò nel portone, cominciò a salire le scale. Non era forse incerto il passo della donna, salendo per quelle scale, alla sua casa deserta? Il passo dell’uomo era incerto, andando alla sua casa deserta.