Kitabı oku: «Lo Spirito Del Fuoco», sayfa 10
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Era quasi un'ora che camminavano e le voci ormai si erano fuse in un unico e continuo rumore. Ogni tanto, qualche risata acuta o un urlo riportavano Jack alla realtà.
Voleva evadere da quell’orribile prigione di persone, il prima possibile. Le tempie pulsavano frenetiche, le orecchie scoppiavano e l’unica cosa che bramavano era l'assoluto silenzio.
Trasportato ormai dagli odori e dalle urla, il giovane stava pian piano perdendo i sensi. Una mano gli strinse la gamba scuotendolo leggermente.
«Siamo quasi arrivati, resisti», lo incoraggiò Santos dimostrandogli comprensione.
Sfinito, Jack annuì con il capo cercando di farsi forza. Provò a rimettere a fuoco ogni cosa. Tutto, intorno a lui, si era mescolato in un’unica immagine confusa.
Le teste incappucciate tutte uguali, veloci e frenetiche, le forti risate dei nani e l'odore pungente dei fumi delle loro lunghe pipe incise nel legno. Per non parlare del tanfo di sudore ed escrementi che, alternandosi di via in via, gli opprimeva le povere e ormai esauste narici.
Agli angoli delle vie, dalle più grandi alle più piccole e buie, numerosi mendicanti scheletrici, ricoperti di sudici e ammuffiti stracci, seguivano il cammino della folla.
Tra la confusione d’immagini, i flash dei suoi cari lo accompagnavano ormai da diversi minuti. Tutto era fuori dalla sua portata, quasi come se la Grande Costellazione gli stesse facendo capire in ogni modo che quello non era il suo posto, che il mondo a cui apparteneva era lontano e doveva tornarci al più presto. Sapeva però che se era lì un motivo c’era e tutto il disorientamento, la stanchezza e i dolori, per quanto impliciti, non bastavano a far sì che ogni cosa tornasse al proprio posto.
Era uno straniero in mondi sconosciuti, aveva un compito e, nella confusione più totale, stava nascendo in lui la consapevolezza sempre più forte di dover adempiere al proprio destino.
L’astro fermò i cavalli e con delicatezza lo tirò giù.
Dopo aver legato gli animali a una piccola asta di legno pagò un paio di pugni a un grosso nano barbuto dalla lunga veste scarlatta per guardarli. Con il giovane sotto spalla, si avviò in direzione di una palazzina in degrado dalle giallastre pareti consumate dal tempo.
Jack, preda dei suoi malori, non si accorse di nulla. Entro poco, sarebbe svenuto.
Improvvisamente, tutto cessò.
L'aria fresca gli invase i polmoni e i terribili e insopportabili tanfi svanirono dopo alcuni secondi. Delle incessanti grida, solo più un flebile eco in lontananza.
L'astro gli porse la propria borraccia che, con un'energia ritrovata, il giovane gli afferrò dalle mani. Dopo essersi levato frenetico il cappuccio se la rovesciò addosso.
Il contatto con l’acqua, semplicemente paradisiaco.
«Mi sento soffocare, non ce la faccio più!», si lamentò scompigliandosi i capelli come un pazzo.
«Lo capisco, ma ne va della tua incolumità. Non possiamo permetterci che qualcuno, anche il più innocuo degli individui, si accorga di te e cominci a farsi delle domande. Basta poco per far sì che le voci arrivino alle orecchie sbagliate»
«Ma Gult non si è accorto di nulla e alle tue parole ha creduto convincendosi che fossi un astro proprio come te».
Sebbene lo capisse, la priorità di Santos era proteggerlo e i suoi lamenti, giusti e fondati, dovevano ancora aspettare.
«Per quanto grosso e dall’aria minacciosa, è un ingenuo bonaccione. Non è un calcolatore, non si pone domande, è tranquillo, il classico individuo che vive la propria vita senza dar conto al resto. Gli avrei potuto dire qualsiasi altra cosa e ci avrebbe creduto ugualmente. Non tutti sono come lui, anzi, quasi nessuno».
Il suo maestro aveva ragione e continuare a obiettare non sarebbe servito a nulla.
«Il cappuccio è una precauzione necessaria. Per l’aspetto fisico non ti preoccupare, troveremo il modo di camuffare la tua identità. Fino a quel momento, dovrai tenerlo». Terminò l’astro facendogli cenno di rimetterselo.
«Dove siamo?», cambiò discorso Jack passandosi per l’ultima volta le mani fra gli ondulati e bagnati capelli.
«Cerco un amico…», tagliò corto Santos guardandosi intorno.
«Rimani qui e non ti muovere!» gli ordinò avviandosi verso la prima lunga e stretta rampa di scale.
Jack ubbidì poggiando la schiena contro la ruvida quanto umida parete.
C'era qualcosa che ancora non capiva.
Aspettò qualche secondo e si liberò nuovamente dell'indumento. Aveva bisogno di prendere ancora un po’ d’aria. Quella, la terza volta che il suo protettore si assentava lasciandolo solo.
Santos avvertiva qualcosa di strano. Non sapeva cosa, ma il suo istinto raramente sbagliava.
Stava percorrendo la seconda rampa di scale assorto nei suoi timori. Per quanto avesse superato l’addestramento qualificandosi come migliore del suo corso, quella missione iniziava a provarlo.
Fuori dall’accademia, la vita era diversa. Erano pochi anni che aveva conseguito la qualifica. Godendo di una vita molto longeva, agli astri era permesso qualificarsi come protettori della natura solo dopo il primo secolo di vita. Era un passaggio obbligatorio con l’unico scopo di dar modo ai candidati di raggiungere un livello di saggezza elevato per adempiere così ai compiti delicati a cui venivano sottoposti una volta promossi.
Salendo, la luce diminuì sempre più a causa delle grosse assi di legno incastonate sulle finestre. Non se la ricordava così quella palazzina. Anni addietro, era la casa di Gabriel, suo migliore amico e ottimo compagno di avventure. Apparteneva alla sua famiglia da sempre. Ottime persone che poi, giunti a una certa età, avevano deciso di trasferirsi su Rull, il pianeta boscoso, per godersi gli ultimi anni della loro vita in pace e lontani dalla frenesia del distretto del mercato. A differenza dei genitori, Gabriel non era partito.
Santos aveva accolto con felicità quella decisione e tra quelle mura, per anni, aveva passato insieme a lui momenti indimenticabili. Donne, giochi e interminabili discorsi a far sfondo a una forte se non indistruttibile amicizia.
Ora, quel luogo, che tanto suscitava bei ricordi in lui, sembrava abbandonato da diverso tempo.
I pavimenti sporchi ricoperti di polvere e di feci di animali non rendevano alcuna giustizia a quelle antiche mura. Qualche grosso topo scappò via al suono dei suoi passi e l'odore, già pungente, continuò a inasprirsi al suo continuo avanzare.
Improvvisamente, qualcosa si mosse dietro di lui facendolo scattare come una molla. Un piccolo pipistrello si era svegliato impaurito e, agitato, iniziò a volare in ogni direzione sbattendo sulle pareti.
Nel vederlo, Santos scosse il capo ironicamente cercando di ritrovare la giusta concentrazione.
Lasciatosi il volatile alle spalle, raggiunse il primo piano. Davanti a sé, trovò due piccole porte in legno, ormai marcio, sbarrate come le finestre.
Gli pianse il cuore nel vedere com'era ridotta la casa che con tanta fatica e tanti sacrifici i genitori di Gabriel avevano costruito negli anni.
L’amico era un urano tra i più abili e forti che avesse mai conosciuto. Custodi e protettori del potere dei fulmini, erano una razza forte e dal carattere spavaldo. Crescendo, oltre all'arroganza, aveva mostrato un altro difetto, l’amore per il gioco d’azzardo.
Quando Santos venne chiamato dal Consiglio degli astri per compiere il suo addestramento finale, l’urano, trovatosi solo, si era lasciato andare finendo così in situazioni pericolose.
Ora, dopo anni di lontananza, l’unica notizia che aveva di lui di certo non lo confortava. Trovarlo era di vitale importanza.
Percorse altre due rampe di scale. Raggiunto il secondo e ultimo piano, si ritrovò nuovamente davanti a due piccole porte malconce.
Una delle due, quella alla sua sinistra, presentava un buco al centro delle grosse travi di legno con le quali era stata sigillata.
L’amico, fin da che avesse memorie, aveva sempre provato gusto nello sfondare le porte o altre costruzioni. Era più forte di lui non lasciarle intatte e vedendo i danni sulla porta, riconobbe subito la sua firma.
Entrò.
L’aria era quasi irrespirabile e un odore nauseabondo, perfino per lui, regnava sovrano nella grossa stanza buia nella quale si ritrovò dopo essersi districato per entrare.
«Molto tempo è trascorso… Cosa ti porta a cercar un amico ormai dimenticato?» sussurrò una voce dall'oscurità.
«Queste mura mi han visto molte volte negli anni e tu non c'eri…».
Dal buio, nessuna risposta.
«Devo dire che hai coperto bene le tue tracce ma, in un modo o nell'altro, io ti troverò sempre» continuò l'astro guardando nell'ombra.
Solo un tenue raggio di sole, proveniente da una leggera crepa su una grossa asse di legno di una finestra, si faceva strada in quel luogo oscuro e puzzolente.
L'ombra si mosse e una mano blu comparve poggiandosi sull'asse ormai marcia.
«Aspetti visite?» domandò Santos ironico vedendo l'amico sbirciare dalla piccola fessura.
«Vecchie conoscenze…», scherzò Gabriel continuando a osservare la strada sottostante.
«Racconta!»
«Niente, le solite cose, certi signori non distinguono ancora il prestito dal furto.»
«Ma è mai possibile che ti cacci sempre nei guai?», perse la calma Santos ricevendo l'unica risposta che non voleva.
«Non cambierai mai! Sempre pronto a giudicare e rimproverare, vero?».
Del silenzio tombale, solo più un ricordo.
«Ho solo preso in prestito un oggetto e lui si è adirato come una bestia sguinzagliandomi contro le sue guardie!»
«Cartni?» chiese Santos preoccupato.
«Come fai a saperlo?»
«Gult mi ha raccontato un po' di cose… Da quanto tempo stai scappando?».
Era come aveva previsto. L’amico si trovava nei guai.
«Il vecchio Gult… Uomo dal gran cuore ma dalla lingua lunga!»
«Perché ti stanno dando la caccia, Gabriel? Cos'hai rubato di così prezioso da farla durare per così tanto tempo?»
«Io…», l’urano prese una leggera boccata d’aria dalla piccola fessura e si girò verso di lui.
«Io non ho rubato niente, ho preso in prestito se mai e comunque si tratta di un piccolo oggetto antico, una cosuccia che avrei restituito non appena fossi stato libero di usarla».
Gli occhi di Santos, ormai abituatisi all’oscurità, riuscirono a vederlo sfregarsi frenetico le mani sul volto. Una fitta allo stomaco lo bloccò. Solo in poche occasioni aveva visto l’amico così agitato e impaurito. La questione doveva essere delicata più di quel che Gabriel gli voleva far credere.
Tra i nauseabondi odori presenti nella stanza, quello di qualche forte alcolico sovrastò gli altri appena gli si avvicinò.
«Ma con quelle infinite guardie assetate di sangue alle calcagna non ho ancora avuto il tempo…», continuò Gabriel cercando di calmarsi.
«Da quando hai ripreso a bere?»
«Non osare giudicarmi!», tuonò l’urano su tutte le furie.
Nell'ombra, poco più di un ricordo sbiadito di quel che era il suo migliore amico.
«Mi vuoi dire cos'hai preso in prestito?», lo conosceva fin troppo bene e sapeva perfettamente che nel mentire era un vero asso. Con lui però non ci era mai riuscito.
«Il Dente del Mantio»
«Cosa?… Ma tu sei fuori di testa! Il Dente del Mantio è un antico ciondolo custodito dalla famiglia Mang da generazioni, come hai potuto rubarlo?». Santos, ormai fuori di sé.
«Non posso credere a quanto grande sia la tua stupidità. Ora spiegami, cosa te ne fai tu del Dente del Mantio?»
«Lascia stare, non capiresti»
«Ma… come cavolo ragioni? Sei completamente uscito fuori di te questa volta. Hai offeso l'onore del grande eroe, l'onore del padre di Xeng Mang. Non mi stupisco che ti stia dando la caccia in questo modo.»
«Cosa vuoi che sia, io non l'ho rubato, l'ho preso in prestito. Mi serviva solo per fare una cosa, ma come ti ho detto non mi lasciano in pace e non sono ancora riuscito a farla», tremò la voce dell’urano, quasi se, nonostante le sue stupide scuse, fosse a conoscenza del terribile sbaglio commesso. L’alcool in corpo, benzina sul fuoco della sua instabilità.
«E quale sarebbe questa cosa così importante?»
«Sono cambiate molte cose da quando te ne sei andato». Gabriel lo guardò fisso negli occhi e per l'astro percepirne il dispiacere fu istantaneo.
Non era stato facile superare prima la partenza dei genitori e successivamente quella dell’amico. Ne aveva sofferto, molto. In poco tempo, si era lasciato andare, frequentando gente sempre meno raccomandabile.
«Poco tempo fa, in una locanda del sesto distretto, mi si è presentata un’occasione facile per racimolare del denaro.»
«Te e il tuo maledetto gioco d’azzardo!». Santos aveva già capito la situazione.
Nel sentire le parole dell’amico, Gabriel si bloccò andando a sbirciare nuovamente dalla fessura sulle assi di legno. Dopo un lungo sospiro continuò.
«Era un’opportunità per sistemarmi per qualche mese. Dovevo solo vincere e così è stato. Onestamente, senza alcun trucco. Ho vinto avendo le carte migliori dei sei partecipanti». Il nervoso nelle sue parole, in continuo aumento.
«Ma quell’infame di un pirata non ne ha voluto sapere di perdere, accusandomi di aver barato. E così, in pochi secondi mi sono ritrovato circondato dalle lame affilate di tutti i giocatori. Senza via d’uscita, ho dovuto abbandonare il tavolo lasciando anche la mia parte. Mi volevano morto e per pura fortuna sono riuscito a fuggire». Con il viso nell’ombra, continuava a osservare la strada.
Santos ascoltava con un nodo allo stomaco. Conosceva la forza dell’urano, ma, da quel che vedeva, l’amico aveva preso un altro vizio, quello del bere. I poteri degli urani, era risaputo, calavano notevolmente sotto gli effetti delle bevande alcoliche e nei casi più disperati svanivano per alcuni periodi. La natura sapeva quel che faceva. Il sacro e potente potere del fulmine non poteva essere usato da individui instabili e dalle ridotte capacità cognitive. Questo aveva portato l’amico a non riuscire a difendersi al meglio in quelle circostanze, ne era certo.
«Non potevo perdere tutto, dovevo riprendermi la mia parte e la vincita che mi spettava». I pugni, stretti contro le pareti.
«Non vorrai dirmi che hai rubato il dente del Mantio per recuperare il denaro?» urlò l’astro con gli occhi spalancati.
«Tu non capisci»
«Capisco eccome! Sei un ingenuo, uno sprovveduto. Ora, oltre ad aver rischiato la vita in una locanda, e ad aver adirato chissà quali giocatori con l’accusa di aver barato al gioco, hai scatenato l’ira dei Mang per il furto di un oggetto che neanche ti serve?». Santos era in collera.
«No, non capisci. Ho altri debiti, non sai quanti, oltre ai pirati del sesto distretto, mi cercano anche i nani del quinto, per non parlare dei mercanti del quarto. Quella somma, la mia vincita…», Gabriel urlava.
«Mi serviva per sistemare le cose. Duecentomila pugni, amico mio, duecentomila ragioni per le quali ho fatto quel che ho fatto».
Ora, l’urano aveva detto tutta la verità. Non si trattava di una semplice perdita al gioco. In ballo c’erano altri debiti con chissà quali pericolosi individui.
«Mi vuoi spiegare dove hai la testa? Non ti riconosco più, sei uno stupido.»
«Tu non c’eri, nessuno c’era. È facile giudicare quando non si è dentro a queste cose. Non mi aspetto la tua comprensione, e mi chiedo ancora il perché tu sia venuto qui dopo così tanto tempo». Sbraitò Gabriel furioso.
Santos si bloccò. Improvvisamente non aveva più le parole da dire. L’amico era in difficoltà e dargli contro, di certo, non lo avrebbe aiutato.
«Sistemeremo ogni cosa, insieme!» gli disse tranquillo.
«Non farne una tragedia come al tuo solito, so badare a me stesso, non ho bisogno del tuo aiuto», nelle sue parole, oltre alla marcata presenza di una sbornia, il rancore per la sua partenza. Si era sentito abbandonato, lasciato solo in balia dei suoi problemi e questo Santos lo percepiva sentendosi ingiustamente in colpa.
«Ti aiuterò, lo sai…».
L’urano non rispose.
Quelle parole furono ossigeno per lui. Santos era tornato, per aiutarlo.
I due restarono in silenzio per qualche secondo, immersi nel buio che avvolgeva la stanza.
«Non ti serve a nulla quel ciondolo, a meno che non sia una cosa vitale». Continuò con tono fraterno l’astro.
«Per me è più che vitale, ne va della mia vita».
«Ascoltami, il dente non ti aiuterà di certo a compiere una rapina». L’astro stava camminando avanti e indietro senza sapere esattamente dove stesse mettendo i piedi. Per quanto volesse calmarsi, l’agitazione non gli dava tregua.
«È un amuleto molto potente, ed è per questo che funziona solo in caso di estrema necessità. Non ti servirà a nulla!», concluse fermandosi in un angolo pieno di polvere.
Gabriel lo guardò spiazzato, consapevole dell’errore commesso.
«Ti sei cacciato in un bel pasticcio»
«Non devi preoccuparti, sono giorni che i cartni hanno perso le mie tracce» replicò l’urano soddisfatto.
Santos ancora non riusciva a crederci. L’amico, dopo la sua partenza per l’accademia, si era perso completamente, e ora toccava a lui dargli sostegno per provare a sistemare le cose.
«Comunque non hai ancora risposto alla mia domanda, perché sei qui?» domandò l’urano, continuando a sbirciare frenetico dalla piccola fessura.
«Ho bisogno del tuo aiuto», l’astro non sapeva quali parole usare per spiegargli al meglio la situazione. Era complicato e quello non era il luogo più adatto.
«Ti hanno seguito!», lo interruppe improvvisamente Gabriel.
Il sangue gli si gelò all’istante.
«Ti hanno seguito Santos, ti hanno seguito».
L'astro si sentì un vero stupido. Senza pensarci, aveva chiesto informazioni sull’urano in tutti i vicoli dov’era conosciuto. Non c’era da stupirsi che le voci fossero giunte alle orecchie dei suoi inseguitori.
Gabriel scattò nel buio.
«Dobbiamo scappare», così dicendo salì su un piccolo tavolino in legno per poi dare un forte colpo a una botola sul soffitto.
La luce entrò arrogante nella stanza.
«Passeremo per i tetti», continuò l’urano tossendo a causa dell’enorme quantità di polvere caduta dall’apertura del portello.
Un pensiero bloccò Santos: «Zeno!».
Nel buio, avvolto dall’umidità, Jack era poggiato contro una parete. Erano diversi minuti che il maestro era svanito nell’oscurità. Il clima in quella palazzina lo aveva avvolto completamente e immerso nei suoi pensieri, continuava ripetutamente a stropicciarsi i capelli cercando di farli respirare il più possibile. Ogni passata con le mani era un sollievo.
Per quanto intimorito dalla decadenza del luogo, sperava in un ritardo da parte dell’astro proprio per godersi ancora quella frescura. Sapeva che, una volta usciti, tutto sarebbe ricominciato: nausea, giramenti di testa e vertigini lo avrebbero nuovamente assalito in un mix di malori logoranti e odori nauseabondi.
Boris dormiva ancora e nel sentirlo russare, il giovane si lasciò in una piccola risata.
Per quanto tozzo e burbero, trasmetteva una grande tenerezza. Sapeva assolutamente che se il folletto ne fosse venuto a conoscenza si sarebbe offeso. Anche se si conoscevano da pochi giorni, aveva capito la personalità del piccolo re dell’Ovest. Era lì, nella tasca interna del suo mantello, coccolato dalla soffice pelliccia d’orso, immerso in chissà quali sogni. Non si era svegliato neanche nel caos delle vie del mercato, sintomo di un sonno pesante.
Inevitabilmente, in un momento di pace e tranquillità, la mente volò via, raggiungendo le persone a lui care.
Pensò a come potesse sentirsi ora sua madre dopo la sua improvvisa scomparsa. Doveva essere uno strazio per la donna e nel pensarci, gli si strinse il cuore. Avrebbe voluto avere anche solo un secondo per poterle dire che stava bene e che non doveva preoccuparsi. Ma non poteva, si trovava in un buio quanto sudicio androne di una palazzina decaduta in un pianeta sconosciuto. Tutto aveva ancora dell’incredibile. Anche Max doveva aver già appreso la notizia. Aveva lasciato le persone a lui più care nel dolore. Questo, non riusciva a perdonarselo.
Non era stata una sua decisione, non lo aveva voluto lui, ma era, da quello che Santos gli aveva spiegato, scritto tutto nel suo destino.
Nel pensarci, si sentì terribilmente incapace di compierlo. Non era un eroe, questo era chiaro. In più, a marcare il tutto, c'era la sua insicurezza cronica.
Non era in grado di combattere nemici dello spessore del Trokor, avversari che Santos, il suo maestro, a malapena riusciva a tenere a bada per pochi minuti. In fin dei conti, era un semplice sedicenne con la passione per le arti marziali, non un guerriero addestrato a uccidere e a sostenere battaglie mortali. Nonostante questo però, l’astro credeva in lui, arrivando a rischiare la propria vita per salvarlo dalle grinfie di un semidio. Quella era la sua unica forza, la speranza negli occhi del suo nuovo maestro e delle persone a lui care.
In qualche modo, doveva crederci anche lui. Per quanto fosse surreale e a dir poco impossibile, non doveva mollare, o almeno provarci con tutte le sue forze.
In preda alla frustrazione, un pensiero lo avvolse: Stella!
L’unica ragione che da due anni lo svegliava la mattina per farlo andare a scuola. Improvvisamente, dei brividi gli percorsero la schiena e lo stomaco gli si contorse.
Questo era quello che gli succedeva ogni volta che pensava o che vedeva quella ragazza. Non ci poteva fare nulla, era più forte di lui, lo era sempre stato. Aveva provato agli inizi a lasciarla perdere, a togliersela dalla testa, ma senza riuscirci. Si era legato a lei in un modo che non capiva neanche lui. Si sentiva rapito, prigioniero della sua bellezza. La sua anima, persa nel suo profumo inebriante.
Sentimenti troppo forti ma ai quali non poteva resistere nonostante la giovane non lo avesse mai degnato di uno sguardo.
Qualcosa però interruppe bruscamente i suoi pensieri.
Un rumore cominciò a rimbombare forte nell’androne. Erano passi, lenti e pesanti passi. Jack si voltò verso l’uscita giusto in tempo per vederci entrare tre grossi individui armati fino ai denti.
Trasalì.
Grossi più di Gult, trasudavano forza e brutalità.
Si appiattì al muro cercando di trattenere il respiro. Il buio, suo alleato. Stagliati in lontananza e illuminati leggermente dalla fievole luce che passava dalle assi di legno, i tre individui si avvicinavano sempre più.
Jack si sentì nuovamente svenire, aveva paura.
Terrificanti, grossi quanto un armadio a tre ante e talmente alti da ricurvarsi su se stessi ingobbendosi, gli estranei iniziarono a guardarsi intorno con attenzione.
L’odore insopportabile e nauseabondo di carogna che li accompagnava invase in pochi secondi l'intero androne. Il giovane iniziò a tremare a ogni respiro cercando con tutte le forze di rimanere il più immobile possibile avvolto dall’oscurità.
Il più grosso dei tre, quello che stava davanti, si fermò improvvisamente.
Jack chiuse gli occhi trattenendo il respiro. Per fortuna, Boris aveva smesso di russare poco prima, continuando comunque a dormire beatamente. Avrebbe voluto svegliarlo, ma non poteva rischiare di far alcun rumore.
Il bestione cominciò ad annusare l’aria sospettoso.
«C’è qualcuno che si nasconde, amici miei», ruggì ridendo.
«Qualcuno che non si vuole far vedere, ma che non riesce a controllare la sua paura».
Jack era paralizzato, non aveva via di scampo. Solo e indifeso non sapeva cosa fare. Era spacciato.
«Ne sento l’odore! Il fetore della tua paura ti precede… vero?», continuò l’individuo scaraventandosi contro il muro, arrivando con il viso a pochi centimetri da quello di Jack.
«Chi sei, straniero?», sbraitò alitandogli in faccia.
Il ragazzo riuscì a malapena a trattenere un conato di vomito e, in preda al panico, rimase in silenzio pietrificato.
«Il tuo odore…», continuò il bestione inspirando a pieni polmoni.
«Non lo conosco, chi diavolo sei?».
Jack non rispose, appiattendosi ancor di più contro l’umida parete.
Uno dei due alle sue spalle si avvicinò a una finestra e con un forte colpo, ne spaccò due assi. La luce entrò illuminando leggermente l’androne.
«Da dove vieni?» urlò il grosso cartno, sbavando rabbiosamente.
Solo in quel momento Jack si accorse di non aver messo il cappuccio. Tutto si amplificò. Il sudore, la nausea, i brividi e l’emicrania. L’avevano scoperto.
A pochi centimetri dal suo, il viso di quell’orribile creatura. Sulla fronte, un terzo occhio, leggermente più grande degli altri due, lo scrutava. Fissarlo, fu inevitabile. L’iride completamente nera, fusa con la pupilla, gli penetrò la mente. Una voglia matta di rispondere alla domanda, e di raccontare ogni cosa, lo invase.
Lo stava per fare, non aveva più forze per resistere a quella strana quanto efficace tortura mentale.
«Prendetelo, lo porteremo dal nostro signore, lui saprà cosa farne!» ordinò il cartno più grosso spostandosi.
I due scagnozzi alle sue spalle scattarono immediatamente.
Jack restò immobile. Il cervello gli si era spento, non pensava e ragionava più. Stava lentamente perdendo i sensi.
Le due grosse figure sfocate davanti a lui ormai lo stavano per prendere.
Ogni rumore era svanito e le immagini si mescolavano sempre più.
Dal nulla, una forte luce accecante invase l’androne. Gli occhi gli si chiusero e il suo corpo smise di reagire, lasciandosi cadere al suolo.
Qualcosa accadde, ma non se ne accorse, prigioniero dei malori.
Si sentì tirare su con forza ma le gambe gli cedettero quasi inesistenti.
Qualcuno gli parlava.
«Jack… Jack… apri gli occhi». Santos lo stava reggendo urlando.
Si sentì sollevare completamente da terra. Nei suoi occhi socchiusi, un turbinio d'immagini confuse e veloci. Qualcuno, non Santos, lo aveva sollevato, e ora in spalla lo stava portando velocemente su per le scale.
Gli occhi gli si chiusero, il suo corpo aveva ceduto alla stanchezza e nel buio dei suoi pensieri si lasciò andare perdendo completamente i sensi.
Santos e Gabriel erano arrivati in tempo.
Tra lampi, pugni e fulmini, i due amici erano riusciti a mettere al tappeto i tre grossi cartni, riportando comunque diversi lividi sul corpo.
L’urano si era caricato in spalla il giovane per poi dileguarsi velocemente risalendo le scale e scappando per i tetti.
L'astro, fischiando, aveva richiamato i due piccoli cavalli, che, liberandosi velocemente dall’asta di legno alla quale erano legati, li avevano raggiunti velocemente, lasciando il vecchio nano che li guardava senza parole.
Gli animali seguirono per le strade i loro spostamenti per diversi isolati, fin quando, giunti quasi alle porte del quarto distretto, i tre poterono scendere dai tetti senza dare nell’occhio.
«Per un soffio!» esclamò affannato Gabriel con la schiena poggiata contro la parete di un palazzo malandato.
«Finiscila, potevamo morire e abbiamo rischiato di perdere Jack», lo rimproverò l’astro furioso.
«Fai il baby sitter ora?».
Il giovane era a terra, ai piedi dello stesso palazzo, ancora privo di sensi. Nella confusione, l’urano non aveva avuto il tempo di guardarlo in volto e nello stesso momento che ci riuscì, il sorriso beffardo gli si congelò sul viso.
«Chi è?»
«Ti spiegherò tutto in un luogo più sicuro».
Santos era serio, non voleva perdere tempo. Dovevano lasciare al più presto la città. Si avvicinò al ragazzo e con delicatezza gli tirò su il cappuccio. Per fortuna il luogo scelto era deserto e nessuno li aveva visti. Ma non sarebbe rimasto così per molto, dovevano muoversi.
«Volete darmi una spiegazione?», Boris sbucò fuori dal mantello tutto frastornato.
«Come stai?», nel caos l’astro si era totalmente dimenticato del piccolo amico.
«Ci vuole ben altro, ci vuole ben altro…», sbuffò il folletto cercando di ritrovare l’equilibrio.
«Quel mantello è una trappola, mi sono svegliato nella confusione più totale. Volete dirmi che diamine è successo?», con il petto all’infuori fissava l’amico dal naso a punta.
«E questo da dove spunta?». Scoppiò a ridere Gabriel sgranando gli occhi.
«Un urano, certo, chi poteva essere così sfacciato dinanzi a un re se non un urano?», scosse il capo Boris paonazzo.
«Tu un re? Se lo sei tu lo sono anche io, nanerottolo», continuò l’urano strizzandogli l’occhio ironicamente.
«Ripetilo se hai il coraggio, essere dalla pelle blu».
Il piccolo re dell’Ovest aveva perso le staffe nel giro di pochi secondi.
«Che bella squadra che ti sei fatto, amico mio, un essere dalle sembianze sconosciute e un folletto dalla barba più lunga del corpo, i miei complimenti»
«Vieni qui, lurido insolente!», ringhiò Boris sfoderando la sua piccola bacchetta.
«Metti via quello stuzzicadenti, gnomo», non riuscì a trattenersi l'urano.
«Finitela!», tuonò Santos mettendosi tra loro.
«Dei bambini, ecco cosa siete, due stupidi bambini. Vi sembra questo il luogo e il momento per darvi contro? Dobbiamo andare via al più presto e non voglio problemi».
L’astro era furioso, aveva rischiato di perdere Zeno e per colpa sua, era a terra privo di sensi. Lo aveva lasciato solo e aveva rischiato la vita. Quello, un errore da non ricommettere assolutamente. La missione che gli era stata affidata era vitale e non poteva fallire. Doveva proteggere il salvatore della Grande Costellazione a qualunque costo.
Gli altri due si guardarono ancora per qualche secondo, Boris ingrugnito e Gabriel solo per il gusto di farlo adirare ancor di più. La strafottenza con la quale si presentava agli sconosciuti era da sempre stata una delle ragioni per le quali i guai non lo avevano mai abbandonato.
Santos caricò il corpo inerme del giovane sulla sella di uno dei due cavalli e, senza voltarsi verso gli altri due amici, si avviò verso l’uscita sud del distretto, redini alla mano.
Prima di seguire l'amico d'infanzia, Gabriel lanciò un ultimo sguardo verso il folletto inchinandosi platealmente con un ghigno stampato sulle labbra.
Stringendo i pugni per contenere il nervoso, Boris deglutì, cercando di mantenere la calma. L’insolenza di quell’essere lo irritava fortemente.
Il gruppo doveva solo più attraversare le ultime vie rimaste prima di raggiungere l’uscita sud.
Dopo una ventina di minuti di cammino, nei quali il silenzio regnò sovrano, gli alti cancelli in ferro che segnavano la fine del quarto distretto si presentarono possenti davanti a loro.
Santos, che guidava il gruppo, era rimasto in silenzio, senza mai voltarsi, logorato dai sensi di colpa. Non riusciva a perdonarsi quel che era successo al giovane terrestre. Sapeva che non aveva avuto altra scelta e che, senza Gabriel, la sua missione sarebbe stata ancor più impossibile di quanto già lo era. In due, con l’aiuto extra di Boris, avevano qualche speranza in più di preparare Zeno al suo destino.