Kitabı oku: «Il Cielo Di Nadira», sayfa 3
Capitolo 3
Estate 1060 (452 dall’egira) Rabaḍ di Qasr Yanna
Era un venerdì e sotto il sole di mezzogiorno Nadira si recava al pozzo a sud del Rabaḍ con l’intenzione di attingere un secchio d’acqua; Fatima, la nipotina, l’accompagnava. Questa, vestita di rosso, portava un girocollo decorato a fantasie geometriche variopinte e tanti ornamenti pendenti sulla fronte e attaccati al copricapo, così come i berberi usano agghindare le fanciullette. Vi erano anche altre donne che andavano al pozzo, e si rideva e scherzava spensieratamente nonostante l’afa dell’ora più calda.
Al termine del proprio servizio, le altre afferrarono tutte il loro secchio e intrapresero il tragitto verso casa. Rimasero indietro solo Nadira e Fatima.
«Ho sentito dire che questo pozzo sia miracoloso.» esordì una voce maschile.
Nadira, colta di soprassalto, mollò la presa della fune, lasciando cadere il secchio nel fondo del pozzo.
Quel tizio, un giovane che portava una strana kefiah26 gialla arrotolata sulla testa, venne avanti agitando le mani e scongiurandola di perdonarlo per averle fatto prendere quello spavento.
«Non ti avevo visto, buonuomo.» rispose Nadira, coprendosi il viso e tirando a sé la piccola Fatima.
«Dicevo che questo pozzo è miracoloso… ed ora che ti sono più vicino me ne convinco ancor di più.»
E sorridendo continuò:
«Perché se non sei un angelo, spiegamelo tu quale creatura del Paradiso ho davanti.»
«Solo la sorella del capo del villaggio, un uomo molto vicino al Qā’id.» spiegò le sue referenze Nadira, nel tentativo di dissuaderlo da eventuali cattive intenzioni.
«Non devi temere nulla da me.»
Perciò, accennando un inchino con le mani raccolte dietro la schiena, si presentò:
«Mus’ab, poeta e medico.»
«Lascia che parli con mio fratello e ti farò dare l’ospitalità che meriti, Mus’ab.»
«Sei gentile, ma tutto ciò di cui ho bisogno credo di averlo già trovato.»
«Hai bisogno d’acqua? Mio fratello non dissentirà dall’accordartene un secchio.» chiese innocentemente Nadira, immaginando che si riferisse al pozzo.
Tuttavia quell’altro sorrise e spiegò:
«Ho viaggiato molto nonostante la mia giovane età: da Bagdad a Grenada. Devo dire di aver visto molte volte occhi turchesi e occhi smeraldo, degni delle settantadue vergini promesse da Allah ai martiri. In Andalus ho trovato fanciulle di stirpe visigota con degli occhi simili ai tuoi… e tra i monti della Cabilia mi imbattei in donne con caratteristiche quasi identiche. Tuttavia, mai… mai… ho trovato un azzurro così intenso incastonato in un viso come il tuo. Il tuo aspetto tradisce la stirpe alla quale appartieni, per certo berbera, come evinco dalle vesti della bambina... E anche tra gli indigeni siciliani ho visto qualcuno che vanti occhi chiari, ma mai come i tuoi. Forse tuo padre è un indigeno? O forse tua madre? Da chi hai ereditato questa fortuna?»
«Ti sbagli… per certo sei stato troppo tempo lontano da questa terra e cadi facilmente in inganno. Non esistono berberi, indigeni o arabi da queste parti, ma soltanto siciliani osservanti la parola del Profeta. È vero, tra i miei nonni e tra le loro madri vi furono delle donne indigene convertite ai dettami del Corano, come accadde in qualsiasi altra famiglia di credenti su quest’isola. Ma ciò è normale se si considera che a passare in Sicilia nei primi tempi furono per la stragrande maggioranza uomini, e solo successivamente vi passarono le famiglie che sfuggivano alle persecuzioni dei califfi e degli emiri d’Ifrīqiya. Ciò nondimeno, per quanto riguarda i miei occhi, perché mai qualcuno dovrebbe indagare su un imperscrutabile dono di Allah?»
In quel momento il muezzin27 richiamò i fedeli alla preghiera del mezzogiorno. Nadira si voltò verso il Rabaḍ e il suo minareto, quindi si affrettò per rientrare.
«Mia madre aspetta quest’acqua già da troppo tempo.»
«Dimmi solo il tuo nome.»
«Nadira.»
«Nadira, scriverò dei tuoi occhi!» esclamò il forestiero.
Già di rientro verso casa, tirando per la mano Fatima, Nadira maturò la certezza che Mus’ab si sarebbe presentato al cospetto di Umar per chiedere la sua mano. Tuttavia i giorni passarono e la certezza scomparve, finché i primi di ottobre fu chiaro l’effetto ben più importante che quell’incontro aveva provocato nello sviluppo del suo destino.
Capitolo 4
Inverno 1060 (452 dall’egira), Rabaḍ di Qasr Yanna
Il viso di Corrado s’illuminava del rosso del tramonto, uniformandosi alle tinte molto vicine dei suoi capelli. Nadira era rientrata in casa già da ore, rifiutando l’aiuto che lui le aveva chiesto; da quel momento non si era fatto vivo più nessuno.
Poi, proprio al tramonto, Corrado prese ad urlare delirante:
«Umar, esci fuori! Esci fuori e veditela con me!»
Ma una voce alle sue spalle, proveniente dall’ingresso del cortile, lo supplicò:
«Ti prego, smettila!»
E lui:
«Nadira, vigliacca… è questa la tua pietà?»
Quella voce alle sue spalle allora si identificò avvicinandosi al palo. Pure un uomo dell’esattore preposto alla guardia si avvicinò, ma questi lo fece minaccioso e intento a fargli pagare l’insulto nei confronti della sua padrona.
«No, ti prego! È febbricitante… non sa quello che dice. Addirittura crede che io sia la promessa del Qā’id.»
Nonostante le implorazioni di Apollonia, la guardia minacciò:
«Un’altra parola e gli stacco la testa!»
Apollonia piangeva, mentre a pochi passi lo fissava preoccupata.
«Sono tua sorella. Guardami, Corrado, guardami!»
Ma lui ruotava la testa convulsamente e continuava a mugugnare un suono indefinito.
Apollonia dunque gli si gettò addosso in un abbraccio compassionevole. Corrado era l’uomo più alto del Rabaḍ e lei una delle ragazze più minute, perciò la testa della sorella si perdeva nel suo petto, lasciato scoperto dalla tunica strappata e dalla coperta sulle spalle.
«Coraggio… coraggio… non durerà tanto.»
«Sorella…» rispose lui a bassissima voce.
«Finalmente mi riconosci!»
«Da quanto tempo sei qui?»
«Da sempre… da sempre, fratello mio. Sarei rimasta anche dopo averti portato questa coperta la notte scorsa, ma nostra madre mi ha costretto a rientrare.»
«E loro dove sono?»
«Nostro padre e nostra madre hanno paura dell’uomo del Qā’id, ed impediscono pure a Michele di venire fin qui.»
«E tu, sorella?»
«Io sono niente, la consistenza di una goccia di rugiada… a chi importa di me?»
Corrado chiuse gli occhi ed ebbe in viso una sorta di spasmo, quindi le disse:
«Vai a casa. Non senti com’è forte il sole a quest’ora?»
La guardia intanto si era avvicinata nuovamente per impedire alla ragazza di prestargli aiuto.
«Sta’ lontana da lui!»
Apollonia si staccò da quell’abbraccio e rispose:
«Ma non vedi che sta delirando? Non è stata sufficiente la lezione?»
«Va’ a parlare con Umar… fosse per me lo avrei già liberato e sarei tornato a casa mia per starmene al caldo.»
Apollonia corse allora verso l’ingresso della casa dei padroni. Quando perciò Umar venne avvertito e giunse sulla porta, lei gli si gettò ai piedi e lo supplicò:
«Ti prego, Signore, qualunque cosa… ma lascia libero mio fratello!»
«Gli ho promesso tre giorni, non posso ritirare la parola data.»
«Non sopravvivrà a questa notte; ha la febbre alta! Ti prego, Signore, lega me a quel palo, ma lascialo andare o morirà.»
«Morirà se è stato scritto che morirà e vivrà se è stato scritto che vivrà… Gettagli addosso un’altra coperta se vuoi. E non umiliarti in questo modo per chi non lo merita.»
Perciò comandò a qualcuno lì accanto di consegnare del cibo alla ragazza prostrata ai suoi piedi e poi di mandarla via. Apollonia a questo si rimise in piedi e rispose arrabbiata, tanto che si fece sentire per l'intera casa:
«Non voglio il tuo cibo, ho già chi mi sfama!»
Dunque la porta le venne sbattuta in faccia senza che le fosse data la possibilità di impugnare quella decisione. Ora le gambe le cedettero e scivolò sulla porta, piangendo più forte di prima.
Quando poi il muezzin richiamò i fedeli per la ṣalāt28 del tramonto, lei, osservando che la guardia si preparava ad inchinarsi verso La Mecca e di spalle al condannato, ne approfittò per violare la proibizione secondo cui non avrebbe potuto avvicinarsi.
«Corrado, mio respiro e vita… Corrado!»
Ma quello emanava una sorta di muggito, sommessamente e ad occhi chiusi.
Apollonia allora prese il suo viso tra le mani e gli disse:
«Ricorda chi sei, Corrado, ricorda chi è tuo padre.»
«Alfeo… del Rabaḍ.» rispose a stento.
«Corrado, fratello, ricorda chi è tuo padre.» ripeté disperatamente Apollonia, insoddisfatta della risposta.
«Alfeo… nostro padre.» ribadì lui, tenendo sempre gli occhi chiusi.
«Non ricordare chi ti ha amato come un figlio, ricorda invece chi ti ha generato. Quelle storie che mi raccontavi la sera davanti al fuoco, quelle che ti ha tramandato tuo padre... il tuo vero padre. Ricorda quando mi parlavi delle lande del nord, fatte di ghiaccio e neve, e di come la gente della tua stirpe sia abituata al freddo più estremo. Ricordalo, Corrado, e forse il tuo sangue da uomo del nord ti saprà scaldare per farti sopravvivere.»
«La compagnia normanna…»
«Esatto, Corrado, la compagnia normanna… continua a ricordare!»
«Mio padre, Rabel… Rabel de Rougeville.»
«Sì, Corrado, fu durante l’estate di vent'anni fa l’ultima volta che lo vedesti; me lo hai raccontato un sacco di volte.»
«Io vidi le mura di Siracusa…» borbottò infine, prima di perdere i sensi in un profondo sonno febbrile.
Capitolo 5
Inizio estate 1040 (431 dall’egira), dinanzi alle mura di Siracusa
Della Sicilia essa era la “porta per l’oriente”, la città che era stata la più gloriosa di tutto il Mediterraneo centrale prima dell’avvento di Roma, la patria dei tiranni e del grande Archimede, una perla tirata fuori dal fondo del mare da delfini divini; questa era Siracusa! Ed infatti la città aretusea era un obiettivo troppo prestigioso per essere ignorata, una tappa che il generale dell'Impero d’Oriente, Giorgio Maniace, non poteva trascurare nella sua missione.
La riconquista completa della Sicilia a favore di Costantinopoli non era cosa facile, e quindi, se si voleva riuscire nell’impresa, bisognava prendere Siracusa ai saraceni, così che questa diventasse una solida testa di ponte per l’arrivo dei rinforzi da est. La città d’altro canto era ben fornita, alimentata da fonti d’acqua interne e difesa da tenaci soldati, i quali si erano ritirati oltre le mura dopo gli scontri iniziali. Il richiamo dei muezzin sui minareti ricordava agli assedianti che conquistarla sarebbe stata un’impresa lunga e logorante.
Giorgio Maniace era un uomo rude e dispotico, e specie con le sue truppe e gli ufficiali al suo comando si dimostrava spesso violento… un perfetto guerriero per dirla tutta. Perfino il suo aspetto testimoniava il suo carattere bruto: orbo di un occhio, era alto più della media e i suoi lineamenti erano grezzi, spiacevoli. Tutto di lui incuteva timore, tanto tra i suoi quanto tra le disgraziate milizie saracene che ci si erano scontrate. Il suo valore era indiscusso già prima che l’Imperatore d’Oriente gli affidasse la missione di strappare la Sicilia agli arabi, ma adesso che da Messina fino alle porte di Siracusa ricomparivano le croci, la sua fama diventava assoluta. D’altronde serviva un carattere forte e un’autorità indiscutibile se si voleva riuscire in un’impresa più grande della stessa guerra contro l’Islam, cioè riuscire a controllare il variegato esercito da lui comandato. Erano molte le stirpi radunate al soldo di Giorgio Maniace: uomini di Costantinopoli e dei suoi possedimenti, pugliesi, calabresi, armeni, macedoni, pauliciani29… ma anche mercenari, i conterati30 che brandivano la lancia al seguito del longobardo Arduino… la guardia variaga, nordici che avevano attraversato le steppe slave per servire l’Imperatore d’Oriente e guidati da Harald Hardrada… e i normanni del basso corso della Senna, tra i più abili guerrieri.
Proprio uno di questi ultimi - tuttavia non ancora soldato - se ne stava a guardare il mare intorno alla quinta ora del pomeriggio, spingendosi con lo sguardo oltre le rovine dell’antica città poste sulla terraferma. La città, infatti, un tempo era stata ben più grande, estendendosi anche su una parte considerevole della costa prospiciente l’isola di Ortigia, lì dove sorge il nucleo della famosa Siracusa. Da duecento anni, tuttavia, dopo il devastante assalto saraceno, consisteva della sola parte insulare e di un’esigua parte della penisola, finita già sotto il controllo di Maniace. A ciò che restava di Siracusa gli uomini rivolgevano i pensieri e le armi nel tentativo di riuscire in quell’assedio che durava ormai da mesi, oltre quel canale stretto ed esiguo che divideva la città.
Conrad aveva nove anni e la guerra l’aveva conosciuta presto, affinché si temprasse al destino che l’avrebbe accompagnato per tutta la sua vita; per natura, infatti, ogni maschio normanno non poteva essere qualcosa di diverso da un guerriero. Ma Conrad era anche un sognatore... Forse perché suo padre riteneva giusto risparmiarlo ancora al battesimo delle armi, Conrad sapeva sognare, senza dover fare i conti con le atrocità degli uomini al massacro che offuscano gli occhi e ottenebrano la mente. Negli occhi verdi di Conrad quindi ci si poteva ancora specchiare e vedere il riflesso della speranza e di quell’idea di casa e di famiglia che per metà gli era stata negata con la morte prematura di sua madre, una nobildonna di discendenza franca.
Rabel de Rougeville si era portato dietro il figlio, e la balia di questi, nella sua discesa in Italia quando il bambino aveva solo un anno. Attirato a Salerno dai lauti compensi che venivano elargiti ai nobili cadetti normanni e invogliato dalle notizie dei compatrioti che l’avevano preceduto, Rabel aveva allora deciso di unirsi ai suoi compagni d’armi e di darsi al servizio del migliore offerente. In quelle terre non mancavano di certo le guerre… terre insanguinate dagli infiniti conflitti tra Costantinopoli e gli ultimi principati longobardi. Per non parlare delle continue scorrerie dei predoni arabi sulle coste calabresi. E così, quando Giorgio Maniace aveva messo su l’esercito per l’invasione della Sicilia, Rabel e i suoi commilitoni avevano risposto all’appello. Messina era caduta subito, ma le battaglie successive erano state cruente, devastanti, tanto per la popolazione quanto per entrambi gli eserciti, con grosse perdite proprio in seno al contingente normanno. In due anni di guerra Maniace era riuscito a spingersi solo a fin sotto le mura di Siracusa, controllando appena la costa ionica. La gente dell’iqlīm di Demona, la cuspide nord orientale dell’Isola a maggioranza cristiana, aveva appoggiato l’invasione, tuttavia il resto di Sicilia era a tutti gli effetti un feudo saraceno e conquistarlo sarebbe stata un’opera lunga e difficile.
Perdendosi con lo sguardo oltre il porto piccolo e la città, Conrad allargò le braccia intento all’impossibile, abbracciare il mare e l’orizzonte. Suo padre lo guardava alle spalle ormai da minuti, e quando, avvicinatosi, gli stropicciò i lunghi capelli biondo-ramati, Conrad si voltò di soprassalto, quasi spaventato che l’altro potesse rimproverarlo per il gesto banale che stava compiendo.
«Vuoi afferrare il mare, figliolo?» chiese Rabel, vestito di una semplice tunica bianca ma armato.
«È la cosa più bella che esista!»
«Temo che le tue tasche siano troppo strette per contenerlo tutto…»
«Dio può contenerlo però!»
«Forse è proprio questo la Terra… le Sue tasche... e noi ci siamo dentro.»
«Roul dice che Dio ci ha scelti tra tutta la gente perché il nostro sangue è il migliore che esista.»
Rabel sorrise e guardò anch’egli il mare.
«Ogni nazione, così come ogni popolo, crede di essere migliore di un’altra. Guarda questa terra… i maomettani credono di avere il favore di Dio, l'Imperatore di Costantinopoli crede di essere il Suo vicario e lo stesso crede il Papa... e prova a passare per la Giudecca di una di queste città e a chiedere da che parte stia Dio. Conrad, figliolo, cerca di divenire tu stesso una persona migliore, indipendentemente dal tuo sangue.
Ho visto maomettani battersi con più onore dei nostri… sono sicuro che Iddio li stimi in gloria indipendentemente dal padrone che servono. Da quando siamo sbarcati su questa terra ho aperto gli occhi su molte cose.»
«E Roul?»
«Roul è il mio migliore amico, ma combattiamo per un bene diverso.»
«Dite che voi non combattete per il compenso?»
«Sono nato soldato e mio padre mi ha cresciuto perché divenissi tale. Da che la nostra stirpe lasciò le fredde lande dello Jylland31 non abbiamo mai impugnato qualcosa di diverso da una spada. Questo è il nostro mestiere, e il compenso per la battaglia è il nostro salario. Tuttavia, mio caro Conrad, il compenso può riempirti le tasche e può riempirti il cuore; sta a te decidere dove metterlo.»
«Dite che il compenso può essere pericoloso?»
«Tutto può essere pericoloso se ci conduce all’asservimento di un vizio e di un fine egoistico. Potere, denaro e donne… guardati bene da tutto questo!»
«Ma voi avete amato mia madre…» affermò confuso e dubbioso Conrad.
«Non c'è nulla di male nel potere quando i tuoi sottoposti diventano i tuoi figli; nulla di male nel denaro quando sfama la tua bocca e quelle di coloro che comandi; e per nulla al mondo niente di sbagliato nel calore della donna che ami. Ma io, figlio mio, ho amato una sola donna e nessun’altra ha potuto prendere il suo posto. Tu le somigli molto… i tuoi occhi, i tuoi capelli, il tuo colorito… e il tuo nome, Conrad, ereditato dalla sua stirpe… Mi presentarono una graziosa fanciulla già due settimane dopo la sua morte, eppure non volli che nessuno prendesse il suo posto e che tu fossi indotto un giorno a chiamare qualcun altro “madre”; non l’avrei sopportato. Se serviva una finta madre c'era già la balia.»
«Cosa devo temere quindi?»
«Il desiderio che spinge all’efferatezza. Quando la brama di avere qualcosa sorpassa l’onore e ogni regola di umana pietà.»
«E le donne?» chiese perplesso Conrad, per via della curiosità tipica della sua età interessato a quell’essere misterioso che è la donna, finora conosciuto solo nel seno della balia.
«Le donne… nulla ti vieta di amarle, ma guardati dagli occhi di una donna che non ti appartiene!»
«Rabel!» chiamò qualcuno giunto tra le rovine appena fuori dall’accampamento.
«Roul, è già il momento?»
Quella domanda presentava il personaggio. Roul Pugno Duro era il compagno d’armi da cui Rabel non si era mai separato. Erano partiti insieme alla volta dell’Italia e si erano sempre protetti in battaglia. Roul era un energumeno di quasi due metri, dalla voce possente e dai modi poco raffinati. Una barba più folta del normale marcava il suo viso e i capelli erano più scuri della media, con una lunga trecciolina che scendeva sul lato destro della testa. Tradivano il suo anormale colorito quasi mediterraneo gli occhi azzurri, i lineamenti nordici e la statura fuori dal comune. Era un poco di buono, lo sapevano tutti, ma era pure un ottimo soldato, uno dei migliori nell’uso dell’ascia da combattimento. Cosa c’entrasse Roul con il nobile animo di Rabel se lo chiedevano in tanti, e forse era proprio il carattere misericordioso del secondo il collante di quell’amicizia. Rabel tollerava gli eccessi di Roul sia perché erano cresciuti insieme e sia perché Roul sapeva coprirgli bene le spalle in battaglia.
«Non ancora; parlano di domattina all’alba. Ma è arrivato il vino e tutti aspettano frate Rabel per festeggiare.»
“Frate Rabel”, è così che l’intera compagnia normanna, sin da quando in trecento avevano passato il Faro32, chiamava il nobile de Rougeville. Adesso era arrivato il vino e chiedevano la presenza di tutti.
Per quanto i viaggiatori arabi più dediti alla mondanità avessero vantato il vino di Sicilia, esso era una cosa rara da trovare. Infatti, dato che gli islamici vietavano la coltivazione della vite sui territori da loro controllati, su queste terre si vedevano solo modeste quantità di acini. Già all’arrivo di Maniace, nel 1038, i cristiani avevano presto ripiantato le viti per riattivare la produzione di massa, ma ancora non erano sorti grappoli a sufficienza e bisognava importare grandi quantità di bevanda se si voleva brindare alla buona sorte.
«E porta anche Conrad; è ora che si diverta come sanno fare gli uomini!»
Rabel fissò il figlio e scosse la testa, indicandogli la sua contrarietà per l’invito dell’altro.
«Willaume e Dreu?»
«I fratelli de Hauteville33 siedono allo scanno della taverna già da un’ora.»
Guglielmo de Hauteville, Willaume nella loro lingua, sarebbe stato soprannominato Braccio di Ferro, in quanto si narra che uccise, con l’ausilio di una sola mano e brandendo la lancia, un campione saraceno che aveva fatto una grande strage di greci e nordici durante una fase precedente dell’assedio di Siracusa. Ma era ovvio, nonostante aleggiasse già la leggenda tra le truppe, che la storia fosse improbabile. Tuttavia il nome della sua casata acquisiva sempre più lustro tra gli uomini del contingente normanno già al suo comando.
«Sarebbe più saggio raccogliersi in preghiera e in contemplazione. Servirà soprattutto l’aiuto del buon Dio. Abd-Allah ha raccolto le intere forze di Sicilia, e dall’Africa ne sono giunti altri. Crede che riuscirà a farci levare l’assedio a questa città, e farà di tutto per ricacciarci da dove siamo venuti. Dobbiamo respingere il contrattacco prima che l’emiro giunga per schiacciarci contro queste mura, ma questa volta temo che non basterà il coraggio dei più prodi a trascinare l’intero esercito.»
«Se bevessi di più e pregassi di meno saresti più ottimista!»
Consapevole di poter poco nel tentativo di convincere l’altro, Rabel si rivolse al figlio, serio che di più non avrebbe potuto.
«Hai sentito? La partenza è per domani all’alba. Sai cosa devi fare.»
Quindi seguì Roul lungo il cammino per la taverna.
Conrad sapeva bene quello che doveva fare, ed era quello che faceva ormai da due anni: preparare il bagaglio del padre, sistemare la sua armatura, dare l’ultima affilata al taglio della spada e preparare lo stendardo con su lo stemma di famiglia, un’ascia danese sovrastata da una verde foglia di quercia inserite in uno scudo a campo rosso... stendardo che proprio Conrad avrebbe sostenuto per tutto il tragitto fino al luogo della battaglia, in marcia a cavallo accanto al padre.
Quei discorsi sulle donne e sul vino fecero una strana ed inedita gola a Conrad - il mistero del proibito fa sempre gola ai ragazzini - cosicché, appena i due cavalieri lasciarono il luogo dei fabbricati in rovina, si diresse anch’egli verso la taverna, la quale era in realtà un ritrovo accomodato a tale uso da un contadino cristiano che sperava di speculare sui bisogni delle truppe.
Era appena la quinta ora, come detto, e il sole picchiava ancora forte sulla testa di Conrad. Passava tra le tende affollate da soldati di ogni sorta, con gruppi a destra e a manca tutti in conversazione nel proprio idioma... e tra i preti predicatori, in piedi e in posizione elevata, che facevano la voce grossa dopo decenni di preghiere dette a bassa voce. Benedicendo ogni soldato che passava sotto i loro sgabelli, santificarono anche il ragazzo quando fu loro vicino.
Quindi Conrad entrò nella taverna e fu allora che si trovò a tu per tu col bieco vizio che domina gli adulti. Calici strapieni di vino, giocatori di dadi ad ogni tavolo ed una manciata di prostitute, quelle che ci si improvvisavano per denaro e quelle costrette perché adesso le fanciulle del popolo dovevano darsi ai conquistatori. Conrad scappò via, temendo che tra quegli uomini si imbattesse nella vista di suo padre.