Kitabı oku: «La figlia dei draghi», sayfa 2
CAPITOLO TERZO
Per tanto tempo nella sua vita, Lenore era stata perfetta, mansueta e obbediente. Era stata il paradigma di una principessa, mentre attorno a lei, le sue sorelle avevano fatto più o meno ciò che desideravano. Nerra si era precipitata spesse volte nella foresta, mentre Erin aveva giocato a fare la guerriera; al contrario, Lenore aveva finito per fare tutto ciò che ci si aspetterebbe da una principessa.
Adesso, però, stava facendo ciò che voleva.
“Siete sicura che dovremmo andare in città, mia signora?” chiese Orianne, mentre camminavano verso l’ingresso del castello. “Potrebbe non essere sicuro andare da sole.”
Un brivido le scivolò giù lungo la colonna, alla memoria del suo rapimento, ma scosse la testa.
“Potrebbero esserci delle minacce fuori dalla città,” disse, “ma Royalsport è sicura. Inoltre, porteremo una guardia.” Ne scelse una. “Tu, tu ci scorterai fino in città, d’accordo?”
“Agli ordini, vostra altezza,” rispose l’uomo, incamminandosi insieme a loro.
“Ma perché in città?” domandò Orianne. “Non ci sareste mai andata prima.”
Quello era vero. Della sua famiglia, Lenore era stata quella che spendeva il minor tempo possibile fuori dal mondo ordinato della corte reale. Adesso, però, adesso poteva farcela. Non poteva sopportare invece di restare lì ad ascoltare altre persone congratularsi con lei per le nozze, mentre suo padre giaceva moribondo e sua madre era poco più che un’ombra addolorata. Non poteva sopportare di restare lì con Finnal, per quanto lui le intimasse di non allontanarsi.
C’era anche un’altra ragione: pensava di aver visto Devin dirigersi in città di tanto in tanto e sperava che potesse essere lì. Il pensiero di parlare con lui tornò a sollevarle il cuore, quando nient’altro sarebbe riuscito a farlo. Il solo pensiero di lui e della sua gentilezza la fece sorridere in un modo che pensava il suo neomarito non avrebbe mai potuto fare.
“Andremo laggiù e faremo sapere alle persone che, anche nel lutto, noi ci siamo per loro,” disse Lenore.
Partì con Orianne e la guardia sulla sua scia, superando le sentinelle al cancello e poi proseguendo giù, verso il corpo della città. Lenore scansionò le Case, alte e maestose su entrambi i lati, inalò l’aroma intenso dell’aria della città, la sensazione dei ciottoli sotto i suoi piedi. Avrebbe potuto viaggiare su una carrozza, ma l’avrebbe isolata dalla città attorno a lei. Inoltre, l’ultima volta che l’aveva fatto era stato per il suo raccolto nuziale, e Lenore stava cercando di sfuggire a quei ricordi, di non rievocarli.
Proseguì dentro un grazioso distretto di giardini vicino al castello, le case laggiù erano chiaramente quelle dei nobili, su strade pulite e non troppo affollate. Non era ancora abbastanza per Lenore; sapeva che Devin proveniva forse da una zona molto più povera di quella, e voleva vedere con i suoi occhi cosa significasse vivere in quel modo a Royalsport.
“Siete sicura di voler andare da questa parte, Lenore?” le domandò Orianne, mentre prendevano un ponte che conduceva verso una zona chiaramente un poco più povera. Le case erano ammucchiate più vicine fra loro e le persone erano impegnate a lavorare più che a oziare. Il fumo della Casa delle Armi si innalzava nel cielo.
“Qui è esattamente dove devo essere,” rispose Lenore. “Devo vedere la città vera, per intero.”
E se fosse capitato loro di trovare Devin lungo la strada, allora sarebbe stato persino meglio. Lenore ammise poi fra sé e sé che il cuore le saltava un battito ogni volta che lo vedeva. Certo, le era capitata la stessa cosa con Finnal, ma c’era una differenza. Devin non era lì per un qualche matrimonio che l’avrebbe portato all’acquisizione di determinati territori, non era circondato da quelle terribili voci. Tutto ciò che Lenore aveva sentito o visto di lui, le mostrava un animo coraggioso e gentile… il tipo di uomo che avrebbe dovuto sposare, se non fosse stato impossibile.
“Un poco più avanti, e saremo vicine alla Casa dei Sospiri,” affermò Orianne. Lenore poteva vederla in lontananza sopra ai tetti, con quei suoi colori sgargianti per dare nell’occhio; e le venne un’idea.
“Dovresti andarci,” disse alla sua domestica. “Parla con… la nostra amica laggiù. Assicurale la nostra gratitudine.”
“Siete sicura?” chiese Orianne. “È una questione delicata essere associate a quel luogo.”
“Sono sicura,” rispose Lenore. Aveva visto Finnal per ciò che era davvero; le servivano quanti più alleati possibile, anche se provenivano da luoghi il cui solo pensiero l’avrebbe una volta fatta arrossire.
“Come desiderate, mia signora,” replicò Orianne, facendo una riverenza e affrettandosi via.
Quello lasciò Lenore sola con la guardia, a vagare per i vicoli. Non aveva in mente una direzione: spostarsi alla cieca e avere la libertà di andare in qualsiasi direzione desiderasse era molto meglio.
Stava ancora girellando quando udì dei passi alle loro spalle. Lenore si accigliò e osservò la guardia.
“Li hai sentiti?” chiese.
“Sentito cosa, vostra altezza?”
Forse erano solo le sue paure, che stavano avendo la meglio su di lei; era fuori, in un luogo che avrebbe dovuto risultarle familiare, eppure era tutto tranne quello. Tuttavia, fu certa di sentire di nuovo dei passi e pensò di aver scorto una sagoma da qualche parte dietro alle sue spalle, lì e poi via di nuovo nei vicoli della città mentre altre persone li superavano. Lenore iniziò ad accelerare il passo.
Prese il successivo paio di svolte a caso, poi imprecò quando lei e la sua guardia si ritrovarono in un vicolo cieco, dentro un cortile tranquillo circondato da case. Si guardò alle spalle e adesso un uomo si stava avvicinando, con indumenti scuri e un coltello in vita; esibiva uno stemma che lo identificava come uno degli uomini del Duca Viris, uno degli uomini di Finnal.
Lenore avrebbe dovuto tirare un sospiro di sollievo alla vista degli uomini di suo marito laggiù, dato che almeno non era un qualche furfante pronto a rapinarla. Al contrario, avvertì la tensione gonfiarsi dentro di lei.
“Che cosa ci fai qui?” domandò. “Chi sei?”
“Mi chiamo Higgis, vostra altezza,” disse l’uomo, facendo un inchino. “Sono un domestico, mandato con delle istruzioni da vostro marito.”
“Quali istruzioni?” chiese Lenore.
L’uomo si sollevò dall’inchino con il coltello già in mano, avvicinandosi alla guardia che Lenore aveva portato con sé e affondando un colpo, poi un altro. Lenore trasalì, appoggiandosi contro il più vicino degli edifici, ma con l’uomo fra lei e l’uscita del cortile, non aveva scampo.
“Sono stato mandato per salvarvi dai mascalzoni che vi hanno aggredita,” rispose l’uomo. Estrasse il coltello e lo mise via. “Hanno ucciso la vostra guardia e vi hanno colpita prima di derubarvi. Tutto perché non avete dato retta alle istruzioni di vostro marito di restare dove vi ha sistemata. Come risultato, sarà costretto a portarvi via dalla città per la convalescenza.”
Il domestico avanzò, scrocchiandosi le nocche.
“Vuoi davvero colpire una principessa?” domandò Lenore. “Ti farò decapitare.”
“No, vostra altezza,” replicò l’uomo. “Non lo farete; al contrario, vostro marito mi ricompenserà, come ha già fatto. Adesso, direi che sarebbe più semplice se restaste ferma, ma questa sarebbe una bugia.”
Caricò un pugno e, per un attimo, Lenore fu certa che non ci sarebbe stato altro che dolore nel suo futuro. Poi una seconda sagoma più minuta si precipitò oltre l’uomo nel cortile, mettendosi fra Lenore e il suo aspirante aggressore.
“Erin?” domandò Lenore.
Sua sorella era lì in piedi, con un bastone fra le mani; lo faceva vorticare con nonchalance mentre aspettava. L’inviato di Finnal non esitò, ma le si precipitò contro. Erin aspettò fino all’ultimo momento e poi si spostò di lato, affondando il bastone nel diaframma dell’uomo e dopo usandolo per colpirlo alle ginocchia e alla testa. L’arma sembrava essere ovunque allo stesso tempo in quel momento, muovendosi in una mossa fulminea resa chiara solo dallo scricchiolio del legno contro la carne.
L’uomo arretrò, estraendo di nuovo il suo coltello, ed Erin tornò ad attaccare con il suo bastone, colpendolo al polso; Lenore udì lo scricchiolio delle ossa quando l’arma le raggiunse. L’uomo gridò, incespicò indietro e poi si voltò e scappò via. Per un momento, Lenore pensò che sua sorella l’avrebbe rincorso, ma si fermò, voltandosi a guardarla.
“Va tutto bene?” chiese. “Ti ha fatto del male?”
Lenore scosse la testa. “Non a me, ma la mia guardia…” Guardò in basso gli occhi sbarrati dell’uomo, fissandoli scioccata. Erano fin troppo simili a quelli che aveva visto in passato. “Che cosa ci fai qui, Erin?”
“Ho pensato di seguirti fino in città. Sono in pausa dagli allenamenti con Odd, ma poi ho visto che quell’uomo ti seguiva e volevo capire cosa stava succedendo.” Fissò Lenore con uno sguardo indagatore. “Che cosa sta succedendo, sorella?”
“Si tratta…” Lenore costrinse la sua voce a restare pacata. Non si sarebbe comportata da debole, non avrebbe tremato e fatto l’isterica, non sarebbe stata niente di ciò che Finnal probabilmente pensava fosse. “Si tratta del mio neomarito.”
“Finnal?” domandò Erin.
“È davvero cattivo quanto dicono, Erin,” rispose Lenore. “Si preoccupa solo di cosa può ottenere dal nostro matrimonio; non gli importa niente di me. E ha… ha mandato quell’uomo a picchiarmi perché ho lasciato il castello senza chiedergli il permesso.”
Il volto di Erin era duro. “Lo ucciderò. Lo sgozzerò e metterò la sua testa in cima a un palo.”
“No,” disse Lenore. “Non puoi farlo. Uccidere il figlio del Duca Viris? Ne deriverebbe una guerra civile.”
“Credi che mi interessi?” domandò Erin.
“Penso che debba interessarci,” rispose Lenore. “No, noi dobbiamo essere più furbe di così.”
“Noi?” chiese Erin.
“La mia domestica, Orianne, sa com’è Finnal. Ci aiuterà e così faranno gli altri, come Devin.”
Lenore non sapeva perché le venne in mente proprio il suo nome, ma così accadde.
“Tutto qui?” domandò Erin e poi scosse la testa. “Beh, è un inizio. Potremmo andare da Vars.”
“Non gliene importerebbe niente,” sottolineò Lenore. “Avrei già trovato un modo per divorziare da Finnal, se pensassi che Vars mi ascolterebbe.”
“Allora troveremo qualcosa che persino lui ascolterà,” insistette Erin.
Lenore scosse la testa. “Non sarà facile.”
Erin sospirò. “Lo so, ma ti giuro, Lenore, che Finnal non ti farà più male di quanto non abbia già fatto. Nessuno lo farà. D’ora in poi, io verrò ovunque andrai e se qualcuno ti attaccherà… io sarò al tuo fianco e caverò il cuore dal petto a chiunque provi a farlo.”
CAPITOLO QUARTO
Nerra si inginocchiò accanto alle acque della fontana del tempio, fra le ossa di coloro che ci avevano provato in passato ed erano morti. Sopra di lei, le pendenze del vulcano sembravano guardare in basso rabbiose, vietandole di azzardare ciò che stava per fare. Guardandosi le braccia, poteva vedere le chiazze della malattia a squame lì sopra; le sue linee erano scure sulla sua pelle.
Non sarebbe morta come Lina. Anche se quelle acque l’avessero uccisa, sarebbe stato meglio che aspettare che la malattia la reclamasse laggiù sull’isola, dove il suo drago l’aveva portata. Assistere alla morte della sua amica, l’aveva spinta a percorrere tutta quella strada fino al tempio, alla fontana che aveva promesso al custode dell’isola, Kleos, che non avrebbe cercato.
Ne bevve le acque a quel punto; le deglutì in un singolo sorso lungo, che le prosciugò le mani che aveva messo a coppa. Non pareva avere senso sorseggiarla, quando un minimo tocco dell’acqua avrebbe dovuto portare alla morte.
Non osò sperare in una qualsiasi altra conseguenza.
“Non la chiamerebbero una fontana della guarigione se fosse solo una menzogna,” gridò, come se farlo potesse far avverare la sua affermazione. “Non avrebbero costruito tutto questo.”
Perché costruire un tempio all’aria aperta, se l’unico obiettivo fosse uccidere chi arriva? Perché preoccuparsi di metterci anche una fontana, o la strana pressione che l’aveva trattenuta dall’arrivo mentre percorreva le pendenze del vulcano? Kleos, il custode dei malati, le aveva detto che bere significava morire, che era tutto solo finalizzato a fare in modo che chi aveva la malattia del drago si uccidesse, ma Nerra doveva sperare che si sbagliasse, mentisse o entrambi.
Avrebbe funzionato. Doveva farlo.
Si alzò e rivolse lo sguardo all’isola attorno a lei, così vicina al continente di Sarras pur non essendone parte. Guardò quel feroce paesaggio vulcanico che aveva attraversato e poi la giungla al di là. Da lì, non poteva vedere il piccolo villaggio che cercava di contenere morti e morenti, coloro che lenti si trasformavano da malati a cose mostruose che conoscevano solo la fame e la morte. Non era meglio tentare quest’impresa che restare lì seduta, ad aspettare l’amara grazia del coltello di Kleos quando si sarebbe torta abbastanza?
Nerra restò lì in piedi, in attesa, cercando di immaginare l’acqua che lavorava al suo interno. Avrebbe già dovuto avvertire qualcosa? Conosceva le erbe abbastanza bene da sapere che di rado gli effetti erano immediati, ma in qualche modo si era aspettata che la guarigione delle acque fosse…
Gridò quando il dolore la colpì, così pungente e consumante da metterla di nuovo in ginocchio. Si aggrappò al suo stomaco, mentre il corpo le si contorceva agonizzante e le sue grida uscivano così rapide da non lasciarle neanche il tempo di respirare.
Kleos non aveva mentito; la fontana era un veleno per chi ne avesse bevuto le acque. Nerra poteva sentire quel liquido al suo interno adesso, le si dimenava dentro come una specie di serpente spinato, bruciando tutto come avesse ingoiato la lava del vulcano invece che mera acqua. Cercò di vomitarla, ma non ci riuscì; non aveva neanche più abbastanza controllo su se stessa per farlo.
“Ti prego…” gridò Nerra.
Le sembrò che il suo corpo si stesse facendo a pezzi da solo, muscolo dopo muscolo, osso dopo osso. Sembrava che ogni suo frammento fosse in guerra con il resto, scatenando un conflitto dove lei era il campo di battaglia, i guerrieri e la pianura sterile che avrebbe abbattuto, mentre le strappava via la vita.
“No…” urlò Nerra. Si ritrovò a pensare in quel momento a tutto ciò che era stata costretta a lasciarsi alle spalle nel Regno del Nord, a tutto ciò che non avrebbe mai più rivisto, mentre l’agonia di quelle acque mortali divampava al suo interno. Pensò ai suoi fratelli e alle sue sorelle, all’elegante Lenore e alla tutto tranne che elegante Erin, a Rodry che era sempre così veloce ad attaccare per difendere il prossimo e a Greave che era invece tranquillo e coscienzioso. Si ritrovò a pensare addirittura a Vars.
Al di sopra di tutto, però, si ritrovò a pensare al drago che aveva trovato. Nell’occhio della sua mente, era cresciuto, in un modo eccessivamente rapido, le sue squame brillavano con la lucentezza di un arcobaleno, le sue ali erano aperte mentre si librava in aria. L’immagine era così nitida che Nerra alzò lo sguardo, quasi aspettandosi di vederlo in cielo, come era successo quando i banditi l’avevano sorpresa nella foresta. L’aveva portata lì, quindi perché adesso non c’era?
Era sola però; più sola che mai. Persino nella foresta, c’erano gli animali e un senso di pace. Adesso… adesso c’era solo il dolore a riempirla, a contorcerla, a spezzarla. Nerra sentì il suo braccio spezzarsi e gridò, sentì i muscoli delle sue dita contrarsi così forte da frantumarle le ossa all’interno.
A un certo punto del processo, doveva essere svenuta per il dolore, perché rivide il drago, vide diversi draghi sollevarsi ancora su Sarras, in volo e in stormo a riempire il cielo. Volteggiarono su di lei e poi vi si ritrovò in mezzo, osservava la moltitudine dei loro colori, nero e rosso, dorato e smeraldo, e altri ancora.
Un secondo dopo era a terra, si spostava tra i resti degli edifici adesso molto più antichi di qualsiasi cosa giacesse nel Regno del Nord; erano cose che sembravano cresciute da sole, invece che essere state costruite. Pensò di aver scorto altre sagome muoversi tra quegli edifici, comparire agli estremi del suo campo visivo, ma ogni volta che cercava di girare la testa per acquisire una vista migliore, pareva che si sparpagliassero e scomparissero in lontananza, impossibili da raggiungere.
Nerra cercò di rincorrere quelle figure, ma fuggirono in tunnel le cui pareti si spostavano e allungavano appena lei vi si gettava dentro. Fu una pietra vivente a raggiungerla e afferrarla, per deformarla come argilla fino a farle perdere il respiro e impedirle di urlare persino in sogno.
Poi fece ciò che non si sarebbe mai aspettata di fare: si svegliò.
Era impossibile dire quanto tempo fosse passato. Il sole era ancora alto in cielo, ma poteva essere trascorsa una dozzina di giorni per quanto ne sapeva Nerra. Le doleva il corpo alla memoria dell’agonia alla quale quell’acqua l’aveva assoggettata, e si sentì così debole che…
No, aspetta; non si sentiva debole. Si sentiva assetata, affamata e stanca, ma non debole. Al contrario, si sentiva forte. Si alzò e, per la prima volta da ciò che sembrava un’eternità, non aveva alcun segno delle vertigini che l’avevano accompagnata per tutta la vita. Tuttavia, Nerra cadde quasi. I muscoli delle sue gambe sembravano… sbagliati, in qualche modo. Diversi.
Persino il mondo attorno a lei sembrava diverso, cambiato in un certo senso. I suoi colori erano lievemente cambiati, come se potesse vedere più di essi che mai, mentre sembrava che la fragranza della giungla vicina fosse così forte che poteva quasi assaggiarla.
Adesso, però, non importava. Ciò che importava era che fosse sopravvissuta. Quello significava… quello significava che era guarita? La fontana l’aveva curata?
Nerra a malapena osava sperare che potesse essere vero, che potesse essere sopravvissuta quando tanti altri erano morti, ma la speranza iniziò sì a sollevarsi dentro di lei. Era senz’altro viva e tutte quelle terribili sensazioni delle ossa che le si spezzavano erano adesso sparite. Se era intera, era troppo sperare che potesse anche essere guarita?
Poi Nerra vide il suo braccio. Era ancora un braccio umanoide, non deformato in quell’orrende cose malfatte in cui si tramutavano coloro che avevano la malattia del drago e restavano al villaggio, ma era adesso del tutto ricoperto da iridescenti squame di un blu profondo. I muscoli si muovevano sotto alla sua pelle, molto più spessi di com’erano stati prima e, persino mentre si osservava, Nerra vide gli artigli estendersi dalle sue dita, con un aspetto affilato e malvagio.
Gridò sotto shock alla vista del suo braccio ridotto in quel modo; iniziò ad artigliarsi le squame, e aveva gli artigli per farlo, il che la faceva solo sentire peggio. Che cosa le stava accadendo, che cosa era diventata? Si sentiva come non potesse respirare e quello non aveva niente a che vedere con la malattia, ma solo con l’assoluta stranezza di ciò che stava accadendo. Fece un passo indietro, ma quello la portò solo verso la piscina d’acqua. Non poteva fermarsi; doveva guardare.
L’essere che rispose a quel suo sguardo fisso era del tutto diverso da ciò che era stata, ma non era quella cosa rotta e deformata che aveva tanto temuto di diventare. Nerra poté solo guardarlo per lunghi secondi, incapace di dargli un senso; orrore, shock e un totale fascino si battevano per la supremazia dentro di lei.
La sua pelle era squamosa, i suoi occhi gialli come quelli di un serpente, i suoi tratti dispiegati in qualcosa di più draconico, eppure c’era un’innegabile simmetria e bellezza in quei lineamenti. Nerra avrebbe del tutto rifiutato quell’immagine, eppure, guardandola, c’era qualcosa che le ricordava lei stessa. Persino la memoria dei suoi capelli era lì, in ciocche frondose che somigliavano alla cresta di una lucertola. Il suo corpo era altrettanto squamoso e più muscoloso adesso, capace di muoversi sinuoso grazie al riassetto delle sue articolazioni, eppure non aveva l’aspetto di un mostro.
“Certo che sono un mostro!” disse forte e la sua voce era l’unica parte di lei che non sembrava cambiata. Quello rese tutto peggiore in qualche modo, invece che migliore. Come poteva quella parte di lei essere rimasta invariata, quando tutto il resto si era trasformato? Un pensiero la raggiunse: nessuno della sua famiglia l’avrebbe adesso riconosciuta, aveva perso tutto. La rabbia le si scatenò dentro, repentina, improvvisa e totale; afferrò un pezzo di muro del tempio e lo fece a pezzi a mani nude. Fu solo allora che comprese quanto fosse forte nelle sue nuove sembianze.
La rabbia era ancora lì, e Nerra poteva sentirla battersi per emergere in superficie, per avere la meglio, come chi si trasformava al villaggio lasciava spazio a una creatura irrazionale. Nerra si ribellò a essa, allo shock, al dolore profondo di quella trasformazione, relegando tutto nelle periferie del suo essere e rifiutandosi di diventare qualcosa di simile. Si sporse dal lato della pozza, fissando giù nell’acqua, costringendosi a osservare quella versione mutata della sua persona, finché pensò che poteva sopportarlo.
La fontana non l’aveva uccisa, non l’aveva curata, l’aveva cambiata. Era stata come un catalizzatore per la trasformazione connessa alla malattia, ma l’aveva portata direttamente oltre alle creature malfatte che di solito creava, per renderla qualcosa di lucente e flessibile, dall’aspetto umano e di lucertola, tutto in una volta.
Nerra non sapeva cosa fare con quel pensiero, non sapeva come superare lo shock di chi era, di com’era diventata. Non lo comprendeva, non sapeva quale avrebbe dovuto essere la sua mossa successiva. Aveva bisogno di capire cosa stava succedendo e cosa le era successo, ma c’era un solo posto dove avrebbe potuto trovare le risposte ed era lo stesso dove avrebbero potuto ucciderla per com’era ora.
Procedendo a passo lungo sulla superficie del vulcano, Nerra si mise in cammino di nuovo verso il villaggio.