Kitabı oku: «Un Cielo Di Incantesimi », sayfa 2

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CAPITOLO DUE

Luanda lottava e si dimenava mentre Romolo la trasportava tenendola in braccio, portandola a ogni passo più distante dalla sua madre patria attraversando il ponte. Luanda gridava e cercava di divincolarsi, affondava le unghie nella pelle di Romolo, cercava di fare il possibile per liberarsi. Ma le sue braccia erano troppo muscolose, forti come roccia. Aveva le spalle troppo larghe e la teneva così saldamente, stringendola come farebbe un pitone, strizzandola quasi a morte. Luanda riusciva a malapena a respirare e le costole le facevano tremendamente male.

Nonostante tutto non era per lei che si preoccupava di più. Guardando dritto davanti sé vedeva, alla lontana estremità opposta del ponte, una marea di soldati che stavano lì, con le armi pronte, in attesa. Erano tutti ansiosi che lo Scudo si disattivasse così da poter accedere al ponte. Luanda vide lo strano mantello che Romolo indossava, vibrante e scintillante mentre lui la reggeva e sentì che aveva qualcosa a che vedere con lei. Perché aveva deciso di rapire proprio lei?

Luanda provò una nuova determinazione: doveva liberarsi, non solo per se stessa ma per il suo regno, per il suo popolo. Quando Romolo avesse disattivato lo Scudo, quelle migliaia di uomini in attesa si sarebbero lanciati ad attraversare il ponte: una vasta orda di soldati dell’Impero che, come locuste, sarebbe discesa sull’Anello. Avrebbero distrutto per sempre ciò che era rimasto della sua patria e lei non poteva permettere che accadesse.

Luanda odiava Romolo con tutta se stessa. Odiava tutta quella gente dell’Impero, e sopra a tutti odiava Andronico. Una folata di vento soffiò e lei sentì la brezza fredda che le sferzava la testa calva. Sbuffò, ricordando così di non avere più capelli, l’umiliazione subita per mano di quelle bestie. Li avrebbe uccisi tutti e uno per uno se avesse potuto.

Quando Romolo l’aveva liberata dalle corde che la tenevano imprigionata all’accampamento di Andronico, inizialmente Luanda aveva pensato di essere stata risparmiata a un destino orribile, risparmiata dall’essere portata a sfilare attorno all’Impero come un animale di Andronico. Ma Romolo aveva dimostrato di essere ben peggiore di Andronico. Era certa che non appena avessero attraversato il ponte l’avrebbe uccisa, se non prima addirittura torturata. Doveva trovare un modo per scappare.

Romolo si chinò in avanti e le sussurrò in un orecchio con voce profonda e roca che le fece accapponare la pelle: “Non manca ancora molto, tesoro.”

Doveva riflettere velocemente. Luanda non era una schiava, ma la figlia primogenita di un re. C’era sangue reale che le scorreva nelle vene, sangue di guerrieri, e lei non aveva paura di nessuno. Avrebbe fatto qualsiasi cosa fosse necessaria per sconfiggere qualsiasi avversario, anche qualcuno grottesco  e potente come Romolo.

Luanda raccolse tutte le forze che le rimanevano e con un solo velocissimo movimento allungò il collo, si sporse in fuori e affondò i denti nella gola di Romolo. Morse con tutta la sua forza, spingendo i denti a fondo, fino a che il sangue spruzzò ovunque e lui gridò lasciandola cadere. Luanda si mosse velocemente sulle ginocchia, si voltò e partì, correndo nella direzione da cui erano arrivati, riattraversando il ponte verso la propria terra.

Sentì i passi di lui che le si precipitavano contro. Era molto più veloce di quanto avesse immaginato e quando si guardò alle spalle lo vide avventarsi su di lei con un’espressione di rabbia pura.

Guardò davanti a sé e vide la terra dell’Anello a neanche dieci metri da lei. Corse ancora più veloce.

Dopo pochi passi sentì una fitta lancinante alla spina dorsale: Romolo si era tuffato in avanti e le aveva affondato i gomiti nella schiena. Si sentì come se l’avesse spezzata a metà quando cadde a terra a faccia in giù nella terra.

Un momento dopo Romolo era sopra di lei. La fece girare e le diede un pugno in faccia. La colpì così forte che tutto il corpo si rovesciò e Luanda atterrò di schiena al suolo. Il dolore le riverberò nella mascella, in tutta la faccia, mentre giaceva a terra quasi priva di conoscenza.

Luanda sentì che Romolo la sollevava in alto sopra la propria testa e guardò con orrore mentre correva verso il bordo del ponte, pronto a scagliarla nel precipizio. Lanciò un grido mentre stava lì in piedi, tenendola sopra la propria testa, pronto a gettarla giù.

Luanda guardò la profonda caduta e capì che la sua vita stava per finire.

Ma Romolo la tenne lì, paralizzato e parve pensarci due volte. Mentre la sua vita stava in bilico, Romolo sembrava dibattuto. Chiaramente avrebbe voluto gettarla oltre il parapetto nel suo slancio di rabbia, ma non poteva. Aveva bisogno di lei per portare a compimento  il suo scopo.

Alla fine la abbassò, la cinse con le braccia tenendola più stretta di prima, quasi soffocandola. Poi si affrettò di nuovo ad attraversare il Canyon, di nuovo in direzione dei suoi uomini.

Questa volta Luanda rimase ferma lì, floscia, completamente dolorante, incapace di fare qualsiasi altra cosa. Aveva tentato e aveva fallito. Adesso tutto ciò che poteva fare era guardare il destino che le si prospettava davanti agli occhi, avvicinandosi di passo in passo, mentre veniva trasportata attraverso il Canyon, avvolta dalle nebbie vorticanti che si levavano verso l’alto, svanendo con la medesima velocità alla quale erano comparse. Luanda si sentiva come se la stessero trasportando in un altro mondo, in un luogo da cui non sarebbe mai tornata.

Alla fine raggiunsero l’estremità del Canyon e quando Romolo fece l’ultimo passo il mantello attorno alle sue spalle vibrò emettendo un forte rumore e brillando di rosso. Romolo lasciò cadere Luanda a terra, come fosse una patata vecchia, e lei colpì il suolo con violenza, sbattendo la testa e rimanendo stesa a terra.

I soldati di Romolo rimasero fermi lì, al limitare del ponte, guardando davanti a loro, tutti evidentemente timorosi di fare un passo avanti e provare se lo Scudo fosse veramente disattivo.

Romolo, irritato, afferrò un soldato, lo sollevò in aria e lo scagliò sul ponte, proprio contro il muro invisibile che una volta costituiva lo Scudo. Il soldato sollevò le braccia e gridò, preparandosi a una morte certa e aspettandosi di venire disintegrato.

Ma questa volta accadde qualcosa di diverso. Il soldato volò in aria, atterrò sul ponte e rotolò. La folla guardò in silenzio mentre si fermava, vivo.

Il soldato si voltò, si mise a sedere e li guardò: era più scioccato di loro. Ce l’aveva fatta. Il che poteva significare solo una cosa: lo Scudo era disattivo.

L’esercito di Romolo levò un forte grido, come un ruggito, e tutti insieme si lanciarono alla carica. Si riversarono sul ponte, correndo verso l’Anello. Luanda arretrò, cercando di stare fuori dalla traiettoria dei loro piedi che calpestavano ovunque, come un branco di elefanti diretti verso la sua terra. Li guardò con orrore.

Sapeva che per la sua patria era finita.

CAPITOLO TRE

Reece si trovava sul bordo del calderone di lava e ne guardava il fondo incredulo e sconcertato mentre la terra tremava violentemente sotto i suoi piedi. Faceva fatica a comprendere ciò che aveva appena fatto: i muscoli gli facevano ancora male dopo aver lasciato cadere il masso, scagliando la Spada della Dinastia nel calderone.

Aveva appena distrutto l’arma più potente dell’Anello, l’arma della leggenda, la spada che era stata dei suoi antenati per intere generazioni, l’arma del Prescelto, l’unica arma che potesse mantenere attivo lo Scudo. L’aveva lasciata cadere nel calderone di fuoco e lava e con i suoi stessi occhi l’aveva vista sciogliersi, avvampare trasformandosi in una grossa palla rossa e poi scomparire nel nulla.

Andata per sempre.

Da quel momento il terreno aveva iniziato a tremare e non aveva ancora smesso. Reece e gli altri facevano fatica a rimanere in equilibrio. Si allontanò dal calderone. Si sentiva come se il mondo gli stesse crollando attorno. Cosa aveva fatto? Aveva distrutto lo Scudo? L’Anello? Aveva fatto il più grosso errore della sua vita?

Si rincuorò dicendosi che non aveva altra scelta. Il masso e la Spada erano troppo pesanti perché loro potessero trasportarli fuori di lì, tanto più per scalare le pareti del Canyon o comunque sfuggire a quei violenti selvaggi. Si era trovato in una situazione disperata che gli aveva richiesto una soluzione altrettanto disperata.

E la disperazione della loro condizione non era ancora mutata: Reece udì un forte insieme di grida attorno a lui, un suono che si levò da un migliaio di quelle creature che digrignavano i denti in un modo snervante, ridendo e ringhiando contemporaneamente. Sembravano un esercito di sciacalli. Era evidente che Reece li aveva fatti arrabbiare: li aveva privati del loro prezioso oggetto e ora sembravano tutti determinati a fargliela pagare.

Se prima la situazione non era delle migliori, ora era addirittura peggiore. Reece scorse gli altri – Elden, Indra, O’Connor, Conven, Krog e Serna – che fissavano in basso con orrore guardando il calderone di lava. Poi sollevarono gli sguardi e si guardarono attorno disperati. Migliaia di Cerbiti gli si stavano stringendo addosso provenendo da ogni direzione. Reece era riuscito a risparmiare la Spada ma non aveva pensato al dopo, non aveva pensato a come scampare – lui e gli altri – al pericolo. Erano ancora completamente circondati e non c’era via d’uscita.

Reece era determinato a trovare una via di fuga e ora, senza più il fardello della Spada, potevano almeno muoversi velocemente.

Sguainò la propria spada e tirò un fendente in aria emettendo il caratteristico suono. Perché rimanere fermi lì e aspettare che quelle creature attaccassero? Almeno sarebbe morto combattendo.

“ALL’ATTACCO!” gridò Reece agli altri.

Sguainarono tutti le loro armi e si raccolsero dietro a lui, seguendolo mentre scattava allontanandosi dal calderone di lava e lanciandosi nella folla di Cerbiti, roteando la spada da ogni parte e uccidendone a destra e a manca. Accanto a lui Elden sollevò la sua ascia da guerra e iniziò a tagliare due teste alla volta, mentre O’Connor scoccava frecce in corsa, colpendo tutti quelli che gli si paravano davanti. Indra si scagliò in avanti con la sua spada corta pugnalandone due al cuore, mentre Conven usava entrambe le sue spade e, gridando come un pazzo, correva in avanti roteandole selvaggiamente e uccidendo Cerbiti da ogni parte. Serna usava la sua mazza e Krog una lancia, proteggendo le spalle ai compagni.

Erano una compatta macchina da guerra e lottavano per le loro vite, facendosi strada attraverso la fitta folla, cercando disperatamente di fuggire. Reece li condusse verso la cima di una collina, intenzionato a salire in un punto sopraelevato.

Scivolavano mentre avanzavano, la terra tremava ancora, la salita era ripida e il terreno fangoso. Persero un po’ dello slancio iniziale e diversi Cerbiti saltarono addosso a Reece, graffiandolo e mordendolo. Lui si voltò e li prese a pugni, ma quelli erano persistenti e gli stavano aggrappati addosso. Alla fine riuscì a liberarsene calciandoli a terra e poi pugnalandoli prima che potessero risollevarsi e attaccare di nuovo. Graffiato e ammaccato Reece continuò a combattere come tutti gli altri, cercando di salvarsi la vita e scalare la collina per fuggire da quel luogo.

Quando finalmente raggiunsero la sommità dell’altura, Reece ebbe un attimo di tregua. Rimase fermo lì, respirando affannosamente e cercando di riprendere fiato, e in lontananza vide uno scorcio della parete del Canyon velata da densa nebbia. Sapeva che quello era il confine oltre il quale si trovava la loro salvezza: dovevano tornare in superficie per avere salva la vita, dovevano raggiungere quella parete.

Reece si guardò alle spalle e vide migliaia di Cerbiti che correvano in salita verso di loro, vibrando, battendo i denti, emettendo quel verso tremendo più forte che mai. Capì che non li avrebbero lasciati scappare.

“E io?” gridò una voce squarciando l’aria.

Reece si voltò e vide Centra ancora là sotto. Era ancora prigioniero, dietro al capo dei Cerbiti, sempre con un coltello puntato alla gola.

“Non abbandonatemi!” gridò. “Mi uccideranno!”

Reece rimase fermo, ardendo per la frustrazione. Ovviamente Centra aveva ragione: l’avrebbero ucciso. Non poteva lasciarlo lì, sarebbe andato contro il suo codice d’onore. Dopotutto Centra li aveva aiutati quando erano stati nel bisogno.

Reece esitò. Si voltò e vide in lontananza la parete del Canyon, la loro via di fuga, che lo tentava.

“Non possiamo tornare da lui!” disse Indra nervosamente. “Ci uccideranno.”

Diede un calcio a un Cerbito che le si stava avvicinando e quello cadde all’indietro, scivolando sulla schiena lungo la discesa.

“Saremmo già abbastanza fortunati a salvarci la pelle noi stessi!” gridò Serna.

“Non è uno di noi!” disse Krog. “Non possiamo rischiare tutti la vita per lui!”

Reece rimase fermo, dibattuto. I Cerbiti si stavano avvicinando e sapeva che era necessario prendere subito una decisione.

“Avete tutti ragione,” ammise. “Non è uno di noi. Ma ci ha aiutati. Ed è un buon uomo. Non posso abbandonarlo alla mercé di queste creature. Nessuno deve essere lasciato alle spalle!” disse con fermezza.

Iniziò quindi a dirigersi verso il versante della collina per tornare verso Centra, ma prima che potesse fare un passo,. Conven si staccò improvvisamente dal gruppo e corse giù, saltando e scivolando sul pendio fangoso, con i piedi ben piantati a terra e la spada sguainata, colpendo chiunque si trovasse sulla sua traiettoria mentre scivolava verso il basso, uccidendo Cerbiti a destra e a sinistra. Si lanciò verso il punto in cui si trovavano prima, temerariamente, gettandosi senza esitazione nel mezzo del gruppo di Cerbiti e riuscendo in qualche modo a farsi strada attraverso di loro con assoluta determinazione.

Reece balzò in azione dietro di lui.

“Voi altri restate qui!” gridò. “Aspettateci!”

Reece seguì le tracce di Conven, colpendo Cerbiti da ogni parte e raggiungendo il compagno per fornirgli manforte: i due combatterono insieme per farsi strada verso Centra.

Conven si lanciava in avanti facendosi spazio tra la folla di Cerbiti mentre Reece si dirigeva verso Centra che li guardava con occhi sgranati per la paura. Un Cerbito sollevò il suo pugnale per tagliare la gola a Centra, ma Reece non gliene diede la possibilità: si fece avanti, sollevò la spada, prese la mira e la lanciò con tutta la sua forza.

La spada volò in aria, roteando e andò a conficcarsi nella gola del Cerbito proprio un momento prima che questi potesse uccidere Centra. Centra gridò guardando il Cerbito morto a pochi centimetri da lui, i volti vicinissimi.

Con sorpresa di Reece Conven non andò verso Centra, ma continuò a correre lungo la collina. Reece vide con orrore cosa stava per fare: Conven sembrava avere intenti suicidi. Si fece strada attraverso il gruppo di Cerbiti che circondavano il loro capo, seduto in alto su una piattaforma intento a guardare la battaglia. Conven uccise Cerbiti da ogni parte: non sembravano aspettarsi una cosa del genere e tutto accadde troppo velocemente perché potessero reagire. Reece si rese conto che Conven si stava dirigendo verso il capo.

Gli si avvicinò, balzò in aria, sollevò la spada  e, quando il capo si rese conto di cosa stava succedendo e cercò di scappare, Conven lo pugnalò al cuore. Il capo gridò e improvvisamente si udì un coro di migliaia di strilli provenienti da tutti gli altri Cerbiti, come se anche loro fossero stati pugnalati. Era come se condividessero il medesimo sistema nervoso, e Conven lo aveva distrutto.

“Non avresti dovuto farlo,” gli disse Reece tornando al suo fianco. “Ora hai dato inizio a una guerra.”

Mentre guardava con orrore, Reece vide esplodere una piccola collina dalla quale uscirono migliaia di Cerbiti che si riversarono all’esterno come uno sciame di formiche. Reece si rese conto che Conven aveva ucciso quello che per loro equivaleva a un’ape regina, suscitando così l’ira di un’intera nazione di quelle creature. Il terreno tremava sotto i loro passi mentre tutti insieme digrignavano i denti e si lanciavano all’attacco contro Reece, Conven e Centra.

“PRESTO!” gridò Reece.

Reece spinse Centra, che era paralizzato dallo shock, e tutti si voltarono iniziando a correre verso gli altri, facendosi strada a fatica lungo lo scivoloso e fangoso pendio.

Reece sentì un Cerbito saltargli sulla schiena e schiacciarlo a terra. Lo aveva afferrato per le caviglie e lo trascinava giù dal versante, abbassando le zanne verso il suo collo.

Una freccia passò vicino alla testa di Reece e si udì il suono della punta che trafiggeva la carne. Sollevando lo sguardo Reece vide O’Connor, in cima alla collina, con il suo arco in mano.

Reece si rimise in piedi aiutato da Centra, mentre Conven copriva loro le spalle respingendo i Cerbiti. Alla fine riuscirono a percorrere l’ultimo tratto di salita e a raggiungere gli altri in cima.

“Felici di riavervi tra noi!” gridò Elden mentre continuava a combattere respingendo numerosi Cerbiti con la sua ascia.

Reece si fermò, scrutando tra la nebbia e chiedendosi da che parte andare. Il sentiero si biforcava e lui stava per dirigersi verso destra.

Ma Centra improvvisamente gli passò accanto andando invece a sinistra.

“Seguitemi!” gridò continuando a correre. “È l’unica strada!”

Mentre migliaia di Cerbiti iniziavano a risalire il pendio, Reece e gli altri si voltarono e si misero a correre seguendo Centra, scivolando e incespicando in discesa dall’altra parte della collina. Il terreno intanto continuava a tremare. Seguirono la guida di Centra e Reece si sentiva più felice che mai che gli avessero salvato la vita.

“Dobbiamo tornare verso il versante del Canyon!” gridò Reece, non sicuro di quale direzione Centra stesse seguendo.

Correvano, facendosi strada tra gli albero grossi e nodosi, seguendo con sforzo Centra mentre lui proseguiva nel mezzo della nebbia seguendo un irregolare sentiero di terra ricoperto di radici.

“C’è solo un modo di seminare quelle bestie!” gridò Centra. “Restate sul mio sentiero!”

Seguirono Centra standogli alle calcagna, correndo e inciampando sulle radici, graffiandosi contro i rami, sforzandosi di vedere qualcosa attraverso la nebbia. Reece incespicò più di una volta su quel tracciato irregolare.

Corsero fino ad avere i polmoni dolenti, seguiti dall’orribile verso di quei mostriciattoli che a migliaia si avvicinavano. Elden e O’Connor aiutavano Krog che li stava rallentando. Reece sperava e pregava che Centra sapesse veramente dove stavano andando, perché da lì non riusciva per niente a vedere la parete del Canyon.

Improvvisamente Centra si fermò di colpo e allungò una mano bloccando Reece al petto, facendolo immobilizzare.

Reece guardò verso il basso e vide ai suoi piedi una ripida discesa che precipitava verso un fiume che scorreva più sotto.

Reece si voltò verso Centra confuso.

“Acqua,” spiegò Centra, respirando affannosamente. “Hanno paura di attraversare l’acqua.”

Tutti gli altri si fermarono dietro di loro, fissando le turbolente rapide, cercando di riprendere fiato.

“È la vostra unica possibilità,” aggiunse Centra. “Attraversate questo fiume e farete loro perdere le tracce, per ora, guadagnando tempo.”

“Ma come?” chiese Reece, fissando le schiumanti acque verdi.

“Quelle correnti ci ammazzeranno,” disse Elden.

Centra fece un sorrisetto.

“È la minore delle vostre preoccupazioni,” rispose. “Quell’acqua è piena di quatterni, gli animali più letali dell’intero pianeta. Cadete là dentro e vi faranno a pezzi.”

Reece fissò le acque pensieroso.

“Quindi non possiamo nuotarci,” disse O’Connor. “E non vedo nessuna barca.”

Reece si guardò alle spalle: il rumore dei Cerbiti si faceva sempre più vicino.

“Questa è la vostra unica possibilità,” disse Centra allungandosi e tirando una lunga liana appesa ad un albero che aveva rami penzolanti sul fiume. “Dobbiamo passare dall’altra parte oscillando su questi,” disse. “Cercate di non scivolare. E di non cadere fuori dalla riva. Quando uno arriva dall’altra parte, ci ritira indietro la liana.”

Reece guardò le acque gorgoglianti in basso e proprio in quel momento vide un’orribile piccola creatura gialla saltare sulla superficie, simile a un pesce luna, tutto mandibola, che schioccava i denti ed emetteva strani rumori. Ce n’erano banchi interi e pareva che stessero tutti aspettando il loro prossimo pasto.

Reece si guardò un’altra volta oltre la spalla e vide un esercito di Cerbiti all’orizzonte, in rapido avvicinamento. Non c’era altra scelta.

“Puoi andare tu per primo,” disse Centra a Reece.

Reece scosse la testa.

“Io andrò per ultimo,” rispose. “In caso non ce la facessimo tutti in tempo. Vai tu per primo. Sei stato tu a portarci qui.”

Centra annuì.

“Non serve che me lo chiedi due volte,” disse sorridendo e lanciando una nervosa occhiata ai Cerbiti che si stavano avvicinando.

Centra afferrò saldamente la liana e con un grido balzò nel vuoto, oscillando rapidamente al di sopra delle acque appeso alla liana e sollevando i piedi per evitare che le creature di sotto lo mordessero. Alla fine atterrò sulla sponda opposta.

Ce l’aveva fatta.

Centra si rimise in piedi, sorridendo, afferrò la liana e la fece oscillare rispedendola dall’altra parte del fiume.

Elden si allungò e la afferrò, porgendola ad Indra.

“Prima le signore,” disse.

Lei sorrise.

“Non c’è bisogno di smancerie,” disse. “Sei grosso, potresti rompere la liana. Vai tu e falla finita. E non cascare là dentro, altrimenti a questa donna toccherà pure salvarti.”

Elden fece un sorriso per niente divertito e afferrò la liana.

“Stavo solo cercando di essere gentile,” disse.

Saltò con un grido, sfrecciò in aria e atterrò sulla riva opposta accanto a Centra.

Rimandò indietro la liana e fu la volta di O’Connor, poi di Serna, Indra e Conven.

Gli ultimi due rimasti erano Reece e Krog.

“Bene, mi pare di capire che siamo rimasti solo noi due,” disse Krog. “Vai, salvati,” aggiunse guardandosi nervosamente alle spalle. “I Cerbiti sono troppo vicini e non c’è tempo per entrambi.”

Reece scosse la testa.

“Nessun uomo viene lasciato indietro,” disse. “Se tu non vai, allora non vado neanche io.”

Rimasero fermi entrambi, cocciuti. Krog, sempre più nervoso, scosse la testa.

“Sei un pazzo. Perché ti interessi tanto a me? Io non ti darei la metà delle attenzioni.”

“Sono il capo ora, il che ti rende una mia responsabilità,” rispose Reece. “Non mi interessa per te. Mi interessa dell’onore. E il mio onore mi ordina di non lasciarmi nessuno alle spalle.”

Si voltarono entrambi mentre il primo Cerbito li raggiungeva. Reece fece un passo avanti, accanto a Krog, ed entrambi colpirono con le loro spade uccidendone numerosi.

“Andiamo insieme!” gridò Reece.

Senza sprecare altro tempo Reece afferrò Krog, lo cinse attorno alle spalle, prese la fune e insieme lanciarono un urlo mentre si lanciavano in aria un attimo prima che i Cerbiti invadessero la costa.

I due sfrecciarono in aria volando verso la riva opposta.

“Aiuto!” gridò Krog.

Stava scivolando dalla presa delle spalle di Reece e si aggrappò alla liana, che però ora era umida per gli spruzzi delle rapide. Le mani di Krog scivolarono sulla fune e lui scese verso il basso. Reece si allungò per afferrarlo, ma accadde tutto troppo velocemente. Il cuore gli balzò in gola quando dovette guardare Krog che cadeva, sfuggendo dalla sua presa e finendo nell’acqua gorgogliante.

Reece atterrò sulla sponda opposta e cadde al suolo. Rotolò rimettendosi subito in piedi, pronto a gettarsi in acqua, ma prima che potesse reagire Conven scattò e si buttò di testa nella furia delle acque.

Reece e gli altri rimasero a guardare trattenendo il fiato. Conven era coraggioso fino a quel punto, si chiese Reece? O era solo spinto da un istinto suicida?

Conven nuotò coraggiosamente nel mezzo delle correnti tumultuose. Raggiunse Krog riuscendo in qualche modo ad evitare i morsi delle creature e lo afferrò mentre si dimenava, cingendogli le spalle con un braccio e riattraversando l’acqua con lui. Conven nuotò contro corrente, diretto verso la sponda da cui si era tuffato.

Improvvisamente Krog gridò.

“LA MIA GAMBA!”

Krog si contorceva per il dolore mentre un quatterno conficcava i denti nella sua gamba, mordendolo. Si vedevano dalla superficie le sue gialle scaglie. Conven continuò a nuotare fino a che fu vicino alla riva dove Reece e gli altri li aiutarono a trascinarsi fuori dall’acqua. In quel momento un banco di quatterni saltò in aria, ma Reece e i compagni riuscirono a respingerli.

Krog si dimenava e Reece vide che il quatterno che l’aveva morso era ancora attaccato alla sua gamba. Indra prese il suo pugnale e lo conficcò nella gamba di Krog, tra le sue grida, riuscendo ad estrarre l’animale, che cade al suolo e poi si rituffò in acqua.

“Ti odio!” le disse Krog furente.

“Bene,” rispose Indra, per niente scossa.

Reece guardò Conven che stava lì in piedi, gocciolante d’acqua, provando profondo rispetto per il suo coraggio. Conven lo guardò senza alcuna espressione in volto e Reece si accorse con sgomento che un quatterno gli stava attaccato al braccio e si scuoteva. Reece non poteva credere alla tranquillità e impassibilità di Conven che semplicemente allungò l’altra mano e strappò la creatura dal braccio rigettandola subito in acqua.

“Non ti ha fatto male?” gli chiese Reece confuso.

Conven scrollò le spalle.

Reece era sempre più preoccupato per Conven anche se ammirava il suo coraggio e non poteva credere alla sua assoluta mancanza di paura. Si era tuffato senza alcuna esitazione tra quelle creature feroci, non ci aveva pensato neanche due volte.

Dalla parte opposta del fiume centinai di Cerbiti erano fermi e li fissavano infuriati sbattendo i denti.

“Finalmente,” disse O’Connor, “siamo in salvo.”

Centra scosse la testa.

“Solo per ora. Quei Cerbiti sono furbi. Conoscono le anse del fiume. Prenderanno la via più lunga, ne seguiranno la corrente e troveranno il passaggio per attraversare. Saranno presto dalla nostra parte. Abbiamo poco tempo. Dobbiamo muoverci.”

Tutti seguirono Centra che iniziò a correre tra campi di fango ed esplosioni di geyser, facendosi strada nel mezzo di quel paesaggio esotico.

Continuarono a correre fino a che la nebbia si levò e Reece fu felice di vedere, di fronte a loro, la parete del Canyon con la sua antica pietra scintillante. Sollevò lo sguardo e quei muri di roccia gli apparvero incredibilmente alti. Non aveva idea di come avrebbero fatto a scalare fin lassù.

Reece rimase fermo con gli altri a guardare con timore. La parete sembrava ancora più imponente ora di quando erano discesi. Si guardò attorno e considerò le loro misere condizioni, chiedendosi ancora una volta se sarebbero stati in grado di arrampicarsi. Erano tutti esausti, ammaccati e feriti, stanchi dopo la battaglia. Avevano mani e piedi spellati. Come avrebbero mai potuto risalire il pendio se era stato talmente difficile anche solo scenderlo?

“Io non posso salire,” disse Krog, ansimante, con la voce spezzata.

Reece si sentiva allo stesso modo, ma non disse nulla.

Erano incastrati in un angolo. Erano scampati ai Cerbiti, ma non per molto ancora. Presto li avrebbero trovati e, trovandosi in minoranza numerica, sarebbero sicuramente stati uccisi. Tutto quel duro lavoro, tutti i loro sforzi, non erano valsi a nulla.

Reece non voleva morire lì. Non in quel luogo. Se doveva morire voleva che accadesse lassù, nella sua terra, nella sua patria, con Selese al suo fianco. Se solo gli venisse concessa un’altra possibilità di fuga.

Reece udì un rumore orribile e voltandosi vide i Cerbiti forse a un centinaio di metri da loro. Erano migliaia, avevano già oltrepassato il fiume e si stavano avvicinando.

Sguainarono tutti le armi.

“Non abbiamo nessun altro posto dove fuggire,” disse Centra.

“Allora combatteremo fino alla morte!” gridò Reece.

“Reece!” si udì una voce.

Reece sollevò lo sguardo verso la parete del Canyon e mentre la nebbia si diradava vide un volto che inizialmente pensò essere una visione. Non poteva crederci. Lì, di fronte a lui, si trovava la donna a cui aveva appena pensato.

Selese.

Cosa ci stava facendo lì? Come ci era arrivata? E chi era l’altra donna che si trovava con lei? Sembrava la guaritrice reale, Illepra.

Erano entrambe appese lì, sulla parete rocciosa, grazie a una lunga e spessa fune che era legata ai loro polsi e ai loro fianchi. Stavano scendendo velocemente scorrendo lungo un’altra fune spessa e lunga, di facile presa. Selese si allungò e ne lanciò a terra la parte rimanente che cadde di cinquanta metri buoni dall’alto, come la manna dal cielo, atterrando ai piedi di Reece.

Era la loro via di fuga.

Non esitarono. Corsero tutti verso la fune e nel giro di pochi istanti già si stavano arrampicando più veloci che potevano. Reece lasciò che tutti gli altri andassero prima di lui, poi saltò per ultimo e iniziò anche lui a risalire ritirandosi dietro la fune man mano che procedeva, così che i Cerbiti non potessero afferrarla.

Quando lasciò il terreno i Cerbiti apparvero, lo raggiunsero e saltarono verso i suoi piedi, ma lui era ormai fuori dalla loro presa.

Quando raggiunse Selese Reece si fermò, si chinò verso di lei e la baciò.

“Ti amo,” le disse, completamente pervaso dall’amore per lei.

“E io amo te,” gli rispose lei.

I due si voltarono e ricominciarono a risalire la parete del Canyon insieme agli altri. Si arrampicarono sempre più in alto. Presto sarebbero stati a casa. Reece stentava a crederci.

A casa.