Kitabı oku: «Un Cielo Di Incantesimi », sayfa 4

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Thor si trovava ora sopra di lui e lottava per tenerlo al suolo, pronto a combattere a mani nude. Era diventato un incontro corpo a corpo. Andronico gli prese la gola e Thor si sorprese per la sua forza: sentiva che l’aria gradualmente gli veniva a mancare mentre suo padre lo strozzava.

Thor portò la mano alla cintura alla disperata ricerca del suo pugnale. Il pugnale reale, quello che re MacGil gli aveva dato prima di morire. Gli mancava l’aria sempre di più e sapeva che se non avesse agito in fretta sarebbe morto.

Lo trovò, lo sollevò in aria e lo affondò con entrambe le mani nel petto di Andronico.

Andronico inarcò il busto di scatto, cercando di respirare, gli occhi velati in uno sguardo di morte, ma nonostante tutto continuò a stringere il collo di suo figlio.

Thor, ormai senza fiato, stava iniziando a vedere le stelle e cominciava a perdere le forze.

Alla fine, lentamente, Andronico lasciò la presa e le braccia gli caddero di lato. Gli occhi ruotarono e smise di muoversi.

Rimase a terra immobile. Morto.

Thor fece un profondo respirò togliendosi la mano floscia di suo padre dalla gola, sollevandosi e tossendo.

Tutto il suo corpo era scosso. Aveva appena ucciso suo padre. Non avrebbe mai pensato che fosse possibile.

Si guardò attorno e vide che tutti i guerrieri, entrambi gli eserciti, lo stavano fissando scioccati. Sentì un tremendo calore scorrergli nel corpo, come se un profondo cambiamento avesse appena avuto luogo dentro di sé, come se avesse appena spazzato via una qualche parte malvagia di se stesso. Si sentiva cambiato, più leggero.

Udì un forte rumore provenire dal cielo, come un tuono, e sollevando lo sguardo vide una piccola nuvola nera apparire al di sopra del cadavere di Andronico, come un gruppo di piccole ombre nere, demoni che si calavano a terra. Rotearono attorno a suo padre avvolgendolo, ululando e raccogliendo il suo corpo, sollevandolo in aria, in alto fino a farlo scomparire tra le nuvole. Thor guardò scioccato e si chiese dove diavolo stessero trascinando la sua anima.

Sollevò lo sguardo e vide l’esercito dell’Impero di fronte a sé, decine di migliaia di uomini con la vendetta negli occhi. Il grande Andronico era morto. Ma i suoi uomini erano ancora lì. Thor e gli uomini dell’Anello erano ancora in minoranza, uno contro cento. Avevano vinto una battaglia, ma stavano per perdere la guerra.

Erec, Kendrick, Srog e Bronson si avvicinarono a Thor, sguainarono le spade, pronti ad affrontare l’Impero insieme a lui. I corni suonarono lungo le linee nemiche e Thor si preparò ad affrontare l’ultima battaglia. Sapeva che non potevano vincerla. Ma almeno sarebbero tutti morti insieme, in un grande scontro di gloria.

CAPITOLO SETTE

Reece marciava accanto a Selese, Illepra, Elden, Indra, O’Connor, Conven, Krog e Serna, tutti e nove diretti verso est ormai da ore, fin da quando erano emersi dal Canyon. Reece sapeva che da qualche parte all’orizzonte si trovava la sua gente, viva o morta, ed era determinato a trovarli.

Era rimasto scioccato attraversando un paesaggio di distruzione, campi sterminati di cadaveri, pieni di uccelli spazzini, tutto bruciato dal fuoco dei draghi. Migliaia di cadaveri dell’Impero erano disseminati all’orizzonte, alcuni ancora fumanti. Il fumo si levava dai loro corpi e riempiva l’aria insieme all’insopportabile puzzo di carne bruciata che caratterizzava ormai una terra distrutta. Chiunque non fosse stato ucciso dalla fiammata del drago era stato macellato in battaglia contro i soldati dell’Impero, dei MacGil e dei McCloud. I cadaveri di ogni fazione giacevano a terra, intere città erano state distrutte e c’erano cumuli di macerie ovunque. Reece scosse la testa: quella terra che un tempo era stata così florida ora era stata devastata dalla guerra.

Da quando erano risaliti dal Canyon Reece e gli altri erano determinati a raggiungere casa, a tornare nella parte di Anello appartenente ai MacGil. Non riuscendo a trovare cavalli, avevano marciato fino alla parte dei McCloud, risalendo l’Altopiano e scendendo dall’altro versante. Ora, finalmente, si trovavano in territorio MacGil, e passavano tra nient’altro che rovine e devastazione. Dall’aspetto della terra, i draghi avevano dato una mano a distruggere le truppe dell’Impero e per questo Reece era loro grato. Ma non aveva ancora idea di quale fosse lo stato nel quale avrebbe ritrovato la sua gente. Erano morti tutti nell’Anello? Fino a quel punto pareva di sì. Reece moriva dalla voglia di scoprire se c’era qualcuno che stesse bene.

Ogni volta che raggiungevano un campo di battaglia pieno di morti e feriti – quelli che non erano stati uccisi dalle fiamme del drago – Selese ed Illepra andavano di cadavere in cadavere e li rigiravano controllando la loro identità. Non erano guidate solo dalla loro professione, bensì da un altro scopo: Illepra voleva trovare il fratello di Reece. Godfrey. E anche Reece aveva il medesimo obiettivo.

“Non è qui,” disse Illepra un’altra volta, rialzandosi dopo aver rigirato l’ultimo cadavere di quel campo, con il volto segnato dalla delusione.

Reece comprendeva quanto Godfrey contasse per Illepra e ne era toccato. Anche lui sperava che stesse bene e si trovasse tra i vivi, ma vedendo tutte quelle migliaia di cadaveri aveva il terribile presentimento che non fosse così.

Continuarono a marciare percorrendo campi sterminati, serie di colline, e così facendo scorsero un altro campo di battaglia all’orizzonte, disseminato di migliaia di cadaveri. Si diressero lì.

Mentre camminavano Illepra piangeva in silenzio. Selese le posò una mano sul polso.

“È vivo,” la rassicurò. “Non preoccuparti.”

Reece fece un passo avanti e le mise una mano rassicurante sulla spalla, provando compassione per lei.

“Se c’è una cosa che so di mio fratello,” le disse, “è che è un sopravvissuto. Trova sempre una via di scampo. Anche dalla morte. Te lo prometto. La cosa più probabile è che Godfrey sia già in una taverna da qualche parte, a ubriacarsi.”

Illepra rise tra le lacrime e se le asciugò.

“Lo spero,” disse. “Per la prima volta lo spero davvero.”

Continuarono la loro triste marcia attraversando in silenzio quella terra desolata, ognuno perso nei suoi pensieri. Le immagini del Canyon passavano di tanto in tanto a sprazzi nella mente di Reece: non riusciva a sbarazzarsene. Ripensava alla situazione disperata nella quale si erano trovati e provava immensa gratitudine per Selese: se non fosse giunta al momento giusto si sarebbero trovati ancora là sotto, sicuramente tutti morti.

Reece prese la mano di Selese e le sorrise mentre continuavano a camminare. Era commosso dal suo amore e dalla devozione che provava per lui, dalla sua determinazione nell’attraversare tutta al campagna solo per salvarlo. Provava un’incommensurabile ondata d’amore per lei e non vedeva l’ora di poter avere un momento da solo con lei per poterglielo esprimere. Già desiderava passare il resto della sua vita con lei. Provava nei suoi confronti una lealtà mai provata per nessun altro e non appena avessero avuto un po’ di tempo aveva giurato che le avrebbe chiesto di sposarlo. Le avrebbe dato l’anello di sua madre, quello che lei le aveva dato perché lo donasse all’amore della sua vita quando l’avesse trovata.

“Non posso ancora credere che tu abbia attraversato tutto l’Anello solo per me,” le disse.

Lei sorrise.

“Non era così tanta strada,” gli rispose.

“Non così tanta strada?” le chiese. “Hai messo in pericolo la tua vita per attraversare un territorio devastato dalla guerra. Sono in debito con te. Oltre quanto possa dire.”

“Non mi devi nulla. Sono felice che tu sia vivo.”

“Siamo tutti in debito con te,” si intromise Elden. “Ci hai salvati tutti. Saremmo rimasti bloccati là sotto, nelle viscere della terra, per sempre.”

“Parlando di debiti, ce n’è uno di cui devo discutere con te,” disse Krog a Reece avvicinandoglisi zoppicando. Da quando Illepra gli aveva steccato la gamba in cima al Canyon, almeno Krog era stato capace di camminare da solo, sebbene rigidamente.

“Laggiù mi hai salvato, e ben più di una volta,” continuò. “È stato piuttosto sciocco da parte tua, se me lo chiedi. Ma l’hai fatto lo stesso. Comunque non penso di essere in debito con te.”

Reece scosse la testa, preso alla sprovvista dalla rudezza di Krog e dal suo impacciato tentativo di ringraziarlo.

“Non so se stai cercando di insultarmi o se tenti di ringraziarmi,” disse Reece.

“Ho i miei modi,” disse Krog. “Da ora in poi ho intenzione di guardarti le spalle. Non perché tu mi piaccia ma perché mi sento chiamato a farlo.”

Reece scosse la testa, come sempre sbalordito dal comportamento di Krog.

“Non ti preoccupare,” gli disse. “Neanche tu piaci a me.”

Continuarono tutti a camminare, tutti rilassati, felici di essere vivi, di trovarsi in superficie, di essere tornati da quella parte dell’Anello. Tutti eccetto Conven, che camminava in silenzio, separato dagli altri, chiuso in se stesso fin dalla morte di suo fratello nell’Impero. Niente, neppure la fuga dalla morte, sembrava poterlo scuotere.

Reece ripensò e ricordò come, là sotto, Conven si fosse gettato senza paura incontro al pericolo, una volta dopo l’altra, quasi rischiando di morire per salvare gli altri. Reece non poteva fare a meno di chiedersi se fosse stato spinto più da un desidero di rimanere ucciso che da quello di dare reale aiuto ai compagni. Era preoccupato per lui. Non gli piaceva vederlo così alienato, così perduto e depresso.

Reece gli si avvicinò.

“Hai combattuto brillantemente laggiù,” gli disse.

Conven si limitò a scrollare le spalle e a guardare a terra.

Reece si scervellava alla ricerca di qualcosa da dire, mentre camminavano in silenzio.

“Sei contento di essere tornato a casa?” gli chiese. “Di essere libero?”

Conven si voltò e lo guardò con occhi vuoti.

“Non sono a casa. Non sono libero. Mio fratello è morto. E io non ho il diritto di vivere senza di lui.”

Reece sentì un brivido scorrergli lungo la schiena a quelle parole. Chiaramente Conven era ancora sopraffatto dal dolore e lo portava come un riconoscimento d’onore. Conven era più come un morto che camminava, gli occhi vuoti. Lo ricordava com’era un tempo, sempre pieno di gioia. Capiva che il suo lutto era molto profondo e aveva il brutto presentimento che non si sarebbe mai ripreso. Si chiedeva cosa ne sarebbe stato di Conven. Per la prima volta non gli venne alla mente alcun pensiero positivo.

Continuarono a marciare e le ore passarono. Raggiunsero un altro campo di battaglia, ritrovandosi ancora spalla a spalla con i cadaveri. Illepra e Selese si divisero come anche gli altri, andando di corpo in corpo, rigirandoli e cercando tracce di Godfrey.

“Vedo molti più MacGil su questo campo,” disse Illepra speranzosa, “e nessuna fiammata di drago. Magari Godfrey si trova qui.”

Reece sollevò lo sguardo e vide migliaia di cadaveri. Si chiese, ammesso che si trovasse lì, se mai sarebbero riusciti a trovarlo.

Anche Reece andò in cadavere in cadavere, come gli altri, rigirandoli per osservarli. Vide tutti i volti della sua gente, faccia dopo faccia. Ne riconobbe alcuni, altri no; gente che aveva conosciuto e con cui aveva combattuto, persone che avevano lottato per suo padre. Si meravigliò della devastazione discesa sulla sua patria, come un flagello, e sperò sinceramente che fosse finalmente terminata. Aveva visto tante battaglie, guerre e cadaveri da potergli bastare per una vita. Era pronto a stabilirsi dando inizio a una vita di pace e salute; era pronto a ricominciare da capo.

“QU!” gridò Indra, la voce carica di eccitazione. Si trovava in piedi accanto a un corpo e lo osservava.

Illepra si voltò e corse verso di lei, mentre tutti gli altri si raccoglievano attorno. Si inginocchiò accanto al corpo con le lacrime che le inondavano li viso. Anche Reece si mise in ginocchio vicino a lei e sussultò vedendo suo fratello.

Godfrey.

La pancia prominente, la barba incolta, gli occhi chiusi, pallido, le mani blu e fredde. Sembrava morto.

Illepra si chino su di lui e lo scosse ripetutamente, ma lui non rispose.

“Godfrey! Per favore! Svegliati! Sono io! Illepra! GODFREY!”

Continuò a scuoterlo, ma lui non si mosse. Alla fine si voltò angosciata verso gli altri, guardando le loro cinture.

“La tua borraccia del vino!” chiese a O’Connor.

O’Connor cercò alla vita e la prese velocemente porgendola ad Illepra.

Lei la prese e la tenne sospesa sopra la faccia di Godfrey, versandone il contenuto verso le labbra. Gli sostenne la testa, gli aprì la bocca e versò del vino sulla sua lingua.

La reazione fu improvvisa: Godfrey si leccò le labbra e deglutì.

Tossì e poi si mise a sedere, afferrando la borraccia, con gli occhi ancora chiusi, e bevendo fino a svuotarla tutta. Lentamente aprì poi gli occhi e si asciugò la bocca con il dorso della mano. Si guardò in giro, confuso e disorientato, poi ruttò.

Illepra gridò di gioia, chinandosi verso di lui e abbracciandolo con forza.

“Sei sopravvissuto!” esclamò.

Reece sospirò di sollievo mentre suo fratello si guardava in giro, confuso ma definitivamente vivo.

Elden e Serna afferrarono Godfrey sotto le braccia e lo sollevarono in piedi. Godfrey rimase in piedi, inizialmente barcollante, e fece ancora un lungo sorso dalla borraccia, asciugandosi la bocca con il dorso della mano.

Poi si guardò attorno con la vista annebbiata.

“Dove mi trovo?” chiese. Si grattò la testa, dove si trovava un grosso livido, e subito strizzò gli occhi per il dolore.

Illepra osservò la ferita con occhi esperti passandovi sopra la mano, toccando il sangue seccato sopra la sua testa.

“Ti hanno ferito,” gli disse. “Ma puoi essere fiero: sei vivo. Sei salvo.”

Godfrey barcollò, ma gli altri lo sostennero.

“Non è una ferita seria,” disse esaminandolo, “ma hai bisogno di riposo.”

Prese una benda dalla vita e iniziò ad avvolgergliela attorno alla testa, facendo diversi giri mentre Godfrey trasaliva e la guardava. Poi si guardò in giro e osservò i cadaveri, sgranando gli occhi.

“Sono vivo,” disse. “Non posso crederci.”

“Ce l’hai fatta,” disse Reece, stringendogli con gioia le spalle. “Sapevo che ce l’avresti fatta.”

Illepra lo abbracciò, stringendolo, e lentamente anche lui la strinse a sé.

“Quindi è così che ci si sente ad essere un eroe,” disse Godfrey facendo ridere tutti. “Datemi ancora da bere,” disse, “e magari lo farò più spesso.”

Fece un’altra grossa sorsata e alla fine si mise a camminare con loro, appoggiandosi ad Illepra, un braccio attorno alle sue spalle, mentre lei lo aiutava a tenere l’equilibrio.

“Dove sono gli altri?” chiese Godfrey mentre camminavano.

“Non lo sappiamo,” disse Reece. “Da qualche parte verso ovest, spero. È da quella parte che siamo diretti. Stiamo marciando verso la Corte del Re. Per vedere chi è ancora vivo.”

Reece sussultò mentre pronunciava quelle parole. Guardò verso l’orizzonte e pregò che i suoi connazionali avessero incontrato un destino simile a quello di Godfrey. Pensò a Thor, a sua sorella Gwendolyn, a suo fratello Kendrick, a tutti gli altri che amava. Ma sapeva che il massiccio esercito dell’Impero si trovava ancora davanti a loro, e a giudicate dal numero di morti e feriti che avevano già visto, aveva il brutto presentimento che il peggio dovesse ancora giungere.

CAPITOLO OTTO

Thorgrin, Kendrick, Erec, Srog e Bronson facevano da muro compatto contro l’esercito dell’Impero, i loro uomini dietro di loro, le armi sguainate, pronti ad affrontare il violento attacco da parte delle truppe nemiche. Thor sapeva che questo sarebbe stato il suo attacco andando incontro alla morte, l’ultima battaglia della sua vita, eppure non aveva niente di cui pentirsi. Sarebbe morto lì, affrontando il nemico, in piedi e con la spada alla mano, i suoi fratelli d’armi al suo fianco, difendendo la sua madrepatria. Avrebbe così avuto un’occasione di rimediare a ciò che aveva fatto prima, affrontando la sua stessa gente. Non c’era niente di più che avrebbe potuto chiedere in vita sua.

Pensò a Gwendolyn e pensò solo che gli sarebbe piaciuto poter avere più tempo per lei. Pregò che Steffen fosse riuscito a portarla al sicuro e che lei ora fosse salva, dietro le linee dell’esercito. Si sentiva determinato a combattere con tutto se stesso, a uccidere quanti più soldati dell’Impero poteva, anche solo per evitare che le facessero del male.

Mentre si trovava lì sentiva la solidarietà dei suoi fratelli d’armi, tutti privi di timore, valorosi, pronti a tenere testa al nemico. Erano gli uomini migliori del regno, i migliori cavalieri dell’Argento, dei MacGil, dei Silesiani, tutti uniti, nessuno intenzionato ad arretrare per la paura, nonostante le loro scarse probabilità. Erano tutti pronti a rinunciare alla propria vita per difendere la patria. Consideravano tutti l’onore e la libertà più importanti della vita.

Thor udì i corni che risuonavano lungo le linee, guardò le divisioni di innumerevoli uomini allineati in precise unità. Erano soldati disciplinati quelli che stava per affrontare, soldati guidati da comandanti spietati che avevano combattuto per tutta la vita. Era una macchina da guerra ben oliata, erano allenati per andare avanti alla anche dopo la morte del loro capo. Un nuovo comandante senza nome si fece avanti per guidare le truppe. I loro numeri erano grandiosi, infiniti, e Thor sapeva che non c’era modo per loro di sconfiggerli con i pochi uomini che avevano. Ma questo non importava più. Non aveva importanza se fossero morti. Tutto ciò che contava era come sarebbero morti. Sarebbero morti in piedi, da uomini, in un ultimo scontro di valore.

“Dobbiamo aspettare che siano loro a venire da noi?” chiese Erec a voce alta. “O è meglio che offriamo loro il saluto dei MacGil?”

Thor sorrise insieme agli altri. Non c’era niente di simile a un piccolo esercito che ne affrontava uno più grande. Era una sfida spericolata, eppure costituiva il culmine del coraggio.

All’unisono Thor e i suoi uomini improvvisamente lanciarono un grido di battaglia e si lanciarono tutti insieme alla carica. Partirono di corsa a piedi, affrettandosi a coprire lo spazio vuoto tra i due eserciti. Le loro grida squarciarono l’aria, i loro uomini vicini al seguito. Thor teneva alta la spada, correndo accanto ai suoi fratelli, il cuore che gli batteva forte, il vento gelido che gli colpiva il volto. La battaglia era fatta così. Gli ricordò cosa significasse essere vivo.

I due eserciti si lanciarono all’attacco correndo più veloci che potevano pronti ad uccidersi a vicenda. Dopo pochi istanti si incontrarono al centro con un tremendo clangore di armi.

Thor colpiva da ogni parte, scagliandosi contro la prima linea dell’Impero i cui soldati brandivano lance lunghe e picche. Thor riuscì a tagliare a metà la prima picca che colpì, poi pugnalò allo stomaco il soldato che la teneva.

Thor si abbassava e ondeggiava mentre innumerevoli lance venivano dalla sua parte; roteava la spada, colpendo in ogni direzione, tagliando le armi a metà con netto rumore metallico e calciando o sgomitando ogni soldato capitasse nella sua traiettoria. Molti altri vennero colpiti dal suo guanto, altri calciati all’inguine, colpiti con gomitate alla mascella, con testate o pugnalati. La distanza era ravvicinata, si trattava di una lotta corpo a corpo e Thor era come una macchina da guerra, facendosi strada nel mezzo di quella forza altamente superiore.

Tutt’attorno a lui i suoi fratelli stavano facendo lo stesso, combattendo con incredibile velocità e forza, potenza e spirito, anche se in minoranza numerica. Si gettavano contro il grosso esercito facendosi strada tra le linee di uomini dell’Impero che sembravano non finire mai. Nessuno ebbe un solo momento di esitazione e nessuno si tirò indietro.

Attorno a Thor migliaia di uomini ne incontravano altri, gridando e sbuffando mentre combattevano corpo a corpo in una lotta feroce, la battaglia che avrebbe determinato il destino dell’Anello. E nonostante le forze grandiosamente superiori contro cui combattevano, gli uomini dell’Anello stavano prendendo slancio, tenendo a bada l’Impero e facendolo addirittura arretrare.

Thor strappò un mazzafrusto dalle mani di un soldato dell’Impero, lo respinse e poi fece roteare l’arma colpendolo sull’elmo. Continuò poi a farlo girare sopra la propria testa in ampi cerchi mandando a terra numerosi altri uomini. Alla fine lo lanciò nella mischia e ne colpì molti altri ancora.

Poi sollevò la sua spada e tornò al combattimento corpo a corpo, tirando fendenti da ogni parte fino a che le braccia e le spalle iniziarono ad essere stanche. Ad un certo cominciò ad essere troppo lento e un soldato sopraggiunse cecando di colpirlo con una spada. Thor si voltò per affrontarlo e si preparò al colpo e a la ferita che ne sarebbe conseguita.

A quel punto udì un ringhio e Krohn apparve, balzando in aria e serrando i denti sulla gola del soldato, portandolo a terra e salvando Thor.

Trascorsero ore di serrati combattimenti. Mentre Thor era stato inizialmente incoraggiato dal loro vantaggio, presto apparve evidente che quella battaglia era inutile e stava solo ritardando l’inevitabile. Non contava quanti ne uccidessero: l’orizzonte continuava ad essere colmo di un’interminabile squadrone di uomini. E mentre Thor e gli altri stavano iniziando a farsi stanchi, gli uomini dell’Impero erano freschi e si stringevano sempre più attorno a loro.

Thor, perdendo lo slancio e smettendo di difendersi alla rapidità che aveva avuto fino a quel punto, fu improvvisamente raggiunto da un colpo di spada alla spalla. Gridò di dolore mentre il sangue zampillava dalla ferita. Poi gli arrivò una gomitata nelle costole e un’ascia da guerra scese su di lui. Riuscì appena a bloccarla con lo scudo, sollevandolo quasi un secondo troppo tardi.

Thor stava perdendo terreno e guardandosi attorno vide che la medesima cosa stava accadendo agli altri. La spinta stava iniziando a capovolgersi un’altra volta: le orecchie di Thor erano piene delle grida di troppi dei suoi uomini che stavano cadendo. Dopo ore di combattimento iniziavano a perdere. Presto li avrebbero finiti. Pensò a Gwendolyn e si rifiutò di accettare una cosa del genere.

Sollevò la testa al cielo, cercando disperatamente di raccogliere i poteri che lo avevano abbandonato. Ma i suoi poteri da druido non gli rispondevano. Gli era stato preso troppo durante il suo periodo sotto il controllo di Andronico e c’era bisogno di tempo perché tutto tornasse alla normalità. Notò Argon sul campo di battaglia, neanche lui più potente come prima: anche i suoi poteri si erano prosciugati nel combattimento contro Rafi. E pure Alistair era indebolita dal momento in cui aveva ridato vita ad Argon. Non c’era altra via di salvezza. Solo la forza delle loro armi.

Thor sollevò la testa e levò un forte grido di battaglia e di disperazione, desiderando che le cose andassero in modo di verso, sperando che qualcosa cambiasse.

Ti prego, Dio, pregò. Ti imploro di salvarci. Salvaci tutti oggi. Mi rivolgo a te, non a un uomo, non ai miei poteri, ma a te. Dammi un segno del tuo potere.

Improvvisamente, con suo grande shock, l’aria fu lacerata dal un fortissimo ruggito, così forte da sembrare che potesse spezzare il cielo.

Il cuore di Thor accelerò il battito perché subito riconobbe quel verso. Guardò all’orizzonte e vide apparire fuori dalle nuvole la sua vecchia amica Micople. Era sbigottito, felice di vedere che era ancora viva, che era libera e che era tornata, lì nell’Anello. E ora stava volando verso di lui. Era come se una parte di se stesso fosse stata guarita.

Cosa ancora più sorprendente, accanto a lei Thor vide un altro drago. Un maschio, con antiche scaglie di color rosso sbiadito, brillanti occhi verdi e un aspetto ancora più feroce di Micople. Guardò i due che sfrecciavano in aria, ondeggiando fra le nuvole e poi gettandosi verso il basso, proprio verso di lui. Allora si rese conto che le sue preghiere erano state esaudite.

Micople sollevò le ali, arcuò la schiena e gridò. Lo stesso fece il drago accanto a lei e i due soffiarono fuoco contro l’esercito dell’Impero, accendendo il cielo. Il freddo della giornata si tramutò presto in tepore, poi in caldo, mentre muri di fiamme rotolavano verso di loro. Thor si portò le braccia al volto per ripararsi.

I draghi attaccarono dalle retrovie, quindi le fiamme non raggiunsero Thor. Eppure il muro di fuoco era così vicino da sentirne il calore e da bruciacchiargli i peli sulla braccia.

Le grida di migliaia di uomini si levarono in aria mentre l’esercito dell’Impero, divisione dopo divisione, veniva arso: decine di migliaia di soldati che gridavano per la loro vita. Correvano da ogni parte, ma non c’era via di scampo. I draghi non avevano pietà. Erano infuriati, pieni di rabbia e pronti a scagliare la loro vendetta contro l’Impero.

Una divisione dell’Impero dopo l’altra cadevano a terra, gli uomini morti.

I soldati rimasti ad affrontare Thor si voltarono terrorizzati e fuggirono, cercando di scappare dai draghi che zigzagavano nel cielo sputando fiamme ovunque. Ma i fuggitivi non fecero che correre incontro alla loro morte perché i draghi soffiarono anche contro di loro, finendoli uno per uno.

Presto Thor si trovò davanti nient’altro che un campo vuoto, nuvole nere di fumo e il puzzo di carne bruciata che riempiva l’aria insieme all’alito dei draghi e all’odore di zolfo. Mentre le nuvole si sollevavano lasciavano vedere una terra desolata e bruciata davanti a lui: non era rimasto in vita un singolo uomo, tutta l’erba e gli alberi erano stati rasi al suolo e non restava altro che cenere e nero. L’esercito dell’Impero, così indomabile solo pochi istanti prima, ora era scomparso completamente.

Thor era scioccato, ma felice. Avrebbe continuato a vivere. Avrebbero vissuto tutti. L’Anello era libero. Finalmente erano liberi.

Micople atterrò accanto a lui e abbassò la testa sbuffando.

Thor le si avvicinò sorridendo alla vecchia amica e Micople abbassò la testa fino a terra, facendo delle specie di fusa. Thor le accarezzò le scaglie del muso e lei si abbassò strofinandogli il naso contro il petto. Faceva le fusa felice ed era chiaro quanto fosse contenta di vedere di nuovo Thor, tanto quanto lui lo era di rivedere lei.

Thor le salì in groppa e si voltò verso il suo esercito, migliaia di uomini che lo guardavano colmi di sorpresa e gioia. Sollevò la sua spada e gli uomini risposero al suo saluto esultando. Finalmente le grida della vittoria si levarono alte fino al cielo.

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