Kitabı oku: «Un’Impresa da Eroi», sayfa 3
CAPITOLO TRE
Re MacGilc – robusto, il torace largo, la barba fitta e troppo grigia, abbinata a capelli lunghi e la fronte ampia segnata da troppe – stava sul bastione più alto del suo castello, la sua regina accanto a lui, e controllava i festeggiamenti del giorno della fioritura. I suoi territori reali si estendevano sotto di lui in tutta la loro magnificenza, fino a dove gli occhi potevano vedere: una città florida, cinta da mura fortificate di pietra antica. La Corte del Re. Collegati da un intrico di tortuose strade vi si trovavano edifici di pietra di ogni forma e misura, per i guerrieri, i guardiani, i cavalli, l’Argento, la Legione, le guardie, le caserme, l’armeria, l’arsenale, e tra queste si trovavano centinaia di abitazioni per la moltitudine di persone che avevano scelto di vivere all’interno delle mura. Qua e là trovavano posto ampi acri di prato, giardini reali, piazze contornate di pietra, fontane straripanti. La Corte del Re veniva curata da secoli: da suo padre, e dal padre di suo padre prima di lui, e si trovava ora al picco della sua gloria. Senza dubbio era ora la più sicura fortezza all’interno del Regno Occidentale dell’Anello.
MacGil aveva la fortuna di possedere i migliori e più leali guerrieri che ogni re avesse mai incontrato, e nella sua vita nessuno aveva mai osato attaccare. Era il settimo MacGil al trono e lo deteneva da ben trentadue anni in qualità re buono e saggio. La terra aveva prosperato in maniera grandiosa nel suo regno, lui aveva raddoppiato la misura del suo esercito, aveva espanso le sue città, portato abbondanza alla sua popolazione, e dalla gente non proveniva una singola lamentela. Era conosciuto come il re generoso, e non c’era mai stato un pari periodo di abbondanza e pace da quando lui era salito al trono.
La cosa, paradossalmente, era proprio ciò che teneva MacGil sveglio la notte. Perché MacGil conosceva la sua storia: in tutte le epoche non c’era mai stato un periodo così lungo senza una guerra. Ormai non si chiedeva più se ci sarebbe stato un attacco, ma quando. E da parte di chi.
La minaccia maggiore, ovviamente, proveniva dai territori esterni all’Anello, dall’Impero dei barbari che governavano le Regioni Selvagge periferiche e che avevano soggiogato tutte le popolazioni al di fuori dell’Anello, oltre il Canyon. Per MacGil, e le sette generazioni prima di lui, le Regioni Selvagge non avevano mai realmente costituito una minaccia: a causa della singolare geografia del regno, a forma di cerchio perfetto. Un anello separato dal resto del mondo da un profondo canyon ampio un miglio, e protetto da uno scudo d’energia che era attivo da quando un MacGil aveva regnato per la prima volta. Avevano ben poco da temere dalle Regioni Selvagge. I barbari avevano tentato molte volte di attaccare, di oltrepassare lo scudo, di attraversare il Canyon, ma non avevano mai avuto successo. Fintanto che lui e il suo popolo fossero rimasti all’interno dell’Anello, non ci sarebbero state minacce dall’esterno.
Questo non significava, però, che non ci potessero essere minacce dall’interno. Ed era questo che recentemente aveva tenuto MacGil sveglio la notte. Questo, in effetti, era lo scopo delle celebrazioni del giorno: il matrimonio della sua primogenita. Un matrimonio organizzato proprio per placare i suoi nemici, per mantenere la fragile pace tra il Regno Occidentale ed il Regno Orientale dell’Anello.
L’Anello si allungava per cinque miglia buone in ogni direzione ed era diviso nel mezzo da una catena montuosa. LìAltopiano. Dall’altra parte dell’Altopiano si trovava il Regno Orientale, che governava l’altra metà dell’Anello. Questo secondo regno, governato da secoli dai loro rivali – i McCloud – aveva sempre minacciato di mandare in frantumi la fragile tregua con i MacGils. I McCloud erano insoddisfatti, infelici del loro territorio, convinti che quella parte del regno si trovasse su terreno meno fertile. Contestavano anche l’Altopiano, rivendicando il possesso sull’intera catena montuosa, mentre almeno la metà apparteneva ai MacGil. C’erano continue scaramucce di confine e costanti minacce di invasione.
Mentre MacGil rifletteva su tutto ciò, montò in lui l’irritazione. I McCloud sarebbero dovuti essere felici: erano al sicuro all’interno dell’Anello, protetti dal Canyon; si trovavano su terra di qualità e non avevano nulla da temere. Avrebbero dovuto semplicemente accontentarsi della loro metà di Anello. Era solo perché MacGil aveva costruito un esercito così forte che, per la prima volta nella storia, i McCloud non avevano osato attaccare. Ma MacGil, da saggio re quale era, avvertiva qualcosa all’orizzonte: sapeva che questa pace non sarebbe potuta durare. Per questo aveva organizzato questo matrimonio tra la sua primogenita ed il principe primogenito dei McCloud. Ed ora il grande giorno era arrivato.
Mentre guardava in basso, vide sotto di lui migliaia di sudditi, tutti vestiti con tuniche dai colori sgargianti, provenienti da ogni angolo del regno, da entrambe le parti dell’Altopiano. Quasi l’intero Anello si trovava lì, riversato all’interno delle sue mura. Il suo popolo si era preparato per mesi, gli ordini erano di rendere tutto prospero e forte. Quello non era solo un giorno di nozze, ma l’occasione per trasmettere un messaggio ai McCloud.
MacGil scrutava le sue centinaia di soldati, allineati strategicamente lungo i bastioni, nelle strade, lungo le mura, più soldati di quanti realmente avesse bisogno, e si sentiva soddisfatto. Era proprio l’esibizione di potere di cui lui aveva bisogno. Ma si sentiva anche sulle spine: l’atmosfera era carica, matura per una schermaglia. Sperava che nessuna testa calda, magari infiammata da qualche bicchiere in più, insorgesse da una delle due parti. Scrutò i campi dove si stavano svolgendo le giostre, quelli dove si stava giocando, e pensò al giorno che si stava preparando, pieno di gare e tornei ed ogni sorta di celebrazione. Sarebbe stata una giornata intensa. I McCloud si sarebbero sicuramente presentati con il loro piccolo esercito privato, e ogni torneo, ogni combattimento, ogni competizione avrebbe assunto un certo significato. Se solo qualcosa fosse andato storto, sarebbe potuta scoppiare una battaglia.
“Mio Signore?”
Sentì una mano leggera sulla sua, e si voltò a guardare la sua Regina, Krea, ancora la più bella donna che avesse mai incontrato. Aveva sposato con gioia lui e il suo regno, gli aveva dato cinque figli, di cui tre maschi, e non si era mai lamentata una sola volta. Per di più, era diventata la sua più fidata consigliera. Con il passare degli anni aveva imparato che lei era molto più saggia di tutti i suoi uomini, in effetti più saggia anche di lui stesso.
“È un giorno di politica,” disse lei. “Ma anche il matrimonio di nostra figlia. Cerca di godertelo. Non accadrà una seconda volta.”
“Mi preoccupavo meno quando non possedevo nulla,” rispose lui. “Ora che abbiamo tutto, ogni cosa mi preoccupa. Siamo al sicuro. Ma non mi sento al riparo.”
Lo fissò in volto con i suoi occhi color nocciola, grandi e pieni di compassione: sembrava che potessero contenere la saggezza del mondo intero. Le palpebre erano un po’ abbassate, come sempre, e le donavano quell’aspetto un po’ sornione, incorniciate dai suoi bellissimi capelli lisci e castani, che ricadevano su entrambi i lati del volto, leggermente ingrigiti. Aveva qualche ruga in più, ma non era cambiata neanche un poco.
“È perché tu non sei al sicuro,” disse. “Nessun re lo è. Ci sono più spie nella nostra corte che tu possa mai pensare. Ed così che vanno le cose.”
Si sporse in avanti a baciarlo, poi sorrise.
“Cerca di divertirti,” disse. “Dopotutto è un matrimonio.”
Detto questo si voltò ed uscì dal bastione.
La guardò andarsene, poi si voltò ad osservare la sua corte. Aveva ragione, lei aveva sempre ragione. Lui voleva godersela, quella giornata. Amava la sua primogenita, ed era un matrimonio, del resto. Era la più bella giornata del più bel periodo dell’anno, il cuore della primavera, con l’estate che già si intravedeva, i due soli perfetti nel cielo e il soffio di una mite brezza. Tutto era in piena fioritura, gli albero ovunque ricoperti da un’ampia tavolozza di rosa e viola e arancio e bianco. Non cera nulla che desiderasse di più che scendere ed andare a sedersi tra i suoi uomini, guardare sua figlia che si sposava, e bere boccali di birra fino a non poterne più.
Ma non poteva. C’era una lunga lista di doveri da espletare prima di poter anche solo mettere piede fuori dal suo castello. Dopotutto il matrimonio di una figlia implicava una serie di doveri per un re: doveva riunirsi con il suo consiglio, con i suoi figli, e doveva dare udienza ad una lunga fila di supplicanti che avevano il diritto di vedere il re durante quella giornata. Sarebbe stato fortunato se fosse riuscito a lasciare il castello in tempo per la cerimonia del tramonto.
*
MacGil, vestito con il miglior paramento reale – pantaloni di velluto nero, cintura dorata, tunica reale della più raffinata seta viola e dorata, mantello bianco e stivali di cuoio splendente alti fino ai polpacci – con tanto di corona (una fascia d’oro decorato con un grande rubino incastonato al centro), avanzava con incedere fiero lungo i corridoi del castello, con i suoi attendenti al seguito. Procedeva a grandi passi passando di stanza in stanza, percorrendo i gradini che scendevano dalla balaustra, attraversando le sue stanze reali, il grande salone dall’altissimo soffitto ad arco e dalle vetrate colorate. Alla fine raggiunse un’antica porta di quercia, spessa quanto il tronco di un albero, che i suoi servitori aprirono prima di farsi da parte e lasciarlo passare. La Sala del Trono.
I suoi consiglieri erano in piedi sull’attenti quando MacGil entrò, e la porta sbatté chiudendosi alle sue spalle.
“Sedetevi,” disse, più bruscamente del solito. Era stanco, soprattutto in un giorno come quello, delle infinite formalità necessarie per governare il regno, e voleva finirla in fretta.
Attraversò a grandi passi la Sala del Trono, che mai smetteva di impressionarlo: il soffitto alto cinquanta piedi, un’intera parete costituita da una vetrata colorata, pavimento e pareti fatti di pietra spessa un piede. La stanza poteva tranquillamente contenere un centinaio di dignitari. Ma in giornate come quella, quando veniva convocato il suo consiglio, venivano a trovarsi in quella cavernosa ambientazione solo lui e una manciata di consiglieri. La stanza era dominata da un ampio tavolo a forma di semicerchio, dietro al quale stavano in piedi i suoi consiglieri.
Il re avanzò attraverso il passaggio, collocato proprio nel mezzo, fino al suo trono. Salì i gradini di pietra, oltrepassò i leoni di oro intarsiato e sprofondò nel cuscino di velluto rosso che ricopriva il suo trono, lavorato interamente in oro. Suo padre aveva seduto su quello stesso trono, e così aveva fatto il padre di suo padre, e tutti i MacGil prima di lui. Quando si sedeva lì, MacGil sentiva il peso dei suoi antenati, di tutte le generazioni, gravare su di lui.
Scrutò i consiglieri che erano in attesa. C’era Brom, il suo primo generale e consigliere in questioni militari; Kolk, il generale della Legione dei ragazzi; Aberthol, il più anziano del gruppo, uno studioso e storico, mentore dei re da tre generazioni; Firth, suo consigliere in affari interni alla corte, un uomo magro con i capelli corti e grigi ed occhi infossati che non stavano mai fermi. Era un uomo per il quale MacGil non aveva mai provato una particolare fiducia, non aveva neanche mai capito quale fosse il suo titolo. Ma suo padre, ed il padre di suo padre prima di lui, tenevano un consigliere per affari di corte, e quindi lui l’aveva mantenuto per rispetto nei loro confronti. C’era Owen, il suo tesoriere; Bradaigh, suo consigliere negli affari esterni; Earnan, il suo esattore delle tasse; Duwayne, suo consigliere sulle masse; e Kelvin, il rappresentante dei nobili.
Ovviamente il Re aveva autorità assoluta. Ma il suo era un regno liberale, e i suoi predecessori erano sempre stati orgogliosi di permettere alla nobiltà di avere voce in ogni questione per mezzo di un loro rappresentante. Storicamente l’equilibrio di potere tra la regalità e la nobiltà non era mai stato cosa facile. Ora c’era armonia, ma in altri tempi si erano verificate insurrezioni e lotte di potere tra i nobili e la famiglia reale. Quello attuale era un buon equilibrio.
Osservando la stanza e i presenti, MacGil notò che mancava una persona, proprio l’uomo con il quale desiderava parlare di più. Argon. Come al solito, quando e dove sarebbe apparso non era prevedibile. Questo faceva infuriare MacGil a non finire, ma non c’era altra scelta che accettare la situazione. I modi dei druidi erano imperscrutabili per lui. Senza la sua presenza, MacGil sentì la necessità di concludere ancora più in fretta. Voleva portare a termine quella formalità e fare le altre mille cose che gli spettavano prima del matrimonio.
Il gruppo di consiglieri sedeva di fronte a lui, attorno al tavolo semicircolare, a dieci piedi l’uno dall’altro, ognuno di loro seduto su una sedia di quercia antica con braccioli di legno decorati da elaborati intarsi.
“Mio signore, se posso cominciare,” prese la parola Owen.
“Permesso concesso. E falla breve. Ho i tempi stretti oggi.”
“Vostra figlia riceverà una grande quantità di doni oggi, che speriamo staranno tutti nei suoi forzieri. Le migliaia di persone che rendono omaggio presentando doni personalmente a voi, e riempiono i nostri bordelli e le nostre taverne, daranno pure un contributo a colmare le casse. Ciononostante i preparativi per le celebrazioni di oggi consumeranno buona parte del tesoro reale. Consiglio quindi un aumento delle tasse sulla popolazione e sui nobili. Una tassa una tantum, per alleviare la pressione generata da questo grande evento.”
MacGil scorse la preoccupazione sul volto del suo tesoriere, e lo stomaco gli si strinse al pensiero che il tesoro reale potesse esaurirsi. Tuttavia non aveva intenzione di aumentare ancora le tasse.
“Meglio avere un tesoro povero e dei sudditi leali,” rispose MacGil. “La nostra ricchezza deriva dalla felicità dei nostri sudditi. Non possiamo pretendere di più.”
“Ma mio signore, se non…”
“Ho deciso. Altro?”
Owen si arrese, mortificato.
“Mio Re,” disse Brom con la sua voce profonda. “Secondo i vostri ordini abbiamo posizionato la maggior parte delle nostre forze all’interno della corte per l’evento di oggi. L’esibizione di potere sarà impressionante. Ma ci diramiamo a breve raggio. Se dovesse verificarsi un attacco da qualche altra parte del regno, risulteremmo vulnerabili.”
MacGil annuì, soppesando la questione.
“I nostri nemici non ci attaccheranno mentre gli stiamo dando da mangiare.”
Gli uomini risero.
“E che novità ci sono dall’Altopiano?”
“Non ci sono notizie di alcuna attività da settimane. Pare che le loro truppe siano rimaste in basso per i preparativi per il matrimonio. Forse sono pronti per la pace.”
MacGil non ne era certo.
“Questo può significare che l’organizzazione del matrimonio ha funzionato, oppure che aspetteranno di attaccarci in un altro momento. Quale pensi sia la risposta giusta, vecchio mio?” chiese MacGil, rivolgendosi a Aberthol.
Aberthol si schiarì la voce, che uscì roca: “Mio signore, vostro padre, e il padre di vostro padre prima di lui, non si sono mai fidati dei McCloud. Il semplice fatto che stiano dormendo, non significa che non si sveglieranno.”
MacGil annuì, apprezzando la schiettezza.
“E da parte della Legione?” chiese, rivolto a Kolk.
“Oggi abbiamo dato il benvenuto alle nuove reclute,” rispose Kolk con un rapido cenno della testa.
“Anche mio figlio tra di loro?” chiese MacGil.
“Ha preso fieramente il suo posto tra di loro, e si tratta per certo di un ragazzo in gamba.”
MacGil annuì, poi si rivolse a Bradaigh.
“E cosa si dice oltre il Canyon?”
“Mio signore, le nostre pattuglie hanno visto maggiori tentativi di attraversare il Canyon nelle ultime settimane. Potrebbe significare che le Terre Selvagge si stanno preparando per un attacco.”
Un sussurro sommesso serpeggiò fra gli uomini. A quel pensiero MacGil sentì lo stomaco che gli si stringeva. Lo scudo di energia era invincibile, tuttavia aveva un cattivo presentimento.
“E cosa succederebbe se di dovesse verificare un attacco in piena regola?” chiese.
Fintanto che lo scudo è attivo non abbiamo nulla da temere. Le Terre Selvagge non riescono ad oltrepassare il Canyon da secoli. Non c’è ragione di pensare che possano farcela ora.
MacGil non si sentiva così sicuro. Un attacco dall’esterno non si verificava da tempo e non poteva fare a meno di chiedersi quando sarebbe potuto succedere.
“Mio signore,” disse Firth con voce nasale, “sento l’obbligo di aggiungere che oggi la nostra corte è piena di dignitari del regno di McCloud. Sarebbe interpretato come un insulto da parte vostra se non vi intratteneste con loro, rivali o no. Consiglierei di utilizzare le vostre ore pomeridiane per salutarli tutti. Hanno portato un grande seguito, molti doni e, gira voce, anche molte spie.”
“Chi ci dice che le spie non siano già qui?” ribatté MacGil guardando con attenzione Firth, mentre poneva la domanda, e chiedendosi, come sempre, se potesse essere proprio lui una di quelle.
Firth aprì la bocca per rispondere, ma MacGil sospirò e sollevò il palmo della mano: ne aveva avuto abbastanza. “Se è tutto, ora me ne vado per partecipare al matrimonio di mia figlia.”
“Mio signore,” disse Kelvin schiarendosi la voce, “ovviamente c’è un’altra cosa. La tradizione, nel giorno del matrimonio della vostra primogenita. Ogni MacGil ha nominato un successore in questo giorno. Il popolo si aspetterà che voi facciate altrettanto. Sono in fermento. Non è consigliabile lasciarli a bocca asciutta. Soprattutto con la Spada della Dinastia ancora immobile.”
“Dovrei nominare un erede mentre sono ancora al trono?” chiese MacGil.
“Mio signore, non intendo offendere sua maestà,” balbettò Kelvin, preoccupato.
MacGil alzò una mano. “Conosco la tradizione. E in effetti, nominerò qualcuno oggi.”
“Potrebbe informarci su chi sarà?” chiese Firth.
MacGil lo fissò, seccato. Firth era un pettegolo, e poi non si fidava di quell’uomo.
“Avrete la notizia a tempo debito.”
MacGil si alzò, e così fecero anche gli altri. Si inchinarono, si voltarono e si affrettarono fuori dalla stanza.
MacGil rimase lì, pensieroso, per un po’. In giorni come quelli avrebbe voluto non essere re.
*
MacGil scese dal suo trono, con la suola degli stivali che faceva risuonare i suoi passi nel silenzio, e attraversò la stanza. Aprì da sé l’antica porta di quercia, tirando bruscamente la maniglia di ferro, ed entrò nella stanza adiacente.
Godette della pace e della solitudine di quella sala accogliente, come sempre, con i suoi muri di neanche venti piedi per lato e con un alto soffitto ad arco. La stanza era costruita completamente in pietra, con una piccola e tonda vetrata colorata su una parete. La luce trapelava all’interno attraverso il vetro giallo e rosso, illuminando l’unico oggetto presente nella stanza, per il resto completamente vuota.
La Spada della Dinastia.
Gaceva lì, nel mezzo della stanza, stesa orizzontalmente su rebbi di ferro, come una tentatrice. Come aveva sempre fatto da quando era ragazzo, MacGil si avvicinò, le camminò attorno, la esaminò. La Spada della Dinastia. La spada della leggenda, la fonte del potere e della forza del suo intero regno, da una generazione all’altra. Chiunque avesse avuto la forza di sollevarla sarebbe stato il Prescelto, colui che era destinato a governare il regno per tutta la vita, per liberare il regno da tutte le minacce, dentro e fuori dall’Anello. Era stata una bella leggenda con la quale crescere, e non appena era stato proclamato re, MacGil aveva cercato di sollevarla lui stesso, perché solo i re della famiglia MacGil avevano il permesso di provare. I re prima di lui, tutti, avevano fallito. Lui era certo di essere diverso. Era sicuro che sarebbe stato il Prescelto.
Ma si era sbagliato. Come si erano sbagliati tutti gli altri re MacGil prima di lui. E il suo fallimento aveva contaminato da allora la sua regalità.
Ora, mentre la guardava, ne esaminava la lunga lama, fatta di un misterioso metallo che nessuno aveva mai decifrato. L’origine della spada era ancora più oscura dell’oggetto stesso: si diceva che fosse emersa dalla terra nel mezzo di un terremoto.
Esaminandola, avvertì di nuovo il bruciore della sconfitta. Poteva ben essere un bravo re, ma non era il Prescelto. Il suo popolo lo sapeva. I suoi nemici lo sapevano. Poteva essere un bravo re, ma non importava cosa facesse, non sarebbe mai stato il Prescelto.
Se lo fosse stato, era certo che ci sarebbe stata meno irrequietezza nella sua corte, minori complotti. Il suo stesso popolo si sarebbe fidato maggiormente di lui e i suoi nemici non avrebbero neppure considerato l’eventualità di attaccare. Una parte di lui desiderava che la spada semplicemente sparisse, e con essa anche la leggenda. Ma sapeva che non sarebbe successo. Quelli erano la maledizione e il potere di una leggenda. Più forti addirittura di un esercito.
Mentre la fissava per la centesima volta, MacGil non poté fare a meno di chiedersi, ancora una volta, chi sarebbe stato. Chi, nella sua stirpe, era destinato a brandirla? Mentre pensava al compito che aveva dinnanzi, quello di eleggere un erede, si chiese chi, se mai esistesse, fosse destinato a sollevarla.
“Il peso della lama è notevole,” disse una voce.
MacGil si voltò, sorpreso di non essere solo nella piccola stanza.
In piedi sulla porta c’era Argon. MacGil riconobbe la voce prima di vederlo e provò un misto di irritazione per non averlo visto prima e di sollievo nell’averlo lì in quel momento.
“Sei in ritardo,” disse MacGil.
“Il tuo senso del tempo non mi appartiene,” rispose Argon.
MacGil si girò nuovamente verso la spada.
“Hai mai creduto che sarei stato in grado di sollevarla?” chiese pensosamente. “Quel giorno, quando sono diventato re?”
“No,” rispose Argon con franchezza.
MacGil si voltò e lo fissò.
“Sapevi che non ne sarei stato capace. L’avevi visto, vero?”
“Sì.”
MacGil ci pensò su.
“Mi spaventi quando rispondi così direttamente. Non è da te.”
Argon rimase in silenzio, e infine MacGil si rese conto che non avrebbe detto altro.
“Oggi nominerò il mio successore,” disse MacGil. “Sembra inutile nominare un erede in un giorno come questo. Distoglie la gioia del re dal matrimonio di sua figlia.”
“Forse si tratta di una gioia che deve essere moderata.”
“Ma mi restano così tanti anni per regnare,” disse MacGil con tono lamentoso.
“Forse non così tanti quanti tu credi,” rispose Argon.
MacGil socchiuse gli occhi fissando Argon pensieroso. Era forse un messaggio?
Ma Argon non aggiunse altro.
“Sei figli. Quale dovrei scegliere?” chiese MacGil.
“Perché lo chiedi a me. Hai già scelto.”
MacGil lo guardò. “Tu vedi troppe cose. È vero. Eppure voglio sapere cosa ne pensi.”
“Penso che tu abbia fatto una scelta saggia,” disse Argon. “Ma ricorda: un re non può regnare dalla tomba. Noncurante di chi pensi di scegliere, il fato ha il suo modo di scegliere per sé.”
“Vivrò, Argon?” chiese a cuore aperto MacGil, ponendo la domanda che aveva trattenuto dentro di sé da quando si era svegliato la notte prima, destato da un incubo orribile.
“La scorsa notte ho sognato un corvo,” aggiunse. “È arrivato e mi ha rubato la corona. Poi un altro mi ha sollevato in volo, e dall’alto ho visto il mio regno sotto di me. Diventava nero mentre mi allontanavo. Sterile. Una terra desolata.”
Alzò lo sguardo verso Argon, gli occhi lucidi.
“È stato solo un sogno? O qualcosa di più?”
“I sogni sono sempre qualcosa di più, no?” chiese Argon.
MacGil fu colpito da una terribile sensazione.
“Dov’è il pericolo? Dimmi solo questo.”
Argon gli si avvicinò e lo fissò negli occhi, con una tale intensità che MacGil si sentì come se stesse fissando un altro mondo.
Argon si sporse verso di lui e sussurrò: “Sempre più vicino di quanto pensi.”