Kitabı oku: «Un’Impresa da Eroi», sayfa 4

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CAPITOLO QUATTRO

Thor si nascose tra la paglia nel retro di un carro che gli era passato accanto lungo la strada di campagna. Si era diretto verso la strada la notte prima e aveva atteso con pazienza fino a che un carro era passato, grande abbastanza per permettergli di salire a bordo senza essere visto. Era ormai buio allora, e il carro procedeva al piccolo trotto, abbastanza lentamente perché lui potesse raggiungere un discreto ritmo di corsa e saltarvi dentro dal retro. Era atterrato nel fieno e vi si era immerso dentro. Fortunatamente l’uomo alla guida non l’aveva visto. Thor non poteva sapere per certo se il carro si stesse dirigendo verso la Corte del Re, ma stava procedendo in quella direzione, e un carro di quella grandezza e con quei segni poteva essere diretto in ben pochi altri posti.

Mentre Thor si faceva strada così durante la notte, rimase sveglio per ore, ripensando al suo incontro con il Sybold. Con Argon. Al suo destino. Alla sua precedente dimora. A sua madre. Sentiva che l’universo gli aveva dato una risposta, dicendogli che aveva un altro destino. Era rimasto steso lì, le mani intrecciate dietro la nuca, a guardare in alto il cielo notturno che era visibile attraverso la tela lacerata. Aveva osservato l’universo, così luminoso, le stelle rosse così distanti. Era euforico. Per una volta nella sua vita era finalmente in viaggio. Non sapeva verso quale destinazione, ma stava andando. Per una strada o per un’altra sarebbe arrivato alla Corte del Re.

Quando Thor aprì gli occhi era mattina: la luce inondava il giorno e lui si rese conto di essersi assopito. Velocemente si tirò su a sedere, guardandosi intorno e rimproverandosi per aver ceduto al sonno. Sarebbe dovuto rimanere più vigile, aveva avuto fortuna che non l’avessero scoperto.

Il carro era ancora in movimento, ma non dava poi tanti scossoni. Il che poteva significare solo una cosa: una strada migliore. Dovevano essere vicini ad una città. Thor guardò in basso e vide quanto liscia fosse la strada, senza pietre, senza crepe e costeggiata da bianche ed eleganti conchiglie. Il cuore gli batté più forte nel petto: si stavano avvicinando alla Corte del Re.

Thor guardò fuori dal retro del carro e rimase senza parole: le strade immacolate erano brulicanti di attività. Decine di carri di tutte le forme e di tutte le misure trasportavano ogni genere di cosa e riempivano le strade. Uno era carico di pellicce, un altro di tappeti, un altro ancora di polli. In mezzo a questi carri camminavano centinai di mercanti, alcuni conducevano bestiame, altri portavano ceste di merce sulle loro teste. Quattro uomini trasportavano un viluppo di seta, tenendolo in equilibrio su dei pali. Era un esercito di persone, tutti diretti nello stesso senso di marcia.

Thor si sentiva vivo. Non aveva mai visto così tanta gente in una volta, così tanta merce, così tante cose. Era stato in un piccolo villaggio tutta la sua vita e ora si trovava in un centro di vita, travolto dall’umanità.

Udì un forte rumore: il clangore di catene, il battito di un grande pezzo di legno, così forte che il terreno tremò. Qualche attimo dopo giunse un suono diverso, di zoccoli di cavalli che facevano schioccare il legno. Guardò in basso e capì che stavano attraversando un ponte. Accanto a loro scorreva un fossato. Un ponte levatoio.

Thor si sporse con la testa dal carro e vide immensi pilastri di pietra, il cancello di ferro con spuntoni acuminati sollevato sopra le loro teste. Stavano varcando il Cancello del Re.

Era il cancello più grande che avesse mai visto. Guardò in alto verso le punte acuminate e tremò all’idea che se fossero scese l’avrebbero tagliato a metà. Avvistò quattro membri dell’Argento del Re di guardia all’ingresso, e il suo cuore si mise a battere ancora più forte.

Passarono attraverso una lunga galleria di pietra e poi, qualche attimo più tardi, il cielo si riaprì sopra di loro. Si trovavano nella Corte del Re.

Thor riusciva a malapena a crederlo. Qui c’era ancora più attività, se mai fosse possibile: sembravano migliaia di persone che mulinavano in ogni direzione. C’erano ampie distese d’erba perfettamente tagliata e fiori sbocciati ovunque. Le strade si facevano più ampie, ed erano costeggiate da chioschi, venditori ed edifici di pietra. E in mezzo a tutto questo, gli uomini del Re. Soldati in armatura. Thor ce l’aveva fatta.

Nel pieno dell’eccitazione, senza pensarci si alzò in piedi, ma appena l’ebbe fatto il carro si fermò di colpo, facendolo cadere all’indietro, di schiena, sulla paglia. Prima che riuscisse ad alzarsi, ci fu il suono del legno che si abbassava, e guardando in alto poté vedere un anziano furioso, calvo, vestito di stracci e con’ l’espressione corrucciata. Il carrettiere si allungò verso di lui, lo afferrò per le caviglie con le sue mani ossute, e lo tirò giù dal carro.

Thor volò per aria e andò ad atterrare con la schiena sulla strada lercia, sollevando una nuvola di polvere. Uno scroscio di risa di levò attorno a lui.

“La prossima volta che ti fai un giro sul mio carro, ragazzo, ti metto ai ceppi. Ritieniti fortunato che non chiamo l’Argento all’istante!”

Il vecchio si voltò e sputò, poi si affrettò di nuovo sul suo carro e schioccò la frusta facendo ripartire i cavalli.

Imbarazzato Thor si rimise lentamente in piedi. Si guardò in giro: uno o due passanti ridacchiarono e Thor rispose con un sogghigno, fino a che quelli non distolsero lo sguardo. Si strofinò le braccia e cercò di eliminare la terra; era ferito nell’orgoglio, ma non nel corpo.

Lo spirito gli si risollevò quando si guardò attorno, stupefatto, e si rese conto che avrebbe dovuto gioire per avercela fatta fino a quel punto, finalmente. Ora che era fuori dal carro poteva guardarsi in giro liberamente, ed era una vista straordinaria: la corte si distendeva fino a dove l’occhio poteva vedere. Al suo centro si trovava un magnifico palazzo di pietra, circondato da torreggianti mura di pietra fortificate, coronate da balaustre in cima alle quali, ovunque, faceva la ronda l’esercito del Re. Tutt’attorno a lui si estendevano prati verdi, perfettamente curati, palazzi di pietra, fontane, boschetti. Era una città. Ed era straripante di gente.

Ovunque confluivano ogni genere di persona – mercanti, soldati, dignitari – ognuno con indicibile fretta. Thor ebbe bisogno di qualche minuto per capire che stava accadendo qualcosa di speciale. Durante la sua passeggiata vide che erano in corso preparativi, si stavano sistemando posti a sedere, veniva eretto un altare. Sembrava che stessero preparando il tutto per un matrimonio.

Gli venne quasi un colpo al cuore quando vide, in lontananza, il campo di un torneo, con la sua lunga corsia di terra e la corda divisoria. In un altro campo vide soldati tirare lance contro bersagli lontani; in un altro ancora arcieri che miravano a bersagli di paglia. Sembrava che ovunque ci fossero giochi e gare. C’era anche la musica: liuti, flauti e cembali, gruppi di musici vagabondavano; e vino, enormi botti venivano fatte rotolare; e cibo, si preparavano tavoli, i banchetti si allungavano a perdita d’occhio. Era come se fosse capitato nel mezzo di un enorme celebrazione.

Tutto era talmente stupefacente che Thor avvertì la necessità impellente di trovare la Legione. Era già in ritardo, e doveva presentarsi.

Si avvicinò di corsa alla prima persona che vide, un anziano che sembrava, per la sua tunica macchiata di sangue, un macellaio che si affrettava lungo la strada. Erano tutti così di fretta lì.

“Mi scusi, signore,” disse Thor, afferrandogli il braccio.

L’uomo guardò verso la mano di Thor con espressione denigratoria.

“Cosa c’è, ragazzo?”

“Sto cercando la Legione del Re. Sa dirmi dove si esercitano?”

“Ti sembro una mappa?” sibilò l’uomo, e si allontanò in fretta e furia.

Thor rimase spiazzato dalla sua scortesia.

Si avvicinò allora alla persona successiva, una donna che stava disponendo dei fiori su un lungo tavolo. C’erano diverse donne a quel tavolo e tutte lavoravano sodo. Thor pensò che almeno una di loro probabilmente sapeva quello che gli serviva.

“Mi scusi, signorina,” disse. “Sa per caso dove si esercita la Legione del Re?”

Quelle si guardarono e ridacchiarono, alcune di loro parevano avere appena qualche anno più di lui.

La più matura si voltò e lo guardò.

“Stai cercando nel posto sbagliato,” disse. “Qui stiamo preparando per le celebrazioni.”

“Ma mi hanno detto che si esercitano alla Corte del Re,” disse Thor confuso.

Le donne scoppiarono a ridere un’altra volta. La più matura si mise le mani sui fianchi e scosse la testa.

“Ti comporti come se fossi nella Corte del Re per la prima volta. Non hai idea di quanto grande sia?”

Thor arrossì mentre le altre donne ridevano, poi scappò via. Non gli piaceva essere preso in giro.

Vide che davanti a lui si spiegavano una decina di strade che svoltavano e giravano in ogni direzione attraverso la Corte del Re. Dislocate all’interno delle mura di pietra c’erano almeno una decina di ingressi. La grandezza e portata di quel posto erano impressionanti. Aveva la tremenda sensazione che avrebbe potuto cercare per giorni senza trovare nulla.

Lo colpì un’idea: sicuramente un soldato avrebbe saputo dirgli dove gli altri si esercitavano. Era nervoso all’idea di avvicinarsi ad un vero soldato del Re, ma si rese conto che doveva.

Si voltò e corse verso le mura, verso i soldati che stavano di guardia all’ingresso più vicino, sperando che non lo avrebbero buttato fuori. I soldati stavano dritti in piedi, guardando fissi davanti a loro.

“Sto cercando la Legione del Re,” disse Thor, tirando fuori la sua voce più coraggiosa.

I soldati continuarono a fissare dritto davanti a loro, ignorandolo.

“Ho detto che sto cercando la Legione del Re!” ripeté Thor con insistenza, a voce più alta, determinato a farsi notare.

Dopo diversi secondi, i soldati guardarono verso il basso, sogghignando.

“Potete dirmi dove si trova?” ribadì Thor.

“E tu cos’hai a che fare con loro?”

“Qualcosa di molto importante,” affermò Thor con urgenza, sperando che i soldati non indagassero oltre.

I soldati si rigirarono a guardare dritto davanti a loro, ignorandolo di nuovo. Thor sentì che il cuore gli sprofondava nel petto e temette che non avrebbe mai ricevuto una risposta.

Ma dopo quella che gli parve un’eternità, il soldato rispose: “Prendi il cancello orientale, poi dirigiti verso nord fino a dove puoi arrivare. Prendi il terzo cancello a sinistra, poi inforca la destra, e infine a destra di nuovo. Attraversa il secondo arco di pietra: la loro sede è oltre il cancello. Ma ti avverto, sprechi il tuo tempo. Non si intrattengono con i visitatori.”

Era tutto ciò che Thor aveva bisogno di sentire. Senza perdere un altro secondo, si girò e corse attraverso il prato, seguendo le indicazioni, ripetendosele in testa, cercando di memorizzarle. Notò il sole più alto in cielo, e pregò solo che, quando fosse arrivato, non fosse già troppo tardi.

*

Thor corse velocemente lungo le vie immacolate e bordate da conchiglie, girando e svoltando attraverso la Corte del Re. Fece del suo meglio per seguire le indicazioni, sperando di non perdersi. Raggiunse il limitare del cortile, vide tutti i cancelli e scelse il terzo sulla sinistra. Lo attraversò di corsa e poi seguì i bivi, svoltando vicolo dopo vicolo. Correva controcorrente rispetto alle migliaia di persone che si stavano riversando nella città, una folla che si ingrossava ogni minuto di più. Quasi si scontrò con dei suonatori di liuto, giocolieri, ogni sorta di intrattenitore, tutti vestiti nel migliore dei modi.

Thor non poteva sopportare l’idea che la selezione avesse inizio senza di lui e fece del suo meglio per concentrarsi mentre svoltava, sentiero dopo sentiero, cercando ogni minimo segno del campo delle esercitazioni. Passò sotto un arco, svoltò in un’altra strada e poi, in lontananza, avvistò quella che solo poteva essere la sua destinazione: un piccolo anfiteatro fatto di pietra, di forma perfettamente circolare. Aveva al centro un grande cancello, con soldati a guardia. Thor udì delle attutite grida di incoraggiamento provenire da oltre le mura ed il suo cuore accelerò. Quello era il posto.

Corse ancora più velocemente, con i polmoni che gli bruciavano. Quando raggiunse il cancello, due guardie fecero un passo verso di lui e abbassarono le loro lance, sbarrandogli la strada. Una terza guardia avanzò e portò il palmo della mano in avanti.

“Altolà,” ordinò.

Thor si fermò di scatto, ansimando senza fiato, appena capace di contenere il proprio entusiasmo.

“Voi non capite,” disse di getto, con le parole che uscivano disordinatamente tra un respiro e l’altro. “Devo entrare. Sono in ritardo.”

“In ritardo per cosa?”

“Per la selezione.”

La guardia, un uomo basso e tozzo con la pelle butterata, si girò a guardare gli altri, che ricambiarono lo sguardo con espressione cinica. Si voltò di nuovo ed osservò Thor con sguardo denigratorio.

“Le reclute sono state portate dentro un’ora fa, con la carovana reale. Se non sei stato invitato, non puoi entrare.”

“Ma voi non capite. Io devo…”

La guardia allungò un braccio e afferrò Thor per la camicia.

“Sei tu che non capisci, ragazzino insolente. Come osi venire qui e tentare di entrare con la forza? Ora vai prima che ti arresti.”

Diede uno spintone a Thor, facendolo arretrare di parecchi piedi.

Thor sentì un bruciore al petto dove la mano della guardia lo aveva colpito, ma più di quello gli doleva l’offesa del rifiuto. Era indignato. Non aveva fatto tutta quella strada per essere mandato via da una guardia senza neppure essersi fatto vedere. Era determinato ad entrare.

La guardia si girò nuovamente verso i suoi uomini, e Thor si allontanò lentamente, facendo il giro dell’edificio in senso orario. Aveva un piano. Camminò fino ad essere fuori vista, poi iniziò a correre, strisciando lungo le mura. Controllò per assicurarsi che le guardie non stessero guardando, poi accelerò, scattando. Quando era a metà del giro dell’edificio, scorse un’altra apertura nell’arena: su in alto c’erano degli archi scavati nella pietra, sbarrati da barre di ferro. Una di queste aperture non aveva le sbarre. Udì un altro grido, si sollevò sul pianerottolo, e guardò.

Il cuore gli accelerò in petto. Lì, sparpagliati sul grande anello del campo di esercitazione, si trovavano decine di reclute, anche i suoi fratelli. Allineati, erano tutti schierati di fronte a decine di soldati dell’Argento. Gli uomini del Re camminavano tra di loro, chiamandoli per nome.

Un altro gruppo di reclute se ne stava da parte, di lato, sotto gli occhi attenti di un soldato, tirando lance verso un bersaglio lontano. Uno di essi lo mancò.

Thor si sentì ribollire di indignazione. Lui stesso avrebbe potuto colpire quei segni, era bravo tanto quanto ciascuno di loro. Solo perché era più giovane, un po’ più piccolo, non era giusto che fosse lasciato fuori.

All’improvviso Thor sentì una mano sulla schiena e si sentì tirare indietro, volando in aria. Atterrò pesantemente a terra, ansimante.

Guardò in su e vide la guardia del cancello che lo guardava con un ghigno.

“Cosa ti ho detto, ragazzo?”

Prima che potesse reagire, la guardia gli sferrò un forte calcio. Thor sentì una profonda fitta alle costole, mentre la guardia si preparava a colpirlo di nuovo.

Questa volta Thor afferrò il piede della guardia a mezzaria e lo tirò bruscamente, facendogli perdere l’equilibrio e facendolo cadere.

Thor si rimise velocemente in piedi. Nello stesso istante anche la guardia fece lo stesso. Thor esitò, ripensando scioccato a ciò che aveva appena fatto. Di fronte a lui la guardia lo guardava in cagnesco.

“Non solo ti farò arrestare,” sibilò la guardia, “ma te la farò anche pagare. Nessuno può permettersi di toccare una guardia del Re. Dimenticati di entrare a far parte della Legione: ora ti crogiolerai in gattabuia. Sarai fortunato se mai qualcuno ti rivedrà!”

La guardia tirò fuori una catena con un ceppo all’estremità. Si avvicinò a Thor, con la vendetta stampata in volto.

La mente di Thor cercava rapida una soluzione. Non poteva permettere che lo arrestassero, del resto non era stata sua intenzione fare del male ad una Guardia del Re. Doveva pensare a qualcosa, e doveva farlo in fretta.

Si rammentò della sua fionda. I suoi riflessi agirono per lui e la afferrò, inserì una pietra, prese la mira e lanciò.

La pietra si librò nell’aria e, con stupore della guardia, fece volar via i ceppi dalla sua presa, colpendogli le dita. La guardia si ritrasse e scosse la mano, urlando di dolore, mentre i ceppi ricadevano rumorosamente a terra.

La guardia fissò Thor con sguardo di morte. Tirò fuori un caratteristico anello metallico.

“Questo è stato il tuo ultimo errore,” disse con tono lugubre e minaccioso, poi andò alla carica.

Thor non aveva scelta: quell’uomo semplicemente non gli avrebbe risparmiato la vita. Infilò un’altra pietra nella fionda e la lanciò. Tirò ponderatamente: non voleva uccidere la guardia, ma doveva fermarla. Quindi, invece di mirare al cuore, al naso, ad un occhio o alla testa, lanciò verso il punto che sapeva l’avrebbe fermato senza ucciderlo.

Tra le gambe.

Fece volare la pietra, non con piena forza, ma a sufficienza da mettere l’uomo al tappeto.

Fu un colpo perfetto.

La guardia collassò, lasciando cadere la spada e stringendosi le mani sull’inguine mentre cadeva a terra rannicchiandosi a palla.

“Sarai impiccato per questo!” gemette tra grugniti di dolore. “Guardie! Guardie!”

Thor guardò verso l’alto e in lontananza vide diverse Guardie del Re che correvano verso di lui.

Doveva agire ora o mai più.

Senza sprecare un attimo di più, si mise a correre verso il pianerottolo dell’arcata. Avrebbe dovuto saltare dentro l’arena da lì, e farsi così vedere. E avrebbe combattuto contro chiunque si fosse messo sui suoi passi.

CAPITOLO CINQUE

MacGil sedeva nel salone superiore del castello, il suo salone per gli incontri privati, quello che utilizzava per questioni personali. Sedeva sul suo trono personale, di legno intarsiato, e osservava quattro dei suoi figli che stavano in piedi dinnanzi a lui. C’era il suo primogenito maschio, Kendrick, un bravo guerriero e un vero gentiluomo di venticinque anni. Di tutti i suoi figli era quello che assomigliava di più a MacGil, il che era buffo, dato che era un bastardo, l’unico figlio di MacGil nato da un’altra donna, una donna che aveva da tempo dimenticato. MacGil aveva cresciuto Kendrick insieme ai suoi figli legittimi, nonostante le iniziali proteste della sua Regina, a condizione che non sarebbe mai salito al trono. La cosa faceva ora soffrire MacGil, dato che Kendrick era l’uomo migliore che avesse mai conosciuto, un figlio di cui era fiero di essere il padre. Non ci sarebbe potuto essere erede migliore per il regno.

Accanto a lui, in forte contrasto, c’era il figlio secondogenito – in effetti il primogenito legittimo – Gareth, ventitré anni, magro, con le guance scavate e grandi occhi scuri che non stavano mai fermi. Il suo carattere non avrebbe potuto essere più diverso da quello del fratello maggiore. La natura di Gareth era in tutto l’opposto di quella del fratello: dove Kendrick era franco e diretto, Gareth nascondeva i suoi reali pensieri; dove Kendrick era orgoglioso e nobile, Gareth era disonesto e ingannevole. MacGil soffriva per il fatto di non apprezzare un suo proprio figlio, e aveva tentato molte volte di correggere la sua indole, ma dopo un certo punto negli anni dell’adolescenza del ragazzo, aveva deciso che la sua natura era stata decisa dal destino: cospiratore, assetato di potere ed ambizioso in ogni accezione sbagliata del termine. Inoltre, MacGil lo sapeva, Gareth non provava alcun amore per le donne, ed aveva invece diversi amanti maschi. Altri re avrebbero diseredato un figlio del genere, ma MacGil era un uomo di ampie vedute, e per lui quello non era un motivo per non amare un figlio. Non lo giudicava per questo. Ciò per cui lo giudicava era la sua natura cattiva e cospiratrice, che era una cosa che lui non poteva controllare.

La successiva nella riga, dopo Gareth, era la seconda femmina, Gwendolyn. Sedici anni appena compiuti, era la più bella ragazza sulla quale avesse mai posato gli occhi, ed il temperamento brillava addirittura più del suo aspetto: era gentile, generosa, onesta, la miglior donna che avesse mai conosciuto. Da questo punto di vista era molto simile al fratello Kendrick. Guardava MacGil con l’amore tipico di una figlia per il proprio padre, e lui aveva sempre percepito la sua lealtà, in ogni sguardo. Era addirittura più orgoglioso di lei che dei suoi figli maschi. Accanto a Gwendolyn stava il maschio più giovane, Reece, un ragazzino orgoglioso e vivace che, a quattordici anni, stava già diventando uomo. MacGil aveva assistito con grande piacere al suo ingresso nella Legione, e poteva già scorgere in lui l’uomo che sarebbe diventato. Un giorno, MacGil non aveva alcun dubbio. Reece sarebbe stato il suo figlio migliore, ed un grande sovrano. Ma quel giorno non era adesso. Era ancora troppo giovane, ed aveva ancora così tanto da imparare.

MacGil aveva provato un gran miscuglio di sentimenti passando in rassegna questi quattro giovani, i suoi tre figli e sua figlia, in piedi davanti a lui. Provava orgoglio misto a delusione. Avvertiva anche rabbia ed irritazione perché due dei suoi figli mancavano. La maggiore, sua figlia Luanda, si stava ovviamente preparando per il proprio matrimonio, e dato che si sarebbe sposata con l’appartenente ad un altro regno, non c’era ragione perché partecipasse ad una discussione sul futuro erede. Ma l’altro figlio, Godfrey, quello di mezzo, di diciotto anni, era assente. MacGil arrossì per l’affronto.

Fin da quando era un bambino Godfrey aveva sempre mostrato una tale mancanza di rispetto per la regalità. Era sempre apparso chiaro che non gli interessava e che non avrebbe mai regnato. La maggior delusione di MacGil era che Godfrey preferiva invece buttare il proprio tempo in birrerie, in compagnia di amici poco di buono, causando crescente vergogna e disonore per la famiglia reale. Era uno scansafatiche, dormiva la maggior parte del giorno, che per il resto occupava bevendo. Da una parte MacGil era sollevato che non fosse lì, ma dall’altra quello era un insulto che non poteva sopportare. In effetti se l’era aspettato, ed aveva mandato presto i suoi uomini a fare una retata in birreria per riportarlo a casa. MacGil rimase seduto in silenzio, in attesa, finché arrivarono.

La pesante porta finalmente si aprì fragorosamente, ed entrarono marciando le guardie reali, trascinando Godfrey tra loro. Gli dettero una spinta e Godfrey fu catapultato all’interno della stanza mentre la porta veniva sbattuta alle sue spalle.

Gli altri si voltarono e lo fissarono. Godfrey era trasandato, mezzo svestito e non rasato, e puzzava di birra. Sorrise. Con insolenza. Come sempre.

“Salve, Padre,” disse Godfrey. “Mi sono perso tutto il divertimento?”

“Te ne starai in piedi con i tuoi fratelli e come loro aspetterai che io parli. Se non lo farai, Dio me ne salvi, ti incatenerò nelle prigioni insieme al resto dei prigionieri comuni, e non vedrai cibo, e ancor meno birra, per tre giorni interi.”

Godfrey rimase lì, sprezzante, guardando suo padre con aria truce. In quello sguardo MacGil notò un qualche profondo bacino di forza, una parte di se stesso, una scintilla di qualcosa che un giorno forse potrebbe rivelarsi utile per Godfrey. Sempre che fosse mai in grado di dominare la propria personalità.

Ribelle fino all’ultimo, Godfrey aspettò dieci minuti buoni e poi finalmente ubbidì e si avvicinò lentamente agli altri.

Mentre tutti stavano lì in piedi, MacGil passò in rassegna questi cinque figli: il bastardo, il diverso, l’ubriacone, la figlia e il più giovane. Era uno strano gruppo e riusciva a malapena a credere che fossero stati tutti originati da lui. Ed ora, nel giorno del matrimonio della sua primogenita, gli toccava anche il compito di scegliere un erede da quel mazzo. Com’era possibile?

Era un esercizio inutile: dopotutto era lui il reggente e avrebbe potuto governare ancora per trent’anni o più; qualsiasi erede avesse scelto oggi avrebbe potuto attendere anche decenni prima di salire al trono. L’intera tradizione lo irritava. Probabilmente era stata rilevante ai tempi di suo padre, ma non aveva senso ora.

Si schiarì la voce.

“Siamo qui riuniti oggi per la più attesa delle tradizioni. Come sapete, in questo giorno – il giorno del matrimonio della mia primogenita – ho il compito di nominare un successore. Un erede che governi questo regno. Se dovessi morire, nessuno sarà più adeguato di vostra madre per salire al governo. Ma le leggi del nostro regno dicono che solo un re può essere il legale successore. Per cui, devo scegliere.

MacGil trattenne il fiato, riflettendo. Un silenzio pesante aleggiava nell’aria, e poteva avvertire il peso dell’attesa. Li guardò negli occhi, e scorse in ciascuno una diversa espressione. L’illegittimo aveva l’aspetto rassegnato, sapendo che non sarebbe stato scelto. Gli occhi del diverso brillavano di ambizione, come se si aspettasse che la scelta ricadesse naturalmente su di lui. L’ubriacone guardava fuori dalla finestra, non nutriva il minimo interesse. La figlia ricambiava il suo sguardo con amore, sapendo di non avere parte in quella discussione, ma amando suo padre comunque. Lo stesso per il più giovane.

“Kendrick, ti ho sempre considerato un vero figlio. Ma le leggi del nostro regno mi vietano di passare lo scettro a nessun altro che non sia prole legittima.”

Kendrick si inchinò. “Padre, non mi aspettavo che mi scegliessi. Sono contento di quello che ho. Non lasciare che questa situazione ti turbi.”

MacGil si sentì afflitto dalla risposta, sentendo quanto genuino era il ragazzo che lui avrebbe voluto nominare come erede, più di tutti gli altri.

“Questo vi lascia in quattro. Reece, sei un bravo ragazzo, il migliore che abbia mai visto. Ma sei troppo giovane per far parte della scelta.”

“È quello che mi aspettavo, padre,” rispose Reece, con un lieve inchino.

“Godfrey, tu sei uno dei miei tre figli legittimi maschi, tuttavia preferisci sprecare il tuo tempo in birreria, con il sudiciume. Ti sono stati offerti ogni sorta di privilegi nella vita, e li hai sdegnati tutti. Se devo pensare a una delusione in questa vita, ebbene sei tu.”

Godfrey rispose con una smorfia, assumendo un atteggiamento di disagio.

“Bene, quindi immagino di aver finito qui e di potermene tornare in birreria, giusto, padre?”

Con un rapido ed irrispettoso inchino Godfrey si voltò e si incamminò verso l’uscita.

“Torna qui,” gridò MacGil. “ORA!”

Godfrey continuò ad avanzare, ignorandolo. Attraversò la stanza ed aprì la porta. Lì stavano due guardie.

MacGil fremette di rabbia quando le guardie lo guardarono con sguardo interrogativo.

Ma Godfrey non aspettò: si fece strada tra di loro, attraverso il salone aperto.

“Fermatelo!” gridò MacGil. “E tenetelo lontano dalla vista della Regina. Non voglio che sua madre venga ferita dalla sua vista nel giorno del matrimonio di sua figlia.”

“Sì, mio signore,” dissero chiudendo la porta prima di correre ad acciuffarlo.

MacGil stava seduto, respirando, rosso in volto, tentando di riprendere la calma. Per la millesima volta si chiese cosa aveva mai fatto per meritarsi un figlio del genere.

Guardò di nuovo i figli rimasti. Tutti e quattro erano lì in piedi, in attesa in quel silenzio fitto. MacGil fece un profondo respiro, nel tentativo di concentrarsi.

“Questo lascia solo due di voi, continuò. E tra questi due io ho scelto il successore.”

MacGil si rivolse a sua figlia.

“Gwendolyn, sarai tu.”

Ci fu un sussulto di sorpresa nella stanza, tutti i suoi figli sembravano scioccati, soprattutto Gwendolyn.

“Hai detto bene, padre?” chiese Gareth. “Hai detto Gwendolyn?”

“Padre, sono onorata,” disse Gwendolyn. “Ma non posso accettare. Sono una donna.”

“È vero, una donna non ha mai seduto sul trono dei MacGil. Ma ho deciso che è tempo di cambiare la tradizione. Gwendolyn, tu hai la mentalità e lo spirito migliori di ogni giovane donna che io abbia mai incontrato. Sei giovane, ma se Dio vuole non morirò presto, e quando sarà ora, sarai abbastanza saggia da governare. Il regno sarà tuo.”

“Ma padre!” gridò Gareth, rosso in volto. “Io sono il primogenito maschio tra i tuoi figli legittimi! Sempre, in tutta la storia dei MacGil, lo scettro è andato al primogenito maschio!”

“Sono io il Re,” rispose MacGil cupamente, “e detto io la tradizione.”

“Ma non è giusto!” insistette Gareth piagnucolando. “Devo essere io il re. Non mia sorella. Non una donna!”

“Tieni a freno la lingua, ragazzo!” urlò MacGil, scosso dalla rabbia. “Osi mettere in discussione il mio giudizio?”

“Valgo meno di una donna? È questo che pensi di me?”

“Ho preso la mia decisione,” disse MacGil. “Tu la rispetterai e la seguirai con obbedienza, come tutti gli altri sudditi del mio regno. Ora potete andarvene.”

I figli fecero un veloce inchino con la testa ed uscirono velocemente dalla stanza.

Ma Gareth si fermò alla porta, incapace di portarsi fuori.

Si voltò e si trovò solo, faccia a faccia con suo padre.

MacGil poteva riconoscere la delusione sul suo volto. Appariva chiaro che si era aspettato di essere nominato erede quel giorno. Ancora di più, l’aveva voluto. Disperatamente. Il che, tutto sommato, non sorprendeva MacGil, e tra l’altro era anche il motivo per cui non aveva nominato lui.

“Perché mi odi, padre?,” chiese.

“Non ti odio. Semplicemente non ti reputo adatto a governare il mio regno.”

“E per quale ragione?” insistette Gareth.