Kitabı oku: «Un’Impresa da Eroi», sayfa 8
“Non rimarrà in casa mia,” disse sua madre in modo brusco.
“Tu giudichi troppo in fretta, quando non conosci neanche tutta la storia.”
“La conosco la storia,” ribatté lei. “Piuttosto bene.”
Gwen poteva percepire astio nella voce di sua madre, e ne fu sorpresa. Capitava raramente di sentir litigare i suoi genitori – era successo veramente poche volte nella sua vita – e non aveva mai sentito sua madre così agitata. Non riusciva a comprenderne il motivo.
“Starà nella caserma, con gli altri ragazzi. Non lo voglio sotto il mio tetto. Mi hai capito?” insistette lei.
“Il castello è grande,” replicò il padre. “Non ti accorgerai neanche della sua presenza.”
“Non mi interessa se me ne accorgerò o meno. Non lo voglio qui. È un problema tuo. Sei tu che hai deciso di inserirlo qui.”
“Neanche tu sei così innocente,” la rimbeccò il padre.
Gwen sentì un rumore di passi e vide suo padre che attraversava la stanza uscendo dalla porta sul lato opposto, sbattendola dietro di lui così forte che la stanza tremò. Sua madre rimase lì, sola in mezzo alla stanza, e iniziò a piangere.
Gwen si sentiva malissimo. Non sapeva cosa fare. Da una parte pensava che fosse meglio svignarsela, ma dall’altra non poteva sopportare la vista di sua madre in lacrime, non poteva sopportare di lasciarla lì così. Ed oltretutto, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a capire per che cosa avessero litigato. Intuì che l’oggetto della discussione fosse Thor. Ma perché? Perché sua madre doveva curarsene così tanto? C’erano decine di persone che vivevano a palazzo.
Gwen non poteva andarsene, non con sua madre in quello stato. Doveva consolarla. Allungò la mano ed aprì delicatamente la porta.
Il legno scricchiolò, e sua madre si voltò, presa alla sprovvista. Reagì bruscamente.
“Non si bussa?” chiese severamente. Gwen poteva vedere la sua irritazione, e si sentiva malissimo.
“Cosa c’è che non va, madre?” chiese, avvicinandosi a lei con dolcezza. “Non ho intenzione di impicciarmi, ma ti ho sentita litigare con mio padre.”
“Hai detto bene: non dovresti impicciarti,” rimbrottò sua madre.
Gwen era sorpresa: sua madre era spesso diretta e brusca, ma mai fino a quel punto. La forza della sua rabbia impietrì Gwen, che si fermò, insicura, a pochi passi da lei.
“Si tratta del ragazzo nuovo? Thor?” chiese.
Sua madre si voltò e distolse lo sguardo, asciugandosi una lacrima.
“Non capisco,” insistette Gwen. “Perché ti interessa così tanto dove sta?”
“I miei problemi non ti riguardano,” disse freddamente, con l’evidente intenzione di chiudere il discorso. “Cosa vuoi? Perch sei venuta qui?”
Ora Gwen era nervosa. Voleva che sua madre le dicesse tutto di Thor, ma non avrebbe potuto scegliere momento peggiore. Si schiarì la voce, esitante.
“Io veramente volevo chiederti di lui. Cosa sai di lui?”
Sua madre si voltò e la fissò stringendo gli occhi, sospettosa.
“Perché?” chiese, con cupa serietà. Gwen avvertì che la stava studiando, guardandole dentro e vedendo, grazie alla sua misteriosa perspicacia, che Thor le piaceva. Tentò di nascondere i suoi sentimenti, ma sapeva che non serviva a nulla.
“Semplice curiosità,” disse in modo per niente convincente.
La regina fece improvvisamente tre passi verso di lei, le afferrò con forza un braccio, e la fissò dritto negli occhi.
“Ascoltami bene,” sibilò. “Ho intenzione di dire questa cosa una volta sola. Stai alla larga da quel ragazzo. Mi ha sentito? Non devi assolutamente stargli attorno, per nessun motivo.”
Gwen era atterrita.
“Ma perché? È un eroe.”
“Non è uno di noi,” rispose sua madre. “Nonostante quello che possa pensare tuo padre. Voglio che tu gli stia alla larga. Mi hai sentito? Giuramelo. Giuramelo ora.”
“Non lo giuro,” disse Gwen, divincolando il braccio dalla presa troppo stretta di sua madre.
“È un plebeo, e tu sei una principessa,” gridò sua madre. “Tu sei una principessa. Hai capito? Se ti avvicini a lui in qualsiasi modo, lo farò esiliare da qui. Mi hai capito?”
Gwen non sapeva come rispondere. Non aveva mai visto sua madre così.
“Non venirmi a dire cosa devo fare, madre,” disse alla fine.
Gwen fece del suo meglio per parlare con voce coraggiosa, ma dentro di lei tremava. Era giunta lì per sapere tutto: ora era terrorizzata. Non capiva cosa stesse accadendo.
“Fai come desideri,” disse sua madre. “Ma il suo destino è nelle tue mani. Non dimenticarlo.”
Detto questo, si voltò, uscì dalla stanza e sbatté la porta dietro di sé, lasciando Gwen da sola nel silenzio riecheggiante, con il buon umore iniziale ormai sceso a terra. Cosa mai poteva aver suscitato una reazione cos violenta in sua madre e suo padre?
Chi era quel ragazzo?
CAPITOLO DIECI
MacGil era seduto nel salone del banchetto e guardava i suoi sudditi, lui ad unestremità del tavolo, McCloud dall’altra parte, e centinaia di uomini di entrambi i clan tra di loro. I festeggiamenti nuziali si stavano protraendo da ore fino a che, alla fine, la tensione tra i due clan si era risolta dopo la giornata del torneo. Come MacGil aveva previsto, tutto ciò di cui gli uomini avevano bisogno era carne e vino – e donne – a far loro dimenticare le insite differenze. Ora erano tutti mescolati alla stessa tavola, come compagni d’armi. Infatti, a guardarli adesso, MacGil non avrebbe neppure potuto affermare che erano due clan separati.
MacGil si sentiva soddisfatto: il suo piano generale stava funzionando, dopotutto. I due clan sembravano già più affiatati. Era riuscito laddove una lunga serie di re MacGil prima di lui non aveva avuto successo: unire le due parti dell’Anello, rendendone gli appartenenti, se non amici, almeno confinanti pacifici. Sua figlia Luanda era a braccetto con il suo neomarito, il principe McCloud, e sembrava felice. Il suo senso di colpa si smorzò. L’aveva anche data in sposa al di fuori del regno, ma almeno le aveva dato la possibilità di diventare regina.
MacGil ripensò a tutti i preparativi che avevano preceduto l’evento e richiamò alla memoria i lunghi giorni animati dalle discussioni con i suoi consiglieri. Era andato contro il consiglio di tutti i suoi fidi servitori nell’organizzazione di quell’unione. Non era stata una pace facile e, col tempo, i McCloud si sarebbero sentiti come a casa loro nella loro parte di Altopiano, questo matrimonio sarebbe stato un lontano ricordo e un giorno l’agitazione si sarebbe risvegliata. Non era ingenuo. Ma ora, almeno, c’era un legame di sangue tra i clan, e in particolare quando fosse nato un bambino questo non si sarebbe più potuto ignorare facilmente. Se quel bambino fosse cresciuto bene e un giorno avesse addirittura governato – un discendente generato dall’unione delle due parti dell’Anello – poi forse, un giorno, l’intero Anello si sarebbe unito, l’Altopiano avrebbe smesso di essere una linea di demarcazione, e la terra avrebbe prosperato sotto un'unica legge. Era questo il suo sogno. Non per se stesso, ma per i suoi successori. Del resto l’Anello doveva rimanere forte, unito per poter proteggere il Canyon e combattere le orde provenienti dalle terre al di là. Fino a che i due clan fossero rimasti divisi, avrebbero continuato a presentare una debole barriera di fronte al resto del mondo.
“Un brindisi,” gridò MacGil, e si alzò in piedi.
La tavolata fece silenzio e centinaia di uomini si alzarono, sollevando i loro calici.
“Al matrimonio della mia figlia primogenita! Allunione di MacGil e McCloud! Alla pace in tutto l’Anello!”
“QUI E PER SEMPRE!” rispose un coro di grida. Tutti bevvero e di nuovo la stanza si riempì del rumore delle risate e dei festeggiamenti.
MacGil si risedette e osservò la stanza, cercando gli altri suoi figli. C’era ovviamente Godfrey, che beveva a doppie mani, con una ragazza per lato, circondato dai suoi amici furfanti. Questo era forse l’evento regale che avesse mai sinceramente atteso. C’era Gareth, che stava seduto troppo vicino al suo amante Firth e gli sussurrava qualcosa all’orecchio; MacGil poteva vedere dai suoi occhi guizzanti che stava complottando qualcosa. Il solo pensiero gli fece contorcere lo stomaco, e distogliere lo sguardo. All’estremità opposta della stanza c’era il figlio più giovane, Reece, che festeggiava alla tavolata degli scudieri con il nuovo ragazzo, Thor. Lo sentiva già come un figlio, ed era un piacere che l’ultimogenito fosse già suo grande amico.
Cercò il volto della figlia più giovane, Gwendolyn, e finalmente la trovò, seduta da parte, circondata dalle sue ancelle che ridacchiavano. Seguì il suo sguardo e notò che stava osservando Thor. La esaminò per un lungo frangente, e si rese conto che era infatuata. Non aveva previsto questa cosa e non era ben certo di come comportarsi. Ebbe la sensazione che sarebbero potuti sorgere dei problemi. Soprattutto da parte di sua moglie.
“Non tutto è come sembra,” disse una voce.
MacGil si voltò e vide Argon seduto al suo fianco a guardare i due clan che pasteggiavano insieme.
“Cosa pensi di tutto questo?” chiese MacGil. “Ci sarà pace nei regni?”
“La pace non è mai stabile,” disse Argon. “Va di alti e bassi come le maree. Ciò che vedi davanti a te è il rivestimento esterno della pace. Vedi una faccia della medaglia. Stai cercando di fare la pace per forza al di sopra di un’antica rivalità. Ma ci sono centinaia di anni di sangue versato. Le anime urlano vendetta. E questa cosa non può essere placata da un semplice matrimonio.”
“Cosa stai dicendo?” chiese MacGil, bevendo un altro sorso di vino e provando un certo nervosismo, come sempre quando aveva Argon vicino.
Argon si voltò e lo fissò con una tale intensità da infondere il panico nel cuore di MacGil.
“La guerra ci sarà. I McCloud attaccheranno. Preparati. Tutti gli ospiti che ora vedi davanti a te presto faranno del loro meglio per assassinare i componenti della tua famiglia.”
MacGil sussultò.
“Ho preso la decisione sbagliata facendola sposare alla loro famiglia?”
Argon rimase per un po’ in silenzio e alla fine disse: “Non necessariamente.”
Argon distolse lo sguardo e MacGil capì che l’argomento era chiuso. C’erano un milione di domande alle quali voleva una risposta, ma sapeva che il suo stregone non avrebbe risposto fino a che non fosse stato pronto. Quindi si limitò a guardare gli occhi di Argon, rivolti a Gwendolyn prima e a Thor poi.
“Li vedi insieme?” chiese MacGil, improvvisamente curioso di sapere.
“Forse,” disse Argon. “Molte cose devono essere ancora decise.”
“Parli per indovinelli.”
Argon alzò le spalle e distolse lo sguardo, e MacGil capì che non avrebbe avuto da lui altre risposte.
“Hai visto quello che è successo sul campo oggi?” lo punzecchiò MacGil. “Con il ragazzo?”
“L’ho visto prima che succedesse,” rispose Argon.
“E cosa ne pensi? Qual è lorigine dei poteri del ragazzo? È come te?”
Argon si voltò e fissò MacGil negli occhi, e l’intensità del suo sguardo lo indusse quasi a guardare da un’altra parte.”
“È molto pi potente di me.”
MacGil lo guardò scioccato. Non aveva mai udito Argon parlare a quel modo.
“Più potente? Di te? Com’è possibile? Tu sei lo stregone del re, non c’è nessuno più potente di te in tutto il mondo.”
Argon alzò le spalle.
“Il potere non si manifesta in una forma sola,” disse. “Il ragazzo possiede poteri che vanno oltre la tua immaginazione. Oltre la sua stessa conoscenza. Non ha idea di chi è. Né da dove proviene.”
Argon si voltò e fissò MacGil.
“Ma tu lo sai,” aggiunse.
MacGil ricambiò lo sguardo, pensieroso.
“Io lo so?” chiese. “Dimmi. Ho bisogno di sapere.”
Argon scosse la testa.
“Esplora i tuoi sentimenti. Ti diranno la verità.”
“Che ne sarà di lui?” chiese MacGil.
“Diventerà una grande guida. Ed un grande guerriero. Governerà regni da solo. Regni molto più grandi del tuo. E sarà un re molto più grande di te. Questo è il suo destino.”
Per un breve momento MacGil si sentì ardere di invidia. Si voltò ad esaminare il ragazzo che rideva innocuo insieme a Reece, alla tavolata degli scudieri: il plebeo, il debole outsider, il più giovane del gruppo. Non riusciva a crederlo possibile. Guardandolo ora, sembrava appena passabile per essere ammesso nella Legione. Si chiese per un momento se Argon si sbagliasse.
Ma Argon non si era mai sbagliato, e non faceva mia dichiarazioni senza un motivo.
“Perché mi racconti questo?” chiese MacGil.
Argon si voltò a guardarlo.
Perché è ora che ti prepari. Il ragazzo ha bisogno di essere allenato. Ha bisogno che gli venga dato il meglio di tutto. E questa è una tua responsabilità.”
“Mia? E suo padre?”
“E chi è suo padre?” chiese Argon.
CAPITOLO UNDICI
Thor aprì a fatica gli occhi, disorientato, chiedendosi dove si trovasse. Era steso sul pavimento, su un cumulo di paglia, la faccia rivolta di lato, le braccia allungate sopra la testa. Sollevò il capo, asciugandosi la saliva dalla bocca, e subito avvertì una fitta di dolore alla testa, subito dietro agli occhi. Era il peggior mal di testa della sua vita. Ricordava la notte precedente, la festa del Re, il bere, la sua prima birra. La stanza stava ruotando. Aveva la gola secca e in quel momento giurò che non avrebbe bevuto mai più.
Thor si guardò in giro, cercando di orientarsi nella caserma buia. C’erano corpi ovunque, accasciati su mucchi di paglia, e la stanza risuonava del russare della gente. Si voltò dall’altra parte e vide Reece, qualche passo più in là, pure lui privo di sensi. A quel punto capì che si trovava nelle caserme. Le caserme della Legione. Ovunque attorno a lui giacevano ragazzi della sua età, una cinquantina in tutto.
Thor ricordava a malapena che Reece gli aveva indicato la via, alle prime luci dell’alba, e che era collassato su quel pagliericcio. La luce mattutina faceva il suo ingresso dalle finestre aperte, e Thor si rese subito conto di essere l’unico già sveglio. Si diede un’occhiata e si accorse che aveva dormito con i vestiti indosso. Sollevò un braccio e si passò la mano tra i capelli unti. Avrebbe dato ogni cosa per potersi lavare, anche se non aveva idea di dove. E avrebbe fatto qualsiasi cosa anche per un bicchiere d’acqua. Lo stomaco brontolò: aveva pure bisogno di cibo.
Era tutto così nuovo per lui. Sapeva appena dove si trovava, cosa gli avrebbe riservato la vita, qual era la routine della Legione del Re. Ma era felice. Era stata una notte stupefacente, una delle migliori della sua vita. Aveva trovato in Reece un caro amico, ed aveva scorto Gwendolyn una o due volte a guardarlo. Aveva tentato di parlare con lei, ma ogni volta che si avvicinava, il coraggio gli veniva meno. Avvertì uno spasimo di rimorso al pensiero. C’erano troppe persone attorno. Se fossero stati solo loro due, avrebbe trovato il coraggio. Ma si sarebbe presentata una seconda occasione?
Prima che Thor potesse terminare il pensiero, si udì un’improvvisa serie di colpi alle porte di legno delle caserme, ed un istante più tardi queste si aprirono di schianto, lasciando trapelare la luce.
“In piedi, scudieri!” gridò una voce.
Una decina di membri dell’Argento fece il suo ingresso, con le maglie metalliche che tintinnavano, battendo con spranghe di metallo sui muri di legno. Il rumore era assordante, e tutti i ragazzi attorno a Thor balzarono in piedi.
A capo del gruppo c’era un soldato dall’aspetto piuttosto feroce, che Thor ricordava di aver visto all’arena il giorno prima: quello tarchiato e calvo, con una cicatrice sul naso, che Reece gli aveva detto chiamarsi Kolk.
Sembrava guardare in cagnesco proprio Thor, e infatti alzò un dito e lo puntò contro di lui.
“Tu, ragazzo!” gridò. “Ho detto in piedi!”
Thor era confuso. Si era già alzato.
“Ma sono gi in piedi, signore,” rispose.
Kolk gli si avvicinò e gli sferrò un manrovescio in faccia. Thor si sentì pervadere dall’indignazione, con tutti gli occhi puntati su di lui.
“Non osare più controbattere ai tuoi superiori!” lo rimproverò Kolk.
Prima che Thor potesse rispondere, l’uomo proseguì nella stanza, tirando in piedi un ragazzo dopo l’altro e dando qualche calcio nelle costole a quelli che erano troppo lenti ad alzarsi.
“Non ti preoccupare,” gli disse una voce rassicurante.
Thor si voltò e vide Reece accanto a lui.
“Niente di personale nei tuoi confronti. È semplicemente il loro modo di fare. Il loro modo di mortificarci.”
“Ma a te non hanno fatto niente,” disse Thor.
“Ovvio, non mi toccheranno mai. È per mio padre. Però non sono comunque proprio gentili. Ci vogliono in forma, tutto qui. Pensano che questo ci temprerà. Non badarci troppo.”
I ragazzi vennero fatti tutti uscire dalle caserme e Thor e Reece si allinearono con loro. Quando furono fuori, Thor venne accecato dalla chiara luce del sole, strizzò gli occhi ed alzò una mano per ripararsi. Subito si sentì pervadere da un’ondata di nausea e si girò, piegandosi a vomitare.
Udì i risolini derisori dei ragazzi attorno a lui. Una guardia lo spinse, e Thor incespicò in avanti, di nuovo in fila con gli altri, asciugandosi la bocca. Non si era mai sentito peggio.
Accanto a lui, Reece sorrise.
“Notte agitata, vero?” chiese a Thor, con un ampio sorriso, dandogli una gomitata nelle costole. “Te l’avevo detto di fermarti al secondo bicchiere.”
Thor sentiva un continuo senso di nausea mentre la luce gli trafiggeva gli occhi, forte come non mai. Faceva già caldo, e gocce di sudore gli si formavano sotto la maglia di pelle.
Thor cercò di fare mente locale riportando alla memoria gli avvertimenti di Reece la notte precedente, ma non riusciva proprio a ricordarsene.
“Non ricordo nessun consiglio del genere,” si schermì.
Il sorriso di Reece si allargò. “Immagino. Non mi ascoltavi.” Ridacchiò Reece. “E tutti quei tentativi imbranati di parlare con mia sorella,” aggiunse. “Decisamente patetico. Non penso di aver mai visto in vita mia un ragazzo così spaventato da una donna.”
Thor arrossì cercando di ricordare. Ma non ci riusciva. Era tutto così offuscato nella sua mente.
“Non ho intenzione di offenderti,” disse Thor. “Con tua sorella.”
“Ma non è possibile che tu mi offenda. Se lei dovesse scegliere te, ne sarei felicissimo.”
I due allungarono il passo mentre il gruppo risaliva una collina. Il sole sembrava diventare più forte ad ogni passo.
“Ma devo metterti in guardia: tutte le mani del regno sono protese verso di lei. Le possibilità che lei scelga te... beh, diciamo semplicemente che sono remote.”
Mentre allungavano il passo, avanzando lungo le verdi colline della Corte del Re, Thor si sentiva rassicurato. Si sentiva accettato da Reece. Era stupefacente, ma continuava a percepire in Reece qualcosa di più di un fratello. Mentre camminavano Thor scorse i suoi tre veri fratelli che gli passarono accanto.Uno di loro si voltò e gli lanciò un'occhiataccia, poi diede una gomitata all'altro fratello, che gli rivolse un sorriso canzonatorio. Scossero la testa e proseguirono. Non ebbero neanche una parola per Thor. Ma del resto era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato.
In riga, Legione! Subito!”
Thor sollevò lo sguardo e vide molti altri componenti dell'Argento attorno a loro, che li spingevano tutti e cinquanta a formare una doppia fila. Un uomo si avvicinò da dietro e colpì il ragazzo davanti a Thor con un grosso bastone di bambù, rompendoglielo con violenza sulla schiena. Il ragazzo gridò di dolore e rientrò in modo più ordinato nella fila. Presto si ritrovarono disposti in due file ordinate, che marciavano attraverso il terreno del Re.
“Quando si marcia in battaglia, si marcia come un tutt'uno!” gridò Kolk, andando su e giù lungo i lati delle file. “Questo non è il cortile di vostra madre. State marciando in guerra!”
Thor continuava a marciare accanto a Reece, sudando al sole, chiedendosi dove li stessero conducendo. Lo stomaco gli si rivoltava ancora per i postumi della birra, e si chiese quando avrebbe fatto colazione e quando avrebbe bevuto qualcosa. Ancora una volta se la prese con se stesso per aver bevuto la sera prima.
Dopo aver salito e ridisceso alcune colline, passarono attraverso un arco di pietra e raggiunsero finalmente i campi circostanti. Passarono oltre un altro ingresso in pietra ed entrarono in una specie di colosseo. Il campo per le esercitazioni della Legione.
Di fronte a loro c'erano ogni genere di bersaglio per tirare lance, lanciare frecce, scagliare pietre, ed anche cumuli di paglia da squarciare con le spade. Il cuore di Thor accelerò a quella vista. Era lì che voleva arrivare, ad usare armi e ad allenarsi.
Ma mentre Thor si faceva strada verso la zona per le esercitazioni, qualcuno da dietro improvvisamente gli diede una gomitata alle costole: un piccolo gruppo di sei ragazzi, la maggior parte più giovani, dell’età di Thor, si erano raggruppati fuori dalla fila principale. Thor si ritrovò ad essere diviso da Reece e condotto dall’altra parte del campo.
“Pensi di andare ad allenarti?” chiese Kolk con tono canzonatorio mentre si separavano dagli altri e si allontanavano dai bersagli. “Ci sono i cavalli per te, oggi.”
Thor sollevò lo sguardo e vide dove erano diretti: all’estremità del campo numerosi cavalli scalpitavano. Kolk gli rivolse un sorriso malvagio.
“Mentre gli altri tirano lance e si esercitano con le spade, tu oggi baderai ai cavalli e pulirai le loro lettiere. Tutti devono iniziare da qualche parte. Benvenuto nella Legione.”
Thor si sentì sprofondare. Non era così che se l’era immaginato.
“Pensi di essere speciale, ragazzo?” chiese Kolk, camminandogli accanto ed avvicinandosi al suo volto. Thor capì che stava cercando di farlo esplodere. “Solo per il fatto che il Re e suo figlio hanno una certa simpatia per te non significa che mi devi guardare dall’alto in basso. Sei ai miei ordini ora. Hai capito? Non me ne frega niente di quali intriganti trucchetti tu abbia tirato fuori sul terreno del torneo. Sei soltanto un comune ragazzino. Mi hai capito?”
Thor deglutì. Credeva di trovarsi lì per un lungo e duro allenamento.
A peggiorare le cose – appena Kolk si allontanò per torturare qualcun altro – il ragazzo davanti a Thor, un ragazzino basso e tozzo con il naso schiacciato, si voltò e gli rivolse un ghigno.
“Tu non appartieni a questo posto,” disse. “Hai imbrogliato per entrare. Non eri stato selezionato. Non sei uno di noi. Per niente. E non stai simpatico a nessuno qui.”
Anche il ragazzo accanto a lui si girò ghignante.
“Faremo tutto il possibile per fare in modo che tu venga buttato fuori,” disse. “Entrare non significa rimanere.”
Thor indietreggiò di fronte al loro odio. Non poteva credere di avere già dei nemici, e non sapeva cosa aveva fatto per meritarseli. Tutto quello che aveva voluto era entrare nella Legione.
“Perché non pensi agli affari tuoi,” disse una voce.
Thor si voltò e vide un ragazzo alto e magro, con in capelli rossi, il viso cosparso di lentiggini e piccoli occhi verdi, lì in piedi pronto a difenderlo. “Voi due siete bloccati qui a spalare con tutti noi,” aggiunse. “Non siete così speciali, quindi. Andate a prendervela con qualcun altro.”
“Pensa agli affari tuoi, servetto,” ribatté violentemente uno dei ragazzi, “o sistemeremo anche te.”
“Provateci,” rimbrottò il ragazzo con i capelli rossi.
“Qui si parla quando lo dico io,” gridò Kolk ad uno dei ragazzi, colpendolo con forza sulla testa. I due ragazzi davanti a Thor fortunatamente si rigirarono.
Thor non aveva idea di cosa dire. Rientrò nella fila accanto al ragazzo rosso di capelli, provando gratitudine per lui.
“Grazie,” gli disse Thor.
Il giovane si voltò e gli sorrise.
“Mi chiamo O’Connor. Ti darei la mano, ma mi colpirebbero se lo facessi. Quindi considerala una stretta di mano invisibile.”
Fece un sorriso ancora più ampio, e subito Thor provò simpatia per lui.
“Non badare a loro,” aggiunse. “Hanno solo paura. Come tutti noi. Nessuno di noi sapeva esattamente per che cosa ci arruolavamo.”
Presto il gruppo giunse al limitare del campo, e Thor vide sei cavalli scalpitanti.
“Prendete le redini,” ordinò Kolk. “Tenetele saldamente e conduceteli attorno all’arena fino a che non saranno sfiniti. Adesso!”
Thor fece un passo avanti per prendere le redini di uno dei cavalli e, quando lo fece, l’animale indietreggiò e rampò, colpendolo quasi. Spaventato, Thor fece un balzo all’indietro e gli altri nel gruppo risero di lui. Kolk lo colpì duramente alla nuca e Thor ebbe voglia di voltarsi e restituire il colpo.
“Sei un membro della Legione ora. Non devi mai tirarti indietro. Di fronte a nessuno. Animale o bestiaccia che sia. Ed ora prendi quelle redini!”
Thor si fece coraggio, avanzò ed afferrò le redini del cavallo scalpitante. Riuscì a tenerle, mentre il cavallo strattonava e tirava, ed iniziò a condurlo attorno all’ampio campo di terra, mettendosi in fila con gli altri. Il suo cavallo lo strattonava e cercava di fare resistenza, ma Thor tirava di rimando, senza arrendersi facilmente.
“Sta andando meglio,” mi pare.
Thor si voltò e vide O’Connor che gli si metteva affianco, sorridendo. “Vogliono farci desistere, sai?”
Di colpo il cavallo di Thor si fermò. Non contava quanto lui tirasse le redini, non si spostava. Poi Thor sentì un odore nauseabondo: da quel cavallo stavano uscendo più escrementi di quanto potesse credere possibile. Sembrava non smettere mai.
Thor sentì che gli mettevano in mano una sorta di paletta, e sollevando lo sguardo vide Kolk accanto a lui, sorridente.
“Pulisci!” disse bruscamente.