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Kitabı oku: «Conferenze tenute a Firenze nel 1896», sayfa 21

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VI

Del resto la sua fanciullezza fu felice. Il più dolce e il più bello della sua poesia sta nel rimpianto di quello stato soave, di quella stagion lieta. Stato soave, stagion lieta, se crediamo a lui che tante volte e in tante forme lo dice. Ma si può avere qualche ragionevole dubbio che fosse così. Grato occorre, dice egli stesso,

 
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!
 

La qual sentenza, dell'Idillio XIV, parve al poeta troppo lata negli ultimi anni della sua vita: onde la limitò aggiungendo:

 
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso.
 

Certamente accade in noi questo inganno continuo, che altri spiegherà, ma che tutti, credo, possono avere sperimentato: che pensiamo sempre che la felicità sia avanti noi, nell'avvenire; e proviamo sempre che è dietro noi, nel passato. Ciò in un andare di vita comune, senza scosse soverchie. Questa illusione era anche del Leopardi, poichè grato gli era il rimembrare il passato, ancorchè tristo. E più doveva ubbidirle a proposito della sua fanciullezza di piccolo trionfatore nei giuochi romani, di vincitore nei primi studi, in quanto che egli non ebbe, si può dire, che fanciullezza. La sua fanciullezza appassì, come un fiore insidiato da un baco segreto, senza nè esser colto nè legare. Anche l'aspetto era, non si sapeva se di fanciullo o di vecchio: di giovane, non fu mai. Nè si sa, se di vecchio o di fanciullo fossero più certi suoi gusti, certe sue ripugnanze, certe sue golosità, certe sue ritrosie. Anche i suoi amori somigliano a quei grandi tuffi di sangue, che ognuno ha provato da ragazzo, quando il genio della specie dorme ancora o ha appena un occhiolino aperto. Non ebbe giovinezza, dunque, e il ricordo della sua prima età addolcì o amareggiò, non so bene, quasi per intero, la sua vita di poeta e di pensatore, come di tale, che, studiando sempre sè stesso e dalla sua esperienza e qualche volta dalla sua immaginazione prendendo gli argomenti de' suoi giudizi, allargava sino alla storia del genere umano e dei popoli la conclusione che egli aveva preso intorno a sè stesso.

Nè solo è vero quello che un nobilissimo pensatore scrisse di lui, che “il ricordare trascorsi, il rimpiangere perduti (i primi anni) fu l'unica sorgente della sua poesia„ ma altresì che della sua politica e della sua filosofia bisogna cercare la fonte in questo suo tempo migliore. Parrà strano a chi crede, come credono quasi tutti, a un mutamento radicale avvenuto nelle idee e nei sentimenti del Leopardi dopo il 17. Ma io penso che nella sua vita accadesse invece come un cataclisma intimo, che la spezzò in due. Tra le due parti è un baratro; ma le due parti sono della stessa formazione. Quando avvenisse questo discidio, non si può dire a puntino: ci fu forse una lenta corrosione, piuttosto che un improvviso schianto; ma avvenne. Negli ultimi anni della sua vita egli derideva quel generale austriaco-papalino che si portò così bene alla battaglia di Faenza: i papalini fuggirono, e li

 
… precedeva in fervide sonanti
Rote il Colli gridando: Avanti avanti.
 

Ebbene, più che dalla voce popolare, egli dovè udire, fanciullo, questo motto in casa dal padre; che nella sua autobiografia ne riferisce altri, da quell'uomo mordace che era: “Il giorno 2 di febbraio del 1797, alla mattina, i Francesi attaccarono… Ben presto… l'inimico si accinse a guadare il fiume; e vistosi dai popolani (papalini?) che i Francesi non temevano di bagnarsi i piedi: “Addio„ si gridò nel campo “si salvi chi può„ e tutti fuggirono por duecento miglia„. E più giù racconta che i cannoni vennero caricati con fagioli, aggiungendo “questa mitraglia figurò nella guerra fra il Papa e la Francia„. Nella villetta di Posilipo in cui il poeta scriveva la Ginestra, sonò forse una sera la stessa risata che trent'anni prima aveva fatto eco, nel palazzo di Recanati, al racconto di Monaldo. E ci sono in vero molte differenze tra l'autore dei Paralipomeni e quello dei Dialoghetti sulle materie correnti? Il figlio scherniva, il padre malediceva: per le male barbe Giacomo invocava il barbiere, Monaldo il boia: ma infine i loro sentimenti s'incontravano, sebbene non paresse nè agli altri nè a loro stessi.

Giacomo amava la patria italiana. Egli scrive al Giordani: “mia patria è l'Italia: per la quale ardo d'amore, ringraziando il cielo d'avermi fatto italiano„. Ma aggiunge “perchè alla fine la nostra letteratura, sia pur poco coltivata, è la sola figlia legittima delle due sole vere tra le antiche„. È un amore dunque letterario, quale poteva averlo da bambino, sebbene aspirasse allora più a erudizione che a letteratura. Ma avesse il suo amore ardente avuto altre origini o fini, Giacomo non potrebbe con ciò essere chiamato “patriota„ come intenderemmo noi ora. Bene lo credettero a' suoi tempi: “Quando Giacomo (dice Carlo) stampò le prime canzoni, i Carbonari pensarono che le scrivesse per loro, o fosse uno dei loro. Nostro padre si pelò per la paura„. Eppure Giacomo scrisse quelle canzoni con lo stesso animo con cui tre o quattro anni prima aveva con un suo discorso plaudito alla caduta dell'oppressore e maledetto il tentativo di re Murat. E se ne accorsero poi i liberali e i carbonari, e presero in sinistro la sua canzone sul monumento di Dante: al che egli risponde “che non la scrisse per dispiacere a queste tali persone, ma parte per amor del puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e prevenzioni; parte perchè non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, metteva in iscena altri attori, come per pretesto e figura„. Che non potendo parlare di Austriaci, egli parlasse di Francesi, e adombrasse col nome di questi, che avevano, per esempio, degli itali ingegni

 
Tratte l'opre divine a miseranda
Schiavitude oltre l'Alpi,
 

quelli che, cogli altri alleati, erano stati autori di ricondurle in patria; e potesse sperare che ad altri che a Francesi, si attribuisse, per esempio,

 
la nefanda
Voce di libertà che ne schernìa
 

Tra il suon delle catene e de' flagelli, a me non pare verosimile. Del resto, io non altro voglio indurre da questi fatti, se non che de' sentimenti suoi di prima del 14, è traccia ben distinta e nel 18, nel qual anno scriveva le due canzoni, e negli ultimi anni della sua vita, nei quali dettava i Paralipomeni. In politica, in somma, sentì presso a poco sempre a un modo. I sentimenti che apprendeva in casa, e certo ebbe da giovinetto sino almeno il 15, restarono in lui quasi immutati.

VII

E in religione? Egli era da fanciullo veramente pio: pativa anche di scrupoli e giocava all'altarino con la sua sorella. Recitava nella Congregazione de' Nobili, nella chiesa di San Vito i suoi sacri discorsi, abbozzava inni cristiani. Come tetri questi inni! Al Redentore egli diceva: “Tu hai provato questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla, tu hai sentito il dolore e l'infelicità dell'esser nostro…„ A Maria: “È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo: siamo tanto infelici! È vero che questa vita e questi mali sono brevi e nulli, ma noi pure siamo piccoli, e ci riescono lunghissimi e insopportabili. Tu che sei grande e sicura, abbi pietà di tante miserie!„ Oh! certo il piccolo Giacomo leggeva un libretto, uno forse de' molti della sua madre severa, così severa che appena appena sfiorava il suo visetto sparuto con la mano offrendola a un bacio; uno di quei libri, nei quali ella segnava le morti de' suoi. Vi leggeva la terribile massima dell'Ecclesiaste: Vanità delle vanità ed ogni cosa vanità! Ma in quei primi anni egli che abbozzava l'inno al Redentore (dice Gesù: dall'ora del mio nascimento infino alla morte mia sulla croce mai non fui senza dolore) doveva confortarsi con l'aggiunta, che trovava nel libretto: fuorchè l'amar Dio e servire a lui solo. E amava e serviva. Ma in tanto s'imprimeva sempre più nella tenera mente disposta alla mestizia e alla devozione: “Rammenta che l'occhio non si sazia per vedere, nè l'orecchio riempiesi per ascoltare„. Ruzzava e trionfava nel giardino paterno; e non importava che Carlo facesse l'ufficio di schiavo ammonitore; egli poteva leggere nel libretto: “Non esaltarti per gagliardia o per beltà di corpo, la quale per piccola malattia si guasta e si disforma„. Ardeva del desiderio di gloria: leggeva: “Dove sono… quei maestri… di loro, si tace„. In verità a me par di vedere nel lugubre libretto la traccia, o volete l'embrione, di tante poesie e prose del nostro Poeta. “La natura è scaltra e trae a sè molti, allaccia e inganna e sempre ha sè stessa per fine„. Indifferente di noi fa il Leopardi la natura:

 
Ma da natura
Altro negli atti suoi
Che nostro male o nostro ben si cura.
 

“La natura fatica per proprio agio„ commenterebbe il monaco pensoso. Altra considerazione: “povero ed esule in terra nemica dove incontro guerra ogni dì e grandissime sciagure…„ Non pensava ad essa Giacomo non più devoto, non più pio, Giacomo negli ultimi tempi della vita quando nella Ginestra stima gli uomini tra sè confederati contro l'Inimico? Non ricordava, sia pure inconsciamente, il modo cristiano di figurarsi la morte, come un soave abbandono del capo stanco sul petto del divino Redentore, quando diceva:

 
Quel dì ch'io pieghi addormentato il volto
Sul tuo vergineo seno?
 

Vero che non è più il seno di Gesù. Il Leopardi ha trasformato Gesù nella Morte, adornandola delle bianche vesti che indossava la donna che comparve a Socrate e gli disse:

 
A Ftia zollosa puoi arrivare nel terzo giorno.
 

Non ricordava egli l'umile preghiera “Percuotimi gli omeri e il collo„, l'umile confessione “Non son degno se non di essere flagellato e punito„, quando diceva, ribelle ai pensieri che alitavano dalla lontana fanciullezza,

 
La man che flagellando si colora
Del mio sangue innocente
Non ricolmar di lode,
Non benedir, com'usa
Per antica viltà l'umana gente,
Ogni vana speranza…?
 

Vana anche quella speranza, vano anche quel conforto! Egli aveva cancellato la seconda parte di quella prima affermazione, e restava, nuda terribile, la sentenza di Salomone:

 
Vanità delle vanità e tutto vanità.
 

Non paia strano che il Leopardi attingesse da libri cristiani o religiosi la sua sconsolata filosofia. Lo osservò il Gioberti: “quando lo scrittore deplora la nullità d'ogni bene creato in particolare, non fa se non ripetere le divine parole dell'Ecclesiaste e dell'Imitazione„. E, non so se dietro lui, la Teia scriveva: – Quale è il pensiero dominante negli scoraggiamenti, nei disgusti del figliuol di Monaldo? L'infinita vanità del tutto. E non è questo il mesto gemito di Salomone già da tanti secoli? Vanitas vanitatum. – Egli tutta la sua vita impiegò in commentare, ampliare, provare ciò che quei libri affermavano seccamente e solennemente. Ma ne aveva tolto già una paroletta di tre lettere, senza la quale quei libri divenivano vangeli di dolore: Dio.

 
E l'infinita vanità del tutto,
 

VIII

Dal cristianesimo egli certo prese un suo paragone che riassume il suo concetto della vita umana:

 
Vecchierel bianco, infermo
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle
 
·············
 
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge…
 

Non è questo il cristiano, che a imitazione del divino maestro, deve prendere la croce, cadendo sott'essa, risorgendo sempre con essa? “Dalla tua mano ricevetti la croce, la porterò e la porterò sino alla morte, così come m'imponesti„. Quella del vecchierello non è una croce, ma un fascio. Il poeta dissimula, il poeta sdegna l'immagine vera, che certo gli si era affacciata alla mente, ma è quella. Il Petrarca ha dato qualche colore e non altro: chè il fanciullo antico si è ridestato nel giovane trentenne e ha parlato col suo linguaggio d'allora. Solo in fine, invece della gloria e della felicità ultima, è un

 
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando il tutto oblia.
 

Un altro paragone è in lui che compendia la sua filosofia. Il paragone del letto. Ognuno ricorda sì questo del Leopardi, sì l'altro del Manzoni; i quali furono ingegnosamente paragonati tra loro da un terzo valentuomo. Il Manzoni e il Leopardi si assomigliano molto in quello in cui differiscono: sono due convertiti; ma l'uno a rovescio dell'altro. Il loro piccolo sunto di filosofia, sembra ritratto e ricorretto di su un modello comune. Che non è di Dante, di Dante proprio, nè del Petrarca, nè d'altri; sebbene vi si trovi. È del cardinale Melchiorre di Polignac nel suo poema postumo Anti-Lucretius. Il poema fu tradotto due volte in versi italiani; e tutte e due le traduzioni, una col testo a fronte, si trovano nella biblioteca dei conti Leopardi. Il paragone del cardinale Arcade è questo: “Come un malato si avvoltola nel letto con le membra inferme, ora adagiandosi sul lato sinistro, ora sul destro: E non giova: di che alza gli occhi, resupino: E non trova il sonno e sempre lo cerca; ciò che prima gli piaceva, poi lo tormenta e tortura; E non guarisce il suo male e nemmeno ne inganna la noia„. Si vede che dai tre versi di Dante “simigliante a quella inferma Che non può trovar posa in sulle piume Ma con dar volta suo dolore scherma„ si sono svolti alcuni particolari, che poi si ritrovano nel Manzoni e nel Leopardi. Dice, per esempio il Polignac “quod illi Primum in deliciis fuerat„; dice il Manzoni “e si figura che ci si deve star benone„. Dice il Polignac: “Ceu lectum peragrat… In latus alternis laevum dextrumque recumbens: Nec iuvat… Nusquam inventa quies; semper quaesita;„ e il Leopardi “comincia a rivolgersi sull'uno e sull'altro fianco… sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno… senza essersi mai riposato, si leva„. Ma si può opporre che tutto era già in Dante o prima di lui in Giobbe, e che non c'è bisogno di credere che il Leopardi e il Manzoni vedessero il Polignac. Or bene: nella prefazione dell'Anti-Lucretius, si racconta che il Cardinale, malato a morte, non trovando pace nel suo letto di dolore, si ricordò di quei suoi versi “nei quali paragona l'anima che ammalata e agitata dalla passione delle cose terrene non trova mai pace, a un corpo infermo„. Si ricordò di quei versi e ripetè quel suo pensiero in alcuni altri versi bellissimi, cui gli astanti, nel loro dolore, dimenticarono tutti, fuori di uno; Quaesivit strato requiem ingemuitque negata; verso imitato dal Virgiliano: Quaesivit caelo lucem ingemuitque reperta. Questo racconto è tale, che i due nostri grandi scrittori doveva fermare, invogliare e commuovere. Il Polignac morendo applicava, in certo modo, il suo paragone non più all'anima insaziata dell'epicureo, ma alla vita umana. E la reminiscenza di Virgilio colpì particolarmente il Leopardi. Si direbbe che, sulla fine della lugubre comparazione, egli lasciasse il Polignac per Virgilio. Non c'è in lui quel gemito che chiude così tristamente la lotta; ma l'uomo, per lui, muore, come Elissa, quando vede la luce: la luce, ossia la morte. “Venuta l'ora, senza essersi mai riposato, si leva„. Qual ora? l'ora del mattino, poichè ha durato a rivolgersi, “sempre sperando (spem elusam, ha il Polignac) tutta la notte„. Con l'aurora la morte, disse il mantis a Leonida. Ma possiamo noi esser certi che il Leopardi conoscesse quel poema? Certo egli l'aveva nella biblioteca; e si può supporre facilmente che egli ammiratore di Lucrezio (che negli Errori popolari è citato spessissimo) dovesse sin da fanciullo, quando la mente è di cera, leggere l'Anti-Lucrezio. Il padre non doveva lasciargli bere il veleno senza propinargli il contravveleno. Ma questo, si può dire, lasciò nella sua anima più traccie di quello. Egli ricavò bensì dal poeta Romano la descrizione dei primi momenti della vita dell'uomo, quando “La madre e il genitore Il prende a consolar dell'esser nato„; ma quanto più ha ricavato dal poeta franco-gallo! “Che ha a far teco la Natura? Matrigna certo, non madre la dirai, e in vano la chiamerai, molto gemendo„. Non aveva egli da queste parole appreso, fin da fanciullo forse, a maledire la Natura? Non discendono da queste parole i suoi rimproveri, tante volte poi ripetuti e in tante forme, a quella che “de' mortali È madre in parto ed in voler matrigna?„ “O natura, o natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti allor? perchè di tanto Inganni i figli tuoi?„ In questo libretto, forse, egli apprese a disprezzare la felicità umana: “Appena le hai ottenute, le prendi a noia, cercando sempre in cose nuove ciò stesso che ti deluse quando lo provasti, e ti lasciò avido o desideroso di meglio„. In questo libretto, forse egli apprese il presentimento di quel vano pentirsi, di quel volgersi indietro, quando la vecchiezza abbia inaridito le fonti del piacere, e siano “le pene Sempre maggiori e non più dato il bene„. Trovava egli infatti qua e là nel savio e pio libro: “Ti staranno avanti gli occhi le gioie della vita trascorse e ti trafiggeranno il memore cuore, come saette… Reo di lesa voluttà quegli che a sè fiero nemico si astenne dall'amore e dal vino, seguendo più gravi consigli„. E il Leopardi scrisse:

 
A me se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
 

Nel libro declamatorio e, diciamolo, pedantesco egli notò forse prima che in Giovanni le lugubri parole: “Tu segui, invece della luce, dolci tenebre. Già, ti piacciono; la morte ti piace!„ Potrei fare altre citazioni; potrebbe, chi volesse, trovare altri raffronti, sfuggiti a me. S'intende che il Pastore errante dell'Asia e il Gallo silvestre cantano con ben altra dolcezza e altezza! Ma qualche loro lugubre nota risonò nell'anima del poeta dalla lettura, destinata forse dal padre a premunirlo o guarirlo. Sono, per esempio, al bel principio del libro V alcuni versi, che dovettero fermarsi nella mente del giovinetto lettore, per poi più tardi ridestarsi e riecheggiare: “non sei simile a quelli cui, dopo aver fatti dolci sogni, è in uggia veder la luce del giorno quando… l'Aurora… li sveglia mal loro grado e dissipa le ombre soavi. Chè l'errore piace più e sogliono sospirare trovando la luce, per la quale ritornano le noie del Vero„. Pensate come comincia il suo cantico il Gallo silvestre: “Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in su la terra e partonsene le imagini vane. Sorgete, ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero„.

Dunque il cardinale di Polignac è un ispiratore del Leopardi? In vero questi vuol dimostrare, nel primo libro e altrove, che la felicità umana è nulla e falsa senza e fuori di Dio. E le argomentazioni sue s'impressero nel fanciullo credente. Poi Dio gli tramontò dall'anima… e allora, “all'apparir del vero„ la Speranza cadde e mostrava a lui “La fredda morte ed una tomba ignuda„, ignuda, senza la felicità infinita ma postuma, che sola è, se è.

Mentre il Manzoni, sulla fine del suo Romanzo, tirava “un po' cogli argani„ una morale nuova dal vecchio paragone, di cui non poteva disconoscere la giustezza, e concludeva: “E per questo si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene, e così si finirebbe a star meglio„.

Queste cose io ripensavo aggirandomi per i luoghi dove Giacomo Leopardi soffrì più che non visse, e meditò che la vita è dolore. Il sole era veramente dileguato, gli uccelli si erano taciuti, pace avevano infine le nuvole, i monti di Macerata spiccavano appena nell'azzurro, la valle del Potenza era bruna e silenziosa. Appena appena gli ulivi facevano sentire qualche brivido secco e un cipresso nereggiava sul colle dell'“Infinito„. E io imaginai il Poeta, ancora giovinetto, seduto ancora dietro la siepe: un fanciullo macilento, dal viso pallido e senile, coi capelli neri e gli occhi azzurri. Erano i primi anni del secolo, e a me pareva che quel fanciullo che si rifiutava di guardare così bello e lontano accavallamento di monti, la valle e il fiume, e si faceva riparo d'una siepe di sterpi per veder più lungi, in una lontananza senza fine, rappresentasse la coscienza umana di quei primi anni. Un soffio di vento che muove appena le foglie è la voce del presente, della vita. Che è essa rispetto all'infinito silenzio? Un canto d'artigiano che passa, ecco il suono dei popoli antichi, ecco il grido degli avi famosi:

 
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
 

Così meditava dopo il grande fragorìo della rivoluzione e dell'impero, il giovinetto smunto, dal viso senile, in questo borgo solitario. Egli era ben disilluso degli sforzi umani per raggiungere l'inafferrabile felicità, e non credeva nel progresso, non credeva nella scienza. Altri, presi dal medesimo sconforto, nei medesimi tempi, si volgevano a Dio, egli non credeva nemmeno a Dio. E tutta la vita egli rivolse all'Ignoto interrogazioni le quali sapeva dover restare senza risposta.

E ora del secolo siamo alla fine. Il fanciullo senile è ancora là, sente stormire le foglie e naufraga nel mare dell'Infinito. O siede, in forma di pastore, su un sasso della prateria, guardando la luna (appunto la luna falcata si mostrava su Monte Lupone) e chiedendo:

 
Che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
 

Sì: la coscienza umana chiede ancora al fine del secolo, quello che chiedeva al principio. Dobbiamo credere che ciò sia un sintomo di malattia o degenerazione? O dobbiamo credere che sia naturale del pastore in tal modo affannarsi, come della sua greggia il posare? Non so: certo io rammento che qualunque sia la risposta che noi ci sentiremo dare, ella ci consiglia il bene. Chè il fare bene non è solo la conclusione ultima della filosofia cristiana del Manzoni, ma anche di quella sconsolata del Leopardi. Poichè questi dopo avere mostrata la vanità del tutto, a parte a parte, della gloria, della libertà, del progresso, della vita, ha la visione dell'umanità futura, stretta insieme e ordinata, “negli alterni perigli e nelle angoscie della guerra comune„.

Il poeta del dolore conclude adunque, non troppo diversamente dal poeta della speranza, così: Noi stiamo tutti male: aiutiamoci dunque tra noi infelici, difendiamoci, amiamoci.

Non diversa la conclusione, come non dissimili le premesse. Perchè? Elle furono poste, ripeto, da tutti e due in quei primi anni del secolo, durante e dopo quel tanto “affaticare„, che parve non fosse giovato a nulla. Parve, ripeto, al Leopardi nella sua fanciullezza, e seguitò a parer dopo, perchè in lui la fanciullezza fu tutta la vita. Nè per altra ragione io ho trattato del divino poeta nel periodo storico nel quale cade il gemmare, non il fruttare nè il fiorire suo. Era appena cessata l'epopea Napoleonica, e il Leopardi, già formato, usciva a dire: Infelici! infelici! O mesta voce di fanciullo, ineffabilmente mesta, sebbene si volgesse allora a Gesù! La dolce fede divina, già non gl'impediva di credere all'immedicabile infelicità umana; come il mancare poi di essa fede, non gl'impedì di credere al grande ma unico e non solito, ahimè, nè facile conforto: all'amore!

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
01 kasım 2017
Hacim:
410 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain