Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 14
GLI ORDINI RELIGIOSI E L'ERESIA
DI
FELICE TOCCO
Signore e Signori,
Di settimana santa è bene entrare in chiesa e riandare col pensiero la storia delle più antiche eresie, non fosse altro per sapere se resti in noi qualche vestigio degli antichi errori. E se fastidio vi prenderà di questa corsa vertiginosa per l'ampio giro di più che due secoli, non incolpate me, vittima innocente, ma chi scelse insieme e il subbietto della conferenza e il conferenziere, cadendo senza dubbio in eresia doppia e doppiamente infelice. E dico male subbietto, chè l'argomento nostro non ne ha uno, ma due non che disparati siffattamente opposti che molti di voi si saranno dimandati con meraviglia a quale bell'umore sia caduto in mente di metterli insieme. Nè avete torto perchè gli ordini religiosi furono sempre tenuti per il più saldo presidio di quella stessa Chiesa, che l'eresia tendeva da più parti di sovvertire, anzi alcuni di questi ordini sursero appunto per combattere corpo a corpo e perseguitare a morte gli eretici. Nè fa d'uopo citare i frati predicatori o domenicani, che in grazia di un bisticcio etimologico non disdegnavano di chiamarsi cani del Signore, domini canes, e quali bracchi, fiutanti da lontano l'eresia, sono infatti effigiati in uno dei grandi affreschi del Cappellone degli Spagnuoli.
Ma non ostante questi contrasti, che certo a nessuno verrà in mente di revocare in dubbio, altri potrebbe scoprire qualche non lontana analogia tra il movimento ereticale e la riforma degli ordini monastici, principalmente in quel torno di tempo, di che io debbo intrattenervi, vale a dire nel corso dei secoli decimosecondo e decimoterzo. In primo luogo gli ordini monastici non dissimulavano la loro posizione al clero secolare, il quale nella confusione ognor crescente del principato civile con la dignità ecclesiastica, sempreppiù si allontanava dai precetti del Vangelo; e non solo il papa aveva un dominio temporale, ma molti vescovi, specie in Germania, erano anche principi dell'impero; e non di rado quella mano che doveva levarsi a benedire collo stesso segno di croce amici ed inimici, brandiva la spada contro gli stessi fedeli. Di siffatto tralignamento mondano e del fasto e della corruzione del clero si facevano denunziatori e giudici principalmente i fondatori di nuovi ordini religiosi che predicavano doversi le anime schive e disdegnose ritrarre nel silenzio dei chiostri, per praticare quelle virtù evangeliche, che nel fragore delle armi e nel lusso di una vita mondana e vescovi e prelati avevano smarrite. L'ostilità tra il clero secolare e i nuovi ordini religiosi, principalmente al sorgere dei frati mendicanti, crebbe a tal segno che un eminente professore dell'Università parigina, Guglielmo di Sant'Amore, pubblicò contro di loro un'amara invettiva, intitolata: «Dei pericoli dei tempi novissimi», dove rimbeccando i novatori, sosteneva il vero flagello della Chiesa essere appunto quei sodalizi frateschi, che scemando il prestigio delle antiche istituzioni, tornavano come minaccia ed offesa permanente alle più alte autorità ecclesiastiche. Il papa Alessandro IV impose silenzio all'audace polemista, e solennemente condannò il libro pericoloso, ma la lotta non ismise per questo, e più tardi fu rinnovata con ben altro successo.
Ma oltre a questo carattere polemico, un altro tratto è da rilevare nelle riforme degli ordini religiosi, che con rapida vicenda si succedevano tra il secolo decimosecondo e il decimoterzo; ed è il rigoroso ascetismo. L'ordine principale della Cristianità, fondato nel secolo VI da San Benedetto, non avea portato quei frutti che il pio fondatore ne sperava. Certo a nessuno può cadere in mente di negare i meriti dell'ordine benedettino, che in tempi di buia ignoranza seppe conservare la tradizione della coltura, e glorificò il lavoro manuale quando da tutti era tenuto a vile, e più volte difese i vinti dalle prepotenze dei barbari vincitori; ma non si può d'altra parte contrastare che avendo quell'ordine accumulate enormi ricchezze, deviò siffattamente dalla semplicità ed operosità primitiva che non mancavano nell'ordine stesso voci di severe rampogne, e molti tentativi di riforma si alternarono a brevi intervalli.
Tralascio le riforme di San Romualdo che nel 1012 fondò l'ordine dei Camaldolesi, e quella di San Brunone che nel 1085 fondò l'ordine dei Certosini, perchè l'uno e l'altro, pur conservando la regola di San Benedetto, fecero ritorno alla disciplina più austera degli antichi eremiti della Tebaide. Ma anche quelli che più strettamente si tennero all'istituzione benedettina, come Guglielmo di Aquitania che fondò la celebre abbazia di Clugny nel 909, e più tardi San Bernardo che nel 1115 aperse quella ancor più celebre di Chiaravalle, intendevan tutti di richiamare i loro confratelli ad una più rigida osservanza della Regola.
Nè diverso fu il pensiero del calabrese abate Gioacchino, che ancor più severa riforma aveva inaugurata nelle alpestri solitudini di San Giovanni in Fiore, e maggiori e più copiosi frutti se ne imprometteva, perchè nell'ardente fantasia vedeva prossima una terza età del mondo, in cui non solo l'ordine benedettino, ma la cristianità tutta andrebbe radicalmente riformata.
Di queste teorie gioachinitiche discorreremo a suo tempo. Per ora tornando al nostro proposito, dico che i due caratteri del movimento riformatore dei cenobii, l'opposizione contro il clero non pure secolare ma regolare e il rigido ascetismo, sono altresì le molle più potenti dell'eresia medioevale. Perchè non s'ha da credere che l'eresia medioevale nella maggior parte delle sue forme si opponga alla Chiesa stabilita per vendicare, poniamo, o la libertà della coscienza o l'autonomia dello Stato, o per ridare alla natura ed alla vita quei diritti, che l'ascetismo le aveva tolti. Tutto al contrario l'eresia medioevale è più ascetica dello stesso Cattolicismo. E per questo lo combatte e l'assale da più parti, perchè non lo crede abbastanza agguerrito contro i tre nemici dell'anima, il mondo, il demonio e la carne. Questa comunanza d'intendimenti tra i riformatori e gli eretici, per quanto parziale e momentanea, rende ragione del fatto stranissimo che alcune eresie prendano le mosse da movimenti al principio non ereticali, anzi protetti e incoraggiati dalla Chiesa. Così i Patarini, che negli editti di Federico II sono accomunati colla peggior genìa di eretici, nel secolo XI non erano altro se non il clero minore milanese, che sotto l'inspirazione dei papi insorgeva contro gli abusi e le rilassatezze del clero maggiore. Anche oggi si chiama a Milano dai Patari una contrada, dove abbondano i patari, o rivenduglioli di roba usata. L'italiano rigattiere non esprime tutto il disprezzo che si collega col patari o patee. E appunto patari o patarini furono denominati i membri del basso clero che ardivano di muover guerra all'alto, nome che sulla bocca degli uni poteva suonare scherno o dileggio, ma sulla bocca degli altri era titolo di gloria o per lo meno di cristiana umiltà. Certo è che il basso clero accusava l'alto di due vizii capitali: il concubinato e la simonia. Intorno alla prima di queste due accuse bisogna però bene intendersi, perchè non è da credere che tutto l'alto clero milanese conducesse vita dissoluta. Per lo contrario molti sacerdoti credevano di aver menato moglie legittimamente, e di non essere divenuti per questo peggiori degli altri. Perchè il celibato dei preti non è un articolo di fede, ma una misura disciplinare, dalla quale la Chiesa stessa talvolta si allontana, come anche oggi rispetto ai sacerdoti di rito greco. E a qualunque tempo, più meno antico, questa misura rimonti, certo è che la Chiesa milanese per lunga consuetudine se n'era dipartita, e si contava in Lombardia sì gran numero di preti ammogliati, che lo stesso Leone IX riconosceva non esser lecito mettere sul lastrico tante povere donne, non di altro colpevoli se non di aver seguito un uso inveterato del loro paese. Ed anche sull'altro capo d'accusa bisognava osservare, che la simonia (così chiamata da quel Simone Mago, che voleva comprare a contanti la dignità apostolica) era un male non della Chiesa milanese soltanto ma di tutta la Cristianità. I beneficii ecclesiastici davano così larghi profitti, che quanti avevano il diritto di conferirli, volendo prendervi qualche parte, li solevano dare al migliore offerente; nè dopo secoli di lotta si riuscì a sradicare il male. Ma se la Chiesa milanese poteva addurre in suo favore vecchie consuetudini ed esempi di tutti i paesi, non aveano torto i papi a imporre al clero quello che credevano più utile nell'interesse della cristianità. E potevan ben pretendere che la milizia di Cristo non da altre cure fosse distratta, nè altre famiglie riconoscesse fuor del consorzio dei fedeli a lei affidato, e che i beneficii ecclesiastici fossero dati al più degno non al migliore offerente. Al che aggiungete la Chiesa romana mal soffrire che l'arcivescovo di Milano, divenuto come a dire principe della città, aspirasse ad un'autonomia non conciliabile con la rigida gerarchia del cattolicesimo, e non vi parrà strano che sia scoppiata terribile la lotta tra il clero minore, obbediente ai cenni di Roma, e il clero maggiore forte delle sue clientele e degli antichi diritti.
Molte vittime caddero dalle due parti e tra gli altri i capi stessi dei patarini Arialdo ed Erlembardo, che ben presto furono levati sugli altari. Ma cessato il moto patarinico, e fiaccata la potenza degli arcivescovi milanesi, non cessarono per questo gli scandali, e almeno per la simonia le cose continuarono come prima, che per isvellere il male dalla radice bisognava togliere al clero i lauti beneficii, e la potestà secolare con quelli congiunta, a cominciare dalle somme cime sino agli ultimi gradini della gerarchia. Quest'audace riforma fu proclamata altamente da Arnaldo da Brescia e dagli Arnaldisti, i veri continuatori del movimento patarinico. Ma ormai le sorti erano mutate, i nuovi Patarini non obbedivano ai cenni di Roma come gli antichi, e furon dichiarati eretici, e il loro capo, non che levato sugli altari, fu gettato nel Tevere. Nè io negherò che in qualche punto dommatico gli Arnaldisti non si allontanassero dalla fede, come nel sostenere che la dignità sacerdotale immediatamente si perda quando chi l'eserciti ne sia indegno, e che i sacramenti somministrati da un prete concubinario o simoniaco non abbiano valore; ma anche su questo punto i Patarini antichi non pensavano diversamente dai nuovi, e certo è che gli uni e gli altri volevano informata la vita del clero a più rigoroso ascetismo.
Quello che i Patarini chiedevano al clero, altri eretici, o i cosìdetti Catari, lo volevano esteso a tutti i fedeli. Ben per tempo il nome di Patarini si scambiò con quello di Catari o Catarini come si diceva presso di noi. Ma originariamente ed etimologicamente i due nomi erano e sono distinti. I Catari sono una setta venutaci dalla Bulgaria (e però furono detti anche bulgari o bougres), di cui si sentì per la prima volta parlare nell'alta Italia quando non erano ancora cominciate le agitazioni patariniche, e si dicevano Catari dal greco καθαρὸς (puro) che da noi divenne catàro o anche cazàro e in Germania si trasformò in Ketzer, usato d'allora in poi a significare eretico per antonomasia. I Catari si chiamavano così in quanto si vantavano di non esser lordi delle colpe che osavan rimproverare alla Chiesa cattolica. Ammettevano anch'essi essere tre i nemici dell'uomo, il mondo, la carne e il demonio, ma i due primi credevano fossero creati dall'ultimo. Imperocchè seguendo l'antica dottrina manichea, ponevano due spiriti eterni e lottanti fra di loro, lo spirito del bene, o Dio buono, e lo spirito del male, o Demonio. Ciascuno dei due Dii avrebbe creato a modo suo, il Dio buono le anime nella loro purità nativa a lui rassomiglianti, il Dio malvagio invece i corpi e tutte le cose visibili. Insegnavano inoltre, seguendo le antiche tradizioni pitagoriche, che un bel giorno le creature del buon Dio deviarono dal dritto sentiero e precipitando dal cielo vestirono la carne, dando così principio a quell'iliade di mali che non avrà mai fine, finchè non sarà dato loro di ritornare al Cielo onde partirono. E concludevano: l'unico mezzo di conseguire sì eccelso fine essere questo, sequestrarsi dal mondo, opera del malvagio Dio, e mortificare la carne fonte di ogni corruzione. Nè soltanto ai preti ma benanco a tutti i fedeli interdicevano il matrimonio, perchè mettere al mondo nuovi figliuoli è come costringere le anime a rientrare un'altra volta nella prigione della carne. Se tale strana religione avesse potuto attecchire, la conseguenza sarebbe stata questa, che il primo giorno del suo trionfo sarebbe stato l'ultimo della umanità, perchè la generazione, che accettando in buona fede il catarismo, ne avesse seguite scrupolosamente le massime, non avrebbe avuto discendenti, e si sarebbe verificato così quel suicidio cosmico, che qualche filosofo contemporaneo ha osato di spacciare come una grande novità. Pur troppo in fatto di stranezze e di pazzie si può dire con l'Ecclesiaste: nulla di nuovo sotto il sole.
Il Catarismo è certamente agli antipodi del Cristianesimo, perchè l'uno è rigorosamente dualista, l'altro monoteista; l'uno proscrive il matrimonio, l'altro lo proclama un sacramento: l'uno infine crede di compiere ed inverare l'Ebraismo, l'altro condanna il vecchio Testamento, e crede il Dio terribile e vendicativo degli Ebrei non essere se non il Dio malvagio degli antichi Parsi. Ed è molto strano come in pieno Medio Evo, quando la fede era più viva, e la Chiesa aveva riportato o stava per riportare, le più splendide vittorie sugli avversarii suoi, è strano, ripeto, come una credenza così anticristiana, e che per giunta fa violenza alla natura umana, abbia potuto trovare tanti proseliti. Eppure è così. Il Catarismo si diffuse in tutta l'Europa, e l'Italia nostra, tenuta da noi stessi per il paese meno adatto alle innovazioni religiose, ne era per così dire il centro. Tutte le classi partecipavano alla nuova fede, e le donne non meno degli uomini. Di qui, da Firenze, partì una donna coraggiosa ed intrepida alla volta di Orvieto, ove una calda parola trasse molti alla nuova fede. E cosa più strana ancora, un altro paese che rivaleggiava coll'Italia per il favore dato al Catarismo, fu appunto quella Provenza, dove fioriva il culto della nuova lingua e della nuova poesia, e dove tutti i trovatori cantavano e sfinivano di amore anche quando non ne sentivan punto. In mezzo a tanto sorriso di cielo e a cosiffatta gaiezza di vita pur trovò modo di prosperare la più tetra ed ascetica delle religioni, la quale si diffuse così largamente nelle diocesi di Tolosa, di Carcassona e di Albi, che il nome stesso di albigese divenne a così dire sinonimo di cataro. E fu duopo di lunga e sanguinosa crociata, e di una inquisizione ancor più terribile della guerra stessa, per ispiantare l'eresia da quel paese dove aveva messe sì profonde radici. Le ragioni di questo fatto meraviglioso sono molte, ma non temiate che io abusi della pazienza vostra per isvolgerle tutte. La principale è questa, che i Catari non ostante le opposizioni si credevano cristiani, più cristiani ancora, dei cattolici. E sapevano a mente il nuovo Testamento, e lo traducevano in volgare perchè tutti l'intendessero. Ed ogni loro opinione avvaloravano con citazioni bibliche per ridurre al silenzio gli avversari loro. Essi credevano anzi di interpretare nel vero spirito i precetti evangelici. Così nell'Evangelo è detto essere più agevole che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio, ed essi esagerando e frantendendo aggiungevano: nessuna eccezione potersi dare, e poniamo anche che il ricco adoperi buona parte delle sue sostanze a benefizio degli altri, non tornerà per questo nel grembo di Dio buono, perchè la povertà assoluta è di rigore, e possedere e amare le ricchezze torna lo stesso come attribuire un pregio alle cose di questo mondo, che quale opera del malvagio Dio non ne hanno alcuno. E se nell'Evangelo è scritto: voi avete udito che fu detto agli antichi: non uccidere, ma io vi dico che chiunque s'adira contro a suo fratello senza ragione, sarà sottoposto a giudizio, essi aggiungevano: non potersi uccidere in nessun modo, nè in guerra, nè in nome della legge, e la Chiesa che bandisce crociate e condanna al rogo i suoi nemici, non seguire i precetti di Cristo, che dice: Amate i vostri nemici, benedite coloro che vi benedicono, fate bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi fanno torto e vi perseguitano. Inoltre questi astuti eretici non tutte le loro dottrine svelavano a tutti, ma solo quelle che più facilmente s'accoglievano, e che servivano a staccarli dalla Chiesa, il resto poi veniva da sè. Nè a tutti i seguaci della lor fede chiedevano gli stessi sacrifizii, ma sapevano ben distinguere tra perfetti e credenti, i quali ultimi potevano ben dirsi Catari senza rinunziare alla loro famiglia o alla loro proprietà. Con tali espedienti la fede catara appariva meno ostica, e guadagnava ogni giorno seguaci, massime per le virtù eroiche e gli atti di coraggio degli intrepidi perfetti, che perseguitati da tutte le parti non cedevano, e piuttosto che smentire la loro fede, salivano animosamente il rogo. Una condotta austera, una vita di stenti e di abnegazioni continue è il miglior mezzo per guadagnare le anime. Si racconta il caso di una fanciulla caduta in sospetto d'eresia, a cui fu ingiunto di assistere al supplizio dei correligionari suoi. Quando il capo di essi, Arnaldo di nome, entrando nelle fiamme, aperse le braccia per benedire i suoi fratelli, la fanciulla svincolatasi dagli sgherri che le stavano ai fianchi, si lanciò nel rogo, sagrificando alla nuova fede la sua bella e fiorente giovinezza.
Non meno disposti a dare la vita alla fede loro si mostravano altri eretici, che hanno ben poco di comune coi Catari, i Valdesi, così chiamati da Pietro Valdo, un mercante di Lione che seguendo il precetto di Cristo, se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai e donalo ai poveri, distribuì le male accumulate ricchezze tra i suoi concittadini, e vestito un povero saio andò accattando di porta in porta, e predicando dappertutto la parola del Signore. Questo movimento al principio non era anticattolico, tanto che ad uno dei seguaci di Pietro Valdo, a Durando di Huesca, fu agevole di staccarsi dal novatore e farsi riconoscere e benedire da papa Innocenzo III come capo di un nuovo sodalizio cattolico. Nè alcuna parte del domma o della liturgia cattolica il Valdo voleva attaccare, ma solo tornare la Chiesa alla sua purità primitiva. Senonchè per questo capo i Valdesi non usavan diverso linguaggio dei Catari e Arnaldisti. Da quel giorno, essi dicevano, che Silvestro ebbe l'infausta donazione di Costantino (spuria donazione a cui allora tutti prestavan fede), da quel giorno l'avidità di ricchezze non fu mai satolla, nè mai si estinse la sete di dominio, e la Chiesa vestita di porpora, e incoronata di gemme prese le sembianze della gran peccatrice dell'Apocalisse (17.1). Queste roventi parole uscivano talvolta anche da labbra ortodosse, e i Ghibellini tutti solevano adoperarle da Pier delle Vigne al nostro Dante di cui è nota la terzina:
Ahi Costantin di quanto mal fu matre
e l'altra ancor più vibrata:
Di voi, Pastor, s'accorse il Vangelista.
Ma i Ghibellini, più che una setta ereticale, formavano un partito politico, perchè il non credere alla necessità del potere temporale, non era allora e non è oggi un'eresia, e perfino nelle lotte più ardenti tra la Chiesa e l'Impero i Papi non osarono mai di sollevare all'altezza di un domma religioso una questione sostanzialmente politica.
I Valdesi però eran più radicali dei Ghibellini, e benchè si dicessero e credessero nel cuor loro sinceri cattolici, pure interpretavano la parola evangelica in senso molto più rigido ed unilaterale che non fosse consentito dalla tradizione cattolica, e si attribuivano il diritto di predicarla senza averne ricevuto alcun mandato dalle autorità ecclesiastiche. Ben per tempo quindi furono ripresi dal vescovo di Lione e dal papa Alessandro III, e più tardi Lucio III li scomunicò, nè Innocenzo III revocò il decreto del suo predecessore. Espulsi così dalla Chiesa, i Valdesi non potevano continuare se non a patto di scegliere nel proprio seno chi facesse le veci dei sacerdoti cattolici. E così semprepiù allontanandosi dall'ortodossia, proclamavano aver la facoltà di spezzare il pane eucaristico chiunque di loro sia di cuor puro, e in luogo della confessione auricolare valer meglio una confessione in pubblico a tutta la comunità dei fedeli; non essere necessario un luogo speciale per rivolgere la sua preghiera al Cielo; e infine anticipando la riforma, negavano potersi il sacrifizio eucaristico applicare ai defunti, e toglievano di mezzo il purgatorio. Per tal guisa l'eresia valdese tornava non meno pericolosa della catara, e si diffondeva da per tutto con maggiore facilità.
Contro tutte queste eresie, la catara, l'arnaldistica, la valdese, non valevano più nè le vecchie armi delle scomuniche e degli interdetti, nè le nuove ancor più terribili della tortura, del rogo. Più si perseguitavano gli eretici, e più si ringagliardiva la loro fede, e molti andavano incontro alla morte lieti e cantando degli inni, come nei primi tempi delle persecuzioni cristiane. Per vincere o almeno svigorire la propaganda di questi intrepidi e convinti novatori, bisognava opporle un'altra propaganda non meno operosa ed efficace. Non era più il caso di chiudersi nel silenzio degli eremi o nella quiete dei conventi. Per combattere le dottrine degli eretici bisognava imitarne le pratiche e le virtù ed accettare la povertà evangelica da loro inculcata, e ramingare come loro, accattando dovunque la vita e dovunque predicando la parola del Vangelo. Così nacquero gli ordini mendicanti. Il primo a bandire come suprema regola la povertà assoluta fu San Francesco di Assisi, il fondatore di un nuovo sodalizio di frati, che per umiltà si dissero minori, ma ben presto per i servigi resi alla Chiesa apparvero maggiori fra tutti. E certo il prestigio di questi nuovi apostoli della povertà fu tale, che anche altri ordini religiosi ebbero ad adottarne le massime. E si dichiararono mendicanti i seguaci di San Domenico o frati predicatori, che da principio avevano abbracciata la regola agostiniana; mendicanti i diversi ordini, che da Alessandro IV furono riuniti in un solo sotto il nome di Eremiti di Sant'Agostino; mendicanti infine i Carmelitani, il cui ordine fondato nel 1156 dal crociato Bertoldo, nel 1245 trasformò i suoi romitaggi in cenobii. Nella vita povera ed umile parve in quei giorni consistere la perfezione evangelica, e si faceva a gara a chi potesse condurla con maggior rigore.
Ma non diversamente da tutti gli altri ideali anche quello della povertà assoluta doveva rompere contro non pochi ostacoli. E l'ordine religioso, che più tenacemente degli altri gli restò fido, ebbe a patire i più crudeli disinganni, e ne andò travolto in dissensi e lotte funeste, le quali composte per poco dall'autorevole voce di San Francesco, non tardarono a divampare alla di lui morte, e più ancora al tempo del generalato di frate Elia. Questi, già stato vicario di San Francesco nel governo dell'ordine, volle erigere in onore di lui un tempio che per mole e splendore vincesse tutti. E radunate le offerte, che piovevano in gran copia da ogni parte della Cristianità, dette così vigoroso impulso ai lavori, che in breve tempo sorse quella mole grandiosa, detta a ragione il tempio dell'arte rinata. Ivi infatti l'architettura seppe trarre dallo stile gotico nuovi e meravigliosi effetti; ivi Cimabue dipinse quegli affreschi, che segnarono il principio della riscossa contro le tradizioni bizantine e gli detter fama di tener lo campo nella pittura; ivi Giotto tentò più arditi voli, sì che la fama di colui oscura. Ma le meraviglie dell'arte nuova non sedussero gli entusiasti della povertà, che se avessero potuto avrebbero colle loro stesse mani distrutto quell'insigne monumento, dove tante ricchezze di marmi o d'oro eran profuse. E fieramente rimproveravano a frate Elia di essersi allontanato dalla regola di San Francesco, che vieta rigorosamente il lusso così nella cella dei frati come nella casa del Signore; e di avere accettato lasciti e doni, vietati ai seguaci del santo mendico, e allentati i freni della disciplina, permettendo ai frati di non vestire il saio di tela di sacco, sdruscito e rattoppato, e di aver gettato via il bastone del pedestre pellegrino, per cavalcare su ben pasciute e ben bardate giumente. Così si formarono nel sodalizio francescano due partiti, l'uno degl'intransigenti, l'altro dei moderati; l'uno che volea rispettata la regola nella sua rigidità, l'altro che permetteva temperamenti secondo i bisogni e le convenienze dell'ordine. La lotta fra i due partiti fu lungamente e fieramente combattuta. Il moderato rimproverava all'intransigente di mirare alla rovina dell'ordine, il quale se avesse acconsentito a seguitare la vita oscura dei primi tempi, sarebbe stato ben presto sopraffatto dagli ordini rivali, non guardanti così per la sottile. E il partito intransigente di rimando ritorceva il rimprovero contro i suoi avversarii, accusandoli di togliere all'ordine il suo carattere proprio, e quell'aureola di santità, di povertà e di umiltà, principale cagione delle sue fortune. I moderati che alla salute dell'ordine del convento principalmente intendevano, presero il nome di Conventuali, gl'intransigenti, quando le dottrine dell'abate Gioacchino furon da loro conosciute ed adottate, presero altro nome. Perchè secondo le divinazioni a cui accennammo del profeta calabrese il mondo deve passare per tre età, la prima fu il regno del Padre, la seconda è quella del Figlio, la terza sarà dello Spirito Santo. Nella prima dominava l'antica legge, legge del terrore e dell'odio tra i popoli di cui un solo era l'eletto e gli altri consacrati all'ira di Jeova; nella seconda domina la nuova legge di carità e di fratellanza, ma più a parole che a fatti; nella terza infine la nuova legge riporterà il suo pieno trionfo e sarà intesa non secondo la lettera ma nel vero suo spirito. Gli uomini, che pur vivendo nella seconda età anticipano nei loro costumi e coi loro voti la futura, debbono a ragione dirsi spirituali. E spirituali si chiamarono gl'intransigenti francescani.
Non occorre dire che questi intransigenti si misero con molto amore a studiare e commentare le opere principali di Gioacchino. E uno di loro, fra Gherardo di San Donnino, non senza la collaborazione di un generale stesso dell'ordine, fra Giovanni da Parma, le ripubblicò a nuovo con introduzione e commenti addimandandole con nome non ignoto a Gioacchino, l'Evangelo eterno, vale a dire l'Evangelo inteso nel suo vero spirito, e che non perirà come quello letterale dell'età seconda. Questi nuovi intransigenti, che mescolavano le dottrine della povertà assoluta con le mistiche dell'abate Gioacchino, miravano come si vede ben più alto degli antichi. Perchè Gioacchino avea profetato essere per cessare nella terza età tutte le distinzioni tra clero e laicato, e tutti i figli d'Adamo dover comporre una società sola informata alla più austera castità e alla povertà più rigorosa. Dalle quali profezie gl'intransigenti minoriti non tardarono a inferire che fra non molto la regola loro, distendendosi ed imperando su tutti, avrebbe trasformato la cristianità intera in un vasto cenobio francescano. Fortuna per noi che il profeta calabrese e i suoi seguaci non ebbero la vista lunga, e che il loro sogno non s'avverasse nè nel 1260, l'anno fatale indicato da Gioacchino, nè per i secoli che gli successero; e non è probabile per fermo che sia mai per avverarsi.
Ammesse queste idee apocalittiche, non parrà strano che dal labbro dei minoriti uscissero contro il clero le stesse rampogne che correvano di bocca in bocca fra gli eretici del tempo. E la Chiesa se ne insospettì, nè solo condannò l'Evangelo eterno, ma fece rinchiudere il suo autore in una perpetua prigione, e il generale frate Giovanni, deposto dal suo ufficio, fece relegare come in esilio in un lontano ed ignorato monastero. Ma non per questo furono soppresse le idee spiritualistiche, le quali ebbero nuovi e arditi difensori in frate Pier di Giovanni Olivi per la Provenza, e per l'Italia in frate Ubertino da Casale, quello stesso ricordato da Dante, là ove dice il vero religioso francescano non essere
… nè da Casal nè d'Acquasparta
Là onde vengono tali alla scrittura
Che l'uno la fugge, l'altro la coarta.
Dante librandosi sui due partiti opposti, lo spirituale rappresentato da Ubertino, e il moderato dal generale Matteo d'Acquasparta (più tardi cardinale e legato del papa a Firenze) li condanna entrambi. E giustamente mette le surriferite parole in bocca a Bonaventura, perchè questo santo francescano, successo nel generalato a fra Giovanni da Parma, fu capo d'un terzo partito, che accettava in parte le dottrine sulla povertà assoluta, ma respingeva affatto le idee Gioacchinitiche e le conseguenze che ne derivavano. A questo partito si accostarono in Italia alcuni degl'intransigenti medesimi, i quali, sebbene anch'eglino avessero fede nelle profezie di Gioacchino, le mettevano in seconda linea, e quello su cui fortemente insistevano era soltanto la stretta osservanza della regola. E non che pretendere che tutto il mondo abbracciasse l'assoluta povertà, confessavano invece che una gran parte dei minoriti stessi non si sarebbe mai piegata ad adottarle. Domandavan quindi d'essere riconosciuti come una corporazione a parte, e sottratti al dominio dei conventuali. Così la pensavano alcuni frati di Toscana capitanati da frate Enrico di Ceva, ed altri di Romagna guidati da fra Liberato e frate Clareno. E par che tutti fossero conosciuti sotto il nome di fraticelli, in quanto per umiltà e nello spirito della regola francescana si credevano ancor minori dei minori, e portavano degli abiti corti o di rozzo panno, e vivevano una vita austera di stenti e di sacrifizii.