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Kitabı oku: «Gli albori della vita Italiana», sayfa 15

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In seguito alla quale scissura l'ordine francescano andò diviso non più in due ma in tre parti: i moderati o Conventuali, i seguaci dell'Olivi o Spirituali, e i seguaci di frate Enrico e di fra Liberato o fraticelli. Il destino di questi partiti fu diverso. Quando dopo alternative di trionfo e di disfatte gl'intransigenti furono percossi fieramente da papa Giovanni XXII, che ordinò di sottoporli all'Inquisizione e di punire i ricalcitranti col rogo, la maggior parte dei frati si disdisse. Non in tutti era la stoffa eroica dei quattro di Marsiglia, arsi vivi nel 1317 per non aver voluto sconfessare le loro dottrine, e a poco a poco le credenze spiritualistiche cessarono nel primo ordine francescano, ma si conservarono intere nel terzo, i cui membri vivendo nel seno delle proprie famiglie erano meno esposti ai sospetti ed alle minacce.

I terziari in Francia si chiamavano anche beghini e in Italia bizochi o pinzocheri, e d'allora in poi gli spirituali si tramutarono in beghini, nè altro nome di lì innanzi fu loro dato, nè altro si trova nei processi inquisitori che furono aperti contro di loro. È strana la storia delle parole beghino, pinzochero e bigotto, e vale la pena per il proposito nostro di toccarla almeno di volo. Al principio si dicevano beghine le donne raccolte nei ricoveri fondati al tempo delle Crociate da Ugo Le Bégue. Non prestavano voti solenni, e ciascuna abitava la propria casetta di una o due camere, nè si riunivano se non in determinate ore per le preci da recitare in comune. Anche oggi esistono simili case nel Belgio, disposte in bell'ordine intorno a un oratorio centrale, e si dicono anche oggi beguinages. Nel secolo XIII dopo la creazione degli ordini mendicanti, quando si pensò a restringere il numero delle corporazioni religiose cresciuto a dismisura, le beghine e i beghini surti sul loro esempio si ascrissero all'ordine terziario o di San Francesco o di San Domenico. E poichè il numero degli ascritti al francescano era maggiore, beghino divenne presso a poco sinonimo di terziario francescano, come in Italia e in Toscana le parole di oscurissima etimologia bizochi e pinzocheri. Più tardi si diffusero presso i beghini e i bizochi le idee poco ortodosse degli spirituali minoriti nel mezzogiorno della Francia e in Italia, e degli Almariciani o fratelli del libero spirito nel Belgio e nella vicina Germania, e allora beghina e bizoco o pinzochero divenne presso a poco sinonimo di eretico, come appare dalle bolle di scomunica di Bonifacio VIII, di Clemente V e di Giovanni XXII. E la stessa sorte toccò al nome begutten, o begotten trasformazione tedesca dello stesso vocabolo beghine. Oggi bigotta, beghina e pinzochera non vuol dire più la terziaria o francescana o domenicana che sia, nè l'eretica spirituale o begarda, ma invece si adopera per indicare la donnicciuola più superstiziosa che religiosa, che vive più in chiesa che in casa, e snocciolando rosarii non è mai stanca di biascicar preci senza intenderle.

Più fortunosa ancora è la storia della parola fraticello. Al principio, come vedemmo, s'applicava per antonomasia a quella parte dei Francescani, che volean vivere conforme alla più rigida regola, ed erano tenuti in tale voce di santità, che due di loro, frati Liberato e il Clareno furono beatificati dalla Chiesa, e le loro idee sulla necessità della separazione delle due parti rivali dopo molte persecuzioni trionfarono alla fine nel 1368 per opera di Paolo dei Trinci, il vero fondatore dei frati dell'osservanza. In seguito fraticelli furono detti quegli eretici che al paro dei beghini credevano: il papa non potere nè dichiarare nè attenuar la regola, perchè, dicevano, la regola è intangibile come il Vangelo di Cristo, e fu rivelata a San Francesco dallo stesso Spirito Santo. Infine, quando Giovanni XXII per tagliare il male dalla radice, con bolla del 1323 dichiarò solennemente non essere la povertà nè la sola nè la vera virtù evangelica, furon detti fraticelli coloro che resistendo al papa sostenevano non essere a lui lecito di revocare le sentenze dei suoi predecessori, e cadere in iscomunica e non dovergli obbedire in nessun modo quando tanto osi. Questi fraticelli, non ostante le più attive persecuzioni, di cui avanza un noto ricordo nella descrizione del supplizio di fra Michele da Calci, perdurarono per molto tempo, ed a Firenze principalmente attecchirono così tenacemente che il Comune fu obbligato d'inserire nei suoi statuti uno speciale capitolo contro di loro. Tutto questo movimento vi mostra di nuovo a chiare note come sia breve il passo dal più rigido ascetismo all'eresia.

E la stessa conclusione s'ha da trarre ove s'attenda ad un'altra eresia medioevale, quella degli apostolici fondati da Gherardo Segalelli e continuata da fra Dolcino da Novara. Questi eretici pensavano la vita degli ordini mendicanti non essere conforme a quella degli apostoli, che non si riunivano in cenobi, nè formavano una vera comunità, ma ciascuno di essi senza pane e senza tetto andava per la sua via di città in città predicando l'Evangelo. Nè vestivano di nero ma di bianco, nè si radevano la barba ma la portavano lunga ed incolta, e nei loro pellegrinaggi non impedivano che le donne si accompagnassero con loro, anzi parecchi di essi menavan seco le mogli e i figliuoli. Per queste ragioni il Segalelli, e più ancora fra Dolcino, pur accettando le idee Gioacchinitiche, sostenevano non essersi inaugurata cogli ordini mendicanti un'êra nuova della storia, ma in essi invece dover finire l'antica, alla cui corruzione tutti, i minoriti non meno degli altri, prendevano larga parte. E non dubitavano di profetare che fra non molto s'inaugurerà una quarta età del mondo col trionfo dei nuovi apostoli, che il nemico dei papi, Federico d'Aragona, salendo sul soglio imperiale, dovea porre a capo di tutti i Cristiani. A differenza degli altri eretici contemporanei gli Apostolici sembra non inculcassero nè tenessero in gran pregio il celibato. E il loro stesso capo fra Dolcino, convertita in Trento un'educanda umiliata a nome Margherita, la fece sua sposa e l'ebbe sempre al suo fianco intrepida ed amorevole compagna. Non fa d'uopo dire che la setta degli Apostolici fu perseguitata non meno vigorosamente delle altri rivali. E quattro dei più riottosi e lo stesso capo, il Segalelli, furono bruciati vivi nel 1300, e frate Dolcino potè appena campare con tremila dei suoi negli aspri e invalicabili gioghi di Val Sesia, dove per parecchi anni tenne testa alla crociata che a nome di Clemente V il vescovo di Vercelli gli aveva bandita contro. Senonchè alla fine i Crociati non potendo sopraffare gli eretici col ferro, si decisero di prenderli per fame, facendo il vuoto intorno a loro e distruggendo per larga distesa i campi e i villaggi, dove avrebbero potuto rifornirsi di viveri. Così i giorni di resistenza erano contati, ed a ragione Dante con postuma profezia cantava:

 
Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi
 
 
Sì di vivanda che stretta di neve
Non rechi la vittoria al Novarese.
 

La vittoria infatti, dopo tanti rovesci non si fece lungamente aspettare ai Crociati, che dato l'ultimo assalto, molti degli eretici passarono a fil di spada, ed altri trassero prigioni, tra i quali lo stesso fra Dolcino e Margherita, che anche negli ultimi momenti non volle da lui separarsi. Ed entrambi senza proferire un grido patirono le più crudeli torture, ed ebbero le carni a brani a brani dilacerate da tenaglie roventi, e più morti che vivi furono dati alle fiamme.

Nello stesso anno 1260 in cui erano sorti gli Apostolici, e da tutti si aspettava trepidando la tremenda catastrofe profetata da Gioacchino, un altro moto ebbe principio, quello dei Flagellanti. Anche prima di quel tempo s'erano adoperate le fustigazioni sulla nuda carne dapprima soltanto come pena pubblica per certe specie di misfatti, e poscia come specie di espiazione o mortificazione volontaria. E fin dal 1233 si narra di gente che, uscendo dalle prediche di Sant'Antonio da Padova si percuoteva sulle pubbliche vie per penitenza dei proprii peccati. Numerose torme di devoti vestite di bianco andavano in processione da una città all'altra, flagellando le nude spalle, e cantando pie laudi non nel latino della Chiesa, ma negl'idiomi volgari. Dovunque capitavano, ogni negozio e pubblico e privato era sospeso, i partiti politici facevano tregua e promettevano di riconciliarsi in perpetuo, e di null'altro si davan cura e uomini e donne fuorchè del far penitenza in attesa delle terribili calamità che doveano precedere il rinnovarsi del mondo. Il pœnitentiam agite o volgarmente penitenzagite era stato anche il grido del Segalelli, e non tarderà molto che la Chiesa avrà in sospetto queste insolite e spasmodiche esplosioni del sentimento religioso, e se non i primi, certo i posteriori flagellanti furono accusati di eresia e sottoposti anch'essi all'Inquisizione.

Intorno allo stesso tempo infine si propagò un'altra setta ereticale, quella dei Guglielmiti che riguarda più da presso voi, mie longanimi uditrici, come l'unico esempio che s'abbia in quell'età di sovvertimento religioso iniziato dal sesso gentile. A capo di questa setta fu una donna di sangue regale a nome Guglielma, figlia della regina Costanza di Boemia e venuta in Milano per diffondere la sua dottrina. Ai suoi fedeli si annunziava come l'incarnazione dello Spirito Santo, sceso anche lui come il Figliolo sulla terra per fondare la nuova religione spirituale, che dovrà tenere dietro al Cristianesimo. La banditrice di queste dottrine, fornita di parola eloquente e di non comune coltura, seppe guadagnare alla sua causa parecchi seguaci, fra i quali alcuni preti e una Menfreda o Maifreda parente a quel che pare dei Visconti. Forse a cagione del nobile lignaggio e delle potenti amicizie e delle condizioni politiche del Milanese non fu molestata Guglielma finchè visse, e nel 1281 quando morì le furono resi solenni onoranze. Ma quando Maifreda pensò di succederle nell'apostolato, e non dubitò di celebrare la messa e di spezzare il pane eucaristico ai suoi fedeli, l'Inquisizione se ne mescolò. E non solo Maifreda e un suo compagno, Andrea Seranita, perirono sul rogo, ma furono bruciate e disperse al vento le ossa di Guglielma, che da più di diciotto anni riposavano in ricco mausoleo nell'abbazia di Chiaravalle.

Ed ora dopo che i nomi e le dottrine di tante sette ereticali abbiamo ricordate, ci sia lecito domandare qual valore ha tutto questo moto religioso nella storia dell'umanità? Che non fosse un moto superficiale lo prova il fatto della sua lunga durata e dei terribili espedienti a cui si dovè ricorrere per distruggerlo. Noi guardiamo il Medio Evo sotto una falsa luce quando lo presentiamo come l'êra della più rigida ed universale unità di fede che siasi data al mondo. Tutto al contrario quando la fede è viva, come fu nel Medio Evo, quando il problema religioso agita migliaia di anime, le soluzioni che se ne porgono, non sono nè possono essere uniformi. Anche nella religione come in tutte le opere dello spirito, più ancora che in quelle della natura, la lotta è una condizione di vita. Ed aspra e terribile fu la lotta che sostennero le diverse sette ereticali, e nessuna dette quartiere all'altra, e tutte produssero a dovizia e martiri ed eroi. Perchè dunque il movimento religioso del Medio Evo non perdurò? Perchè le sette ereticali l'una dopo l'altra, disparvero pressochè tutte in un oblio tanto più profondo, quanto più rigogliosa ed agitata fu la loro vita? La ragione principale a prescindere da parecchie altre che carità per voi mi vieta di esporre, sta in quello che dissi fin dal principio, che cioè la maggior parte delle sette ereticali del Medio Evo era informata ad uno spirito d'intolleranza ed esagerazione ascetica e qualunque di esse fosse stata vittoriosa, avrebbe mosso alla famiglia, allo Stato e alla coltura una guerra più rovinosa e implacabile che alla Chiesa stessa. Per dirla in una parola sola, l'eresia medioevale, procedendo a ritroso del progresso dello spirito umano, ragion voleva che nel rifiorire dell'umanesimo, non che prosperare, andasse ferita a morte. All'intristire delle sette ereticali del Medio Evo una sola eccezione si conosce, e ci è porta dalla Chiesa valdese, la quale però solo per questo seppe sfuggire al fato inesorabile della storia che, messi da parte i vecchi ideali di povertà e di astinenza, non dubitò di attingere nuovo spirito e indirizzo nuovo dalla nascente Riforma.

LE ORIGINI DELLA LINGUA ITALIANA

DI
PIO RAJNA

L'argomento che mi rassegno a trattare tocca signore e signorine più da vicino di quel che forse non credano. No davvero – guai a me se neppur ci pensassi! – per via dell'opinione, tutta mascolina, che attribuisce alla donna una predilezione particolare per l'esercizio di quel prezioso strumento che è la lingua. I motivi miei sono di natura ben differenti. Mi s'affaccia quel luogo della Vita Nuova (§ XXV), dove Dante afferma che «lo primo che si mosse a dire siccome potea volgare si mosse perchè volle fare intendere le sue parole a donna» – alla donna del suo cuore – «alla quale era malagevole ad intendere le parole latine.» Che se qui s'ha a fare con un'idea personale, dove la critica inesorabile anche coi grandi e coi massimi, trova che al vero è frammisto l'errore, Dante non immagina nè argomenta – ripete ed osserva – quando per bocca di Guido Guinizelli designa coll'epiteto di «materno» il nostro linguaggio, insieme con uno de' suoi stretti parenti d'oltralpe:

 
O frate, disse, questo ch'io ti scerno
Col dito (e additò uno spirto innanzi)
Fu miglior fabbro del parlar materno.
 
(Purg., XXVI, 115.)

«Parlar materno»: quello che il bambino impara dalle labbra di chi, dopo avergli dato la vita, «vegghia », per dirla ancor con Dante, «a studio della culla» sua, ne regge i primi passi, ne desta con pazienza instancabile le facoltà intellettive. Così la nuova favella ci viene innanzi doppiamente illuminata dal sole dell'amore: dell'amore nella più intensa e nella più santa delle sue manifestazioni.

Dichiaratamente nelle parole della Vita Nuova, tacitamente eppure in modo altrettanto sicuro in quell'epiteto di «materno», che suppone di necessità qualcosa che materno non sia, di fronte al volgare sta la lingua latina. Se ne sta maestosa, superba di una nobiltà due volte millenaria, che nell'ordine suo non ha assolutamente l'uguale. La sua storia è la storia stessa di Roma. Al pari di Roma e insieme con lei il latino prese le mosse da principii umili ed oscuri, e a poco a poco arrivò ad una grandezza da sbalordire. Non era già nemmeno all'origine il linguaggio di Roma soltanto. Prima ancora che presso alle rive del Tevere sorgessero sul Palatino i tugurii destinati a diventare un giorno i palazzi dorati degl'imperatori, la favella che qui aveva a rimbombare sonava in altre parti del Lazio, più salubri e più fertili. E il Lazio continuò sempre a parlar latino, e il latino non cessò mai di chiamarsi così, vale a dire per l'appunto «lingua del Lazio». Ma cosa importa mai ciò? Solo in quanto era la lingua di Roma, il latino si venne estendendo fuori del suo proprio territorio. La conquistatrice del mondo fu Roma, non il Lazio, che al pari del resto dovett'essere domato e conquistato ancor esso. E il latino che si propagò, fu il latino quale s'era venuto foggiando e modificando dentro nella città, la quale, alla stessa maniera come nel rimanente, dettò la legge anche per ciò che riguarda il linguaggio. Però il parlare elegante fu detto «sermo urbanus», parlar cittadino, intendendo per «urbs» la città per eccellenza: Roma, e nient'altro che Roma.

È una storia meravigliosa quella della conquista romana: compiuta passo passo attraverso a fiere dissensioni interne ed a rivolgimenti non pochi, con una tenacia ed una coerenza rare a trovarsi negli individui, e che qui viene ad aversi in un popolo, per una serie interminabile di generazioni. Ma non è troppo meno meravigliosa neppure la storia della propagazione del latino. La conquista linguistica tien dietro alla politica: la rafferma, e le mette il suggello. E le due conquiste hanno un'intima analogia. Politicamente, la conquista viene ad essere come un immenso dilatarsi della città, e l'effetto suo finale si riassume nella qualità di cittadino romano conferita alle genti che s'erano via via soggiogate, soffocando a poco a poco il sentimento, così vivo un tempo, delle molteplici nazionalità. Urbem fecisti qui prius orbis erat, – tu facesti città ciò che prima era il mondo, – dice al principio del quinto secolo un Gallo, Rutilio Namuziano (1, 66), con un gioco di parole che racchiude un concetto sublime. E nell'ordine linguistico, abbiamo il linguaggio di questa nostra medesima città che si va facendo comune a una immensa estensione di terre, e che colla sua voce tonante prima impedisce che s'odano, e poi riduce ad ammutire una moltitudine infinita di parlate, e non già unicamente di parlate rozze ed incolte. Solo il greco, grazie alla portentosa civiltà di cui era stato ed era tuttavia strumento ed espressione, potè mantenersi prospero, pur dovendo rassegnarsi ancor esso a vedersi mozzati quei rami che sporgevano ben rigogliosi sul suolo occidentale.

Questa meravigliosa unificazione della favella fu possibile appunto per via della trasformazione che il sentimento della nazionalità venne a subire dovunque, se non in tutti; le genti più disparate si condussero a parlare a somiglianza dei Romani, non solo perchè ciò riusciva praticamente utile sotto molti rispetti, ma anche per il motivo che il chiamarsi Romano – Romano, si badi bene, non Latino, nè altra cosa – era per ciascuno argomento d'orgoglio. Dentro ad ogni animo s'avevano, più o meno in confuso, sentimenti analoghi a quelli coi quali ineggia a Roma Claudiano, un nativo della greca Alessandria; a Roma «della quale», egli dice (De cons. Stil., III, 131), «nulla in terra di più eccelso ricopre il cielo;… madre dell'armi, madre delle leggi, che stende su tutti il suo impero, prima culla al diritto. Quest'è colei che nata in angusti confini, mosse all'uno e all'altro polo, e allargò le mani quanto è il corso del sole;… quest'è colei che sola accolse nel suo grembo i vinti, e carezzò il genere umano con un unico nome, madre, non signora; e chiamò concittadini coloro che aveva soggiogato; e le cose lontane congiunse con vincolo pio. All'opera sua pacificatrice noi tutti dobbiamo che in paese straniero siam come in patria: che ci è lecito mutar sede; che… penetrare in ciò ch'era un tempo spaventosa solitudine, è divenuto un gioco; che ora beviamo il Rodano, ora l'Oronte; che tutti siamo un sol popolo.» Quod cuncti gens una sumus! Del linguaggio Claudiano non parla: ma quanto sia grande l'efficacia sua nel fare che si senta di essere un popolo solo, sa l'Italia unita, e meglio ancora sapeva l'Italia divisa e fatta a minuzzoli.

Così al quinto secolo dell'êra volgare il mondo presenta uno spettacolo davvero invidiabile. Il bel sogno di una lingua universale, ben prima che dall'inventore e dagli adepti del volapük vagheggiato da intelligenze veramente sovrane, si poteva dire allora una realtà. La favella che s'ode sul Tevere, s'ode sul Danubio, sulla Senna, sull'Ebro, lungo le spiagge settentrionali dell'Africa; quella favella è intesa negli stessi dominii dell'ellenismo, ai quali d'altronde sono state sottratte le coste e le isole italiane, e le colonie galliche ed iberiche, dove il latino non giunge, o non è civiltà, o sono civiltà appartate e ignorate. E gli effetti di questa condizione di cose si mantennero poi lunghissimamente, grazie sopra tutto al cristianesimo, che nell'unità romana trovò una preparazione indispensabile all'opera sua; e che, innestandosi su di essa, cooperò quanto mai a perpetuare il latino, qual lingua del culto e della coltura, procacciandogli anche nuove e ben ragguardevoli espansioni. E lingua del culto essa rimane tuttavia per quella chiesa che chiama sè stessa «cattolica», cioè universale; e ad essere lingua della coltura non rinunzia che lentissimamente, e ben a malincuore. È un danno di sicuro sotto certi rispetti; ma è tuttavia una necessità inevitabile. L'amore della vetusta e poderosa rocca dove gli antenati abbian gioito e sofferto, e dalle cui feritoie abbiano respinto un tempo Dio sa quanti fieri assalti, non persuaderà nessuna nostra gentildonna a ridurre là dentro la propria vita, a meno di trasformare siffattamente ogni cosa da snaturarla affatto. Da quelle mura, da quelle vôlte scende un gelo che mette un brivido nelle ossa. Le seggiole, le cassapanche, gl'inginocchiatoi, i letti su cui posarono le membra le castellane del secolo dodicesimo e tredicesimo, paiono strumenti di tortura alle nipoti; le quali d'altronde non trovano tra quelle pareti di che soddisfare a un'infinità di bisogni, che l'età moderna ha creato ed imposto.

Questo mio discorrervi del latino e della sua propagazione, viene – ben lo capite – dall'idea di uno stretto legame colla lingua che diciam nostra, ed anzi in genere colle cosidette lingue romanze: l'italiano, il francese, il provenzale, il catalano, lo spagnuolo, il portoghese, il rumeno, e, se non vi adontate, anche l'umile romancio, che tutti, colla loro stretta somiglianza, rendono ancora l'immagine dell'umanità romana, e ce ne consentono sempre in parte i benefici. E un legame è così potente da essersi sempre visto e conosciuto da chiunque, anche in età tuttora inesperte, ebbe a fissare poco o tanto l'attenzione su questo soggetto. Di tempo in tempo non mancarono tuttavia certuni, che, senza proprio mettere fuor dell'uscio il latino, non disposto davvero a tollerare un trattamento siffatto, lo accompagnarono fin presso la soglia. Costoro si fecero paladini delle lingue che dal latino si dicono sopraffatte, costringendo a prendere le loro parti quella sciagurata creatura che è l'etimologia: una gran dama ridotta spesso a servire a tutte le voglie. Così mentre vi parlo, quasi immagino di veder qui apparire Pier Francesco Giambullari, a rintronarci gli orecchi coll'etrusco, ch'egli beninteso, conosceva anche meno assai – ed è tutto dire! – di quel che si conosca noi moderni. Ma le beffe toccategli da Lasca forse lo avranno indotto, se non a mutar idea – giacchè un erudito che consenta a disdirsi è un po' difficile da trovare – a credere prudente il tener chiusa la bocca. A ogni modo poi a lui dovrebb'essere difficile il ricomporre e dare un aspetto presentabile alle sue ossa, ridotte chi sa in quale stato dentro alla sepoltura più che trisecolare di Santa Maria Novella. Vero che il modo di risorgere pare averlo trovato un contemporaneo di Pier Francesco, Gioacchino Perion, che analogamente sostenne greca – facendosi puntello di Marsiglia, greca di origine e per più secoli – la derivazione del francese, e l'anima del quale dev'essere passata nel bollente abate Espagnolle «du clergé de Paris», che da alcuni anni scaraventa volumi dietro volumi nel viso di quella che presume di essere la scienza moderna. Povero Perion! Egli non deve tuttavia essere troppo contento di questo suo ritorno nel mondo. Prima o poi bisognerà bene che si stanchi di non destar altro che risa e che s'accorga di far la figura di un guerriero di Carlo Magno, che con lancia e mazza tutto vestito di ferro, si gettasse nel fitto di una nostra battaglia. Continui del resto, se così gli piace, il signor Espagnolle a rallegrarci colle sue etimologie, degne di tener compagnia a quelle che per il suo dialetto ebbe ad escogitare il «Varon Milanes»: «Biot. Nudo, povero. È tratto dal greco Βιοτος (sic), quale significa la vita e per questo si chiama Biot uno qual ha la vita solamente…» «Bobaa. Si usa co' figliuoli piccoli e significa male. Credo veramente sia stato tolto dal greco, ancorchè sia alquanto corrotto, imperciocchè Βολαῖ appresso i greci dicuntur dolores qui sentiuntur in partu.» Ma per verità faccio torto al Varon dandogli un compagno siffatto; che egli è ben lontano dal farneticare quanto l'abate parigino, del quale d'altronde non ha nemmeno per ombra la sicumera e la spavalderia.

Abbandoniamo alla loro sorte questi timonieri, che in una notte cupa guidano la nave a capriccio, dopo aver sdegnosamente gettato in mare la bussola. Quanto a noi, teniamoci sulla terra dove ci troviam davanti una strada, resa sempre più solida, sempre più ampia, dalle assidue fatiche dei lavoratori che si succedono numerosissimi.

Rispetto dunque alla derivazione sostanzialmente latina delle lingue romanze in generale, e dell'italiana segnatamente, cui nessuno contrasta il vanto d'essere tra le sorelle quella che più da vicino ritrae le sembianze materne, non può esserci dubbio se non in chi abbia la disgrazia di esser cieco d'occhi o di mente. Gli è solo quando si viene alle particolarità, che dei dissensi erano lecitissimi in addietro e che in parte sono leciti ancora. Un tempo prevaleva il concetto che i nuovi linguaggi fossero usciti da una corruzione prodottasi nel latino quando sopraggiunsero le orde barbariche, e quando la civiltà romana si venne offuscando e spegnendo. Era naturale, date le conoscenze d'allora, che si immaginassero le cose in questa maniera; e coloro che pensavan così ragionavan per solito con miglior logica di taluno, che sostenendo invece parlato di già l'italiano dal popolo di Roma fin dai tempi della repubblica, ebbe a scroccarsi (porta in pace la verità, ombra di Leonardo Aretino!) fama di precursore. Forse che la corruzione del latino non appariva evidente? Si ficchino gli occhi dentro alle pergamene notarili del medioevo che ci son pervenute a decine e decine di migliaia, e che paiono portarci la voce, nonchè d'ogni secolo, d'ogni anno, d'ogni mese, e pressochè d'ogni giorno. Che sorta di latino è mai quello! Per non dir nulla del vocabolario, la grammatica è ita tutta a soqquadro; i casi, le terminazioni, i suoni, la sintassi, ballano una ridda assolutamente pazza; nessuno sa più, o vuol più sapere quale sia il suo ufficio, e in cambio di contentarsi di quello, adempie indistintamente qualsivoglia funzione; insomma, suppergiù uno spettacolo quale s'avrebbe se un bel giorno ciascuno di noi si destasse dimentico affatto di ciò ch'egli è; e la moglie mettesse, non solo metaforicamente, ma proprio anche in realtà, i calzoni del marito; e il marito entrasse nelle gonnelle della moglie, e così vestito corresse alla chiesa a dir messa; e il magistrato scendesse in toga a spazzare le strade, per poi ritornarsene a render giustizia colla granata fra le mani. O non è questo il caos donde avrà poi ad uscire il nuovo ordine?

Non è, nè poco nè punto. In fatto di lingue realmente parlate il caos non esiste. Anche il più barbaro, anche il più incolto tra i linguaggi è regolare nella sua struttura, e irregolare apparisce unicamente a chi s'è fitto in capo l'idea di volerlo diverso da quel che è. Bensì avviene – e ciò soprattutto per l'appunto nelle lingue colte, o per opera loro – che si producano parziali disordini: ma questi non sono tali da turbar l'armonia dell'insieme più di quel che facciano in musica certe dissonanze. Perfino nei casi in cui due linguaggi si compenetrino e si mescolino intimamente, l'uno assume il predominio, l'altro gli si subordina, ed è un assetto, non uno scompiglio, che viene ad aversi. I signori anarchici potranno mandare all'aria tutte le istituzioni sociali; ma nel dominio della favella, del pari che nella natura, bisognerà che si rassegnino a lasciar imperare dispoticamente la legge.

Però, nessun dubbio che il parlare dei nostri antichi, e nel sesto, e nel settimo, e nell'ottavo secolo, e giù giù fino al milledugento, non fosse in sè stesso regolarissimo, non altrimenti da quel che sia ora. Variamente regolare: non conforme cioè da luogo a luogo, per l'appunto com'è anche adesso; ma ciò fa meno che nulla, e di ciò s'avrà da toccare più tardi. Era regolare il linguaggio che usciva dalle labbra dei cittadini di Venezia, di Amalfi, di Genova, di Pisa, che insieme con loro correva i mari, intrecciava commerci, stabiliva fattorie, conquistava terre vicine e lontane; era regolare il linguaggio di ciascuna delle città lombarde che si stringevono in lega contro il Barbarossa; regolare il linguaggio delle generazioni oscuramente gloriose che avevano fecondato e propagato i germi di quelle libertà comunali, di cui allora s'intraprese la difesa e si conseguì il trionfo; regolare il linguaggio del popolo di Milano, raccolto a combattere dattorno al carroccio di Eriberto; e come parlavano una favella regolare gl'Italiani che si rivendicavano comunque a grandezza e libertà e che sapevano restituire ai molteplici frammenti della gemma lo splendore che un tempo era stato nella gemma intera, una favella regolare parlavano ben anche coloro che s'erano lasciati asservire dai Franchi, asservire dai Longobardi, e che inermi s'erano ridotti via via in uno stato di abbiezione.

Quanto alla confusione caotica offertaci dalle carte, non è già una lingua, bensì unicamente l'effetto dello sforzo di servirsi di una lingua, che si conosce come Dio vuole. Corrisponde al francese, che parecchie volte ebbe a richiamare un sorriso sulle vostre labbra, o signore, all'indirizzo di qualche mal capitato; al tedesco che a me accade di usare trovandomi in regioni germaniche; all'italiano dei visitatori stranieri delle nostre gallerie e dei nostri monumenti, e un pochino altresì a quello che s'ode da bocche lombarde, piemontesi, liguri, veneziane, napoletane e da quanti insomma, me compreso, non ebbero fortuna di nascere in questa terra benedetta. Ma fate che il tedesco parli tedesco, inglese l'inglese, bergamasco il bergamasco, genovese il genovese, e ciascuno di loro discorrerà corretto, sì da poter essere nel suo genere un vero testo di lingua. Non altrimenti quei notai che ci fanno così inorridire coi loro spropositi, eran gente che nella vita comune, quando nulla li costringeva ad usare un linguaggio oramai loro estraneo e quando potevano esprimersi liberamente nel loro particolare dialetto, non commettevano nessuna sgrammaticatura e non avrebbero fatto la ben minima offesa alla più umile tra le lettere dell'alfabeto. Sicchè quel loro scrivere ci dice solo due cose: da un lato, la loro ignoranza del latino, e in genere il difetto d'ogni coltura, una volta che il latino ne era il solo strumento; dall'altro, la differenza ben ragguardevole che doveva esserci tra il latino e la loro favella nativa.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
460 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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