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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892», sayfa 13

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IV

Fin da ragazzo avevo letto nelle storie letterarie e nelle Antologie che pregio dell'Arcadia del Sannazzaro era la bellezza delle Descrizioni campestri. Ma anche prima ch'io “fuor di puerizia fossi„ mi accorsi leggendolo che il Sannazzaro descrive… come può descrivere un cieco. Mi spiego. Un cieco può parlare di oggetti visibili che non gli è dato distinguere – parlare di stature, di misure, di forme, anche di colori: ne ha sentito parlare, e ripete ciò che ha sentito dire. Così il Sannazzaro ci parla di boschi, di luna, di aurora, di uccelli, di laghi, perchè gliene hanno detto qualcosa Virgilio, Ovidio, i Greci, il Boccaccio – ed egli ripete, quasi sempre male, quel che essi hanno detto bene.

A provare che il Sannazzaro non è vero poeta, cioè un veggente, cioè un uomo che vede meglio e più addentro che gli altri, nell'uomo e nella natura – basta guardare i suoi aggettivi. Non ne trovi mai uno, dico uno, che, come fan sempre quelli di Dante, dia vita e fisonomia e colore al suo sostantivo. Son tanto comuni che, dato il sostantivo, s'indovina subito l'epiteto che l'accompagna.

Apro a caso e leggo:

“Gli aratori tutti lieti, con vaghi e dilettevoli giuochi, intorno ai candidi buoi, per li pieni presepi cantarono amorose canzoni. Oltra di ciò li vagabondi fanciulli (vagabondi, in altro senso, non sarebbe cattivo) con le semplicette verginelle se videro per le contrade exercitare puerili giuochi in segno di comune leticia.„

Ecco dei versi d'un'Egloga lodata. Parla il pastore Barcinio a Summonzio.

 
Barcinio. – Una tabella pose per munuscolo
In su quel pin: se vuoi vederlo, or alzati,
Ch'io ti terrò su l'uno e l'altro muscolo.
 
 
Summonzio. – Quinci si vede ben senz'altro ostacolo
Filli, quest'alto pino io ti sacrifico,
Qui, Diana ti lascia l'arco e l'jacolo.
– Questo è l'altar che in tua memoria edifico,
– Quest'è il tempio honorato e questo è il tumulo
In ch'io piangendo il tuo bel nome amplifico.
 

Certo, questi pastori hanno avuto sempre dieci in latino, e sono stati tutti all'Università… Paragonate questi dotti vestiti da pastori, agli schietti e veri e vivi contadini di Lorenzo de' Medici!

Sarebbe però ingiusto il negare al Sannazzaro la facoltà che ha, in qualche scena silvestre o rusticana, di darci una serie di graduali impressioni che han del poetico – il senso della composizione, della euritmia, della Symetria prisca. Peccato che egli si compiaccia e si pavoneggi quasi sempre nella imitazione formale, in una specie di trascrizione dai Latini, quasi a sfoggio di saccenteria.

Un valente critico, anche troppo benevolo al Sannazzaro, scrisse che l'Arcadia fu come un sogno per l'autore, e diventa un sogno per il lettore – che i personaggi son quasi tutti fantasmi piuttosto che veri caratteri. Il Sannazzaro viveva nel più luminoso paesaggio d'Italia; aveva sotto gli occhi il golfo di Napoli, Posilipo, Amalfi, Sorrento; e non sa che intravedere uomini e cose, come fantasmi in un sogno! Aggiungete che i personaggi d'Arcadia, questi fantasmi che non sappiamo distinguere, e che non ci interessano, nè ci commovono mai, nè per le loro avventure, nè coi loro lamenti, erano, sotto nomi pastorali, personaggi veri e viventi, amici e parenti del Sannazzaro, che egli ha paralizzato con le sue frasi latine, e mummificato coi suoi periodi boccaccevoli. La poesia che in Dante e nei veri poeti mette la vita anche dov'era la morte – nel Sannazzaro mette invece la morte dov'era la vita; perchè l'arte vivifica, e l'artificio dissecca. Sì, pare incredibile, ma è vero e provato. La insipida pastora Massilia è la Masina, madre del Sannazzaro, da lui tanta amata – Amaranta, è la sua diletta Carmosina – Melisco è il Pontano – Fronimo è Gian Francesco Caracciolo – persone vive e vere, che egli vedeva tutti i giorni, e che egli ha seppellite per sempre nel classico e freddo sepolcro dell'Arcadia.

Se nella poesia e nella prosa, nell'Arcadia e nelle Rime, il Sannazzaro imita continuamente gli antichi, da Virgilio a Claudiano, si può dire che saccheggia addirittura il Boccaccio.

Anche quando vuol descrivere la sua Napoli, il Sannazzaro non sa far altro che trascrivere dal Boccaccio. Ma il Boccaccio che, nonostante i latinismi e l'artificio, e un certo manierismo, è un gran poeta in prosa, rimane il solo vero ed efficace descrittore di Napoli. Il placido, azzurro, tepido mare di Baia, Posilipo e Castelnuovo, la tomba di Virgilio e Pozzuoli, Cuma e Caprea, ce lo rammentan sempre.

Dopo il Boccaccio, chi ha più sentito e meglio tradotto la poesia di Napoli, è Lamartine. Boccaccio e Lamartine – spaventosa concordia! eppure, o Signori, è così. Quell'incanto molle di Napoli, quello spettacolo unico di cielo e di mare, dove in uno sguardo si vede, dirò così, il fiore della Vita – dove la terra è una festa, e il cielo un paradiso – il sensuale amante della Fiammetta lo sentì come lo spirituale poeta di Elvira. Tatti e due avevano respirato l'aria balsamica e luminosa delle notti napoletane – tutt'e due avean errato sul golfo nell'ora ineffabile in cui la luna declina verso il Capo Miseno, e impallidisce e svanisce tra le prime rose dell'aurora.

Nel Sannazzaro già trasparisce il lato debole, anzi cattivo dell'epoca. Come in Lorenzo e in Leonardo è il lato dialettico, nel Sannazzaro è il lato sofistico del Rinascimento: la cieca idolatria del classicismo, delle regole consacrate e dommatiche, e quello spirito legislativo e dottrinario, che doveva finalmente soffogare l'immaginazione e la libertà individuale, e precipitare fino ai deliri del grottesco e del barocco, i sistematici adoratori del Bello Assoluto. Già fino dalla fine del secolo XV, per molti letterati, ciò che importa non è più cosa s'ha a dire, ma come si deve dire. Una menzogna o una turpitudine in bei periodi Ciceroniani, si preferisce a una verità o a un gran pensiero nel cattivo latino di Abelardo e di san Tommaso. Dei cardinali umanisti raccomandano a dei giovani prelati di non fermare il pensiero sulle orazioni della Messa o sulle parole dei Salmi, per non sciuparsi lo bello stile. Si paganizzano perfino i nomi, e Pietro si muta in Pierio, e Giovanni in Gioviano. Lo scrittore finisce col non dir più quello che pensa, o immagina, o sente – ma pensa solo a delle frasi – vede, non più il mondo immenso della Natura, ma il mondo limitato dei classici, e trascrive servilmente questo, come modello assoluto, e quasi sempre lo sciupa nel riprodurlo. La forza trionfante, l'indifferenza nella scelta dei mezzi pur di riuscire, la bellezza sensuale e voluttuosa, il godimento raffinato e egoistico, divennero un nuovo Vangelo – tanto che la Letteratura e l'Arte, queste due confessioni della Società, ne furon finalmente viziate, infette nell'intimo organismo, e mostruosamente pervertite. E si ebbero per ultima conseguenza, poemi cortigianeschi deliranti e snervanti, drammi da macchinisti, pitture e sculture di Dei senza potenza, di Vergini senza pudore, di uomini senza carattere: Santi che paion facchini e odalische – Angeli che somigliano ad acrobati o a ballerine – moli enormi e insolenti di marmo e stucco sciupati, che si chiamano chiese, palazzi e sepolcri.

Il vizio del Rinascimento dopo il suo primo fiore, fu il culto eccessivo e la servile imitazione delle forme antiche. Finì per non guardar più alla Natura, unica e inesausta sorgente d'ogni Vero e d'ogni Bello; e lo vide solo attraverso i libri: e avemmo una letteratura convenzionale, un accademicismo rettorico. Dante, il gran conciliatore della Natura e dell'Arte, della dottrina e della poesia, fu dimenticato. Poi l'ingegno umano, pazzo d'orgoglio, non imitò più neppure i classici, ma pretese ricavare ogni invenzione dalla propria fantasia, creare senza guardare più nè il Vero nè gli antichi, e avemmo il Marini e il Secento.

V

E quanto alla Poesia, ricordiamoci sempre, o Signori, che il primo, il vero, l'insuperato Rinascimento, è in Dante. Dopo lui, non c'è progresso. Come hanno potuto alcuni critici recenti affermare che il Sentimento della Natura e il Sentimento umano cominciano nella nostra poesia col Petrarca? Tutte le volte che Dante dipinge scene naturali, dal cielo stellato alle pecorelle, dal turbine a un uccellino, rimane insuperato non solo dal Petrarca, ma da quanti poeti hanno cantato in Italia per cinque secoli. Solo il Leopardi, qualche rara volta, gli si avvicina. Dante rimane il tipo del vero umanista; perchè adora l'antico, ma non abdica mai nè la sua fede, nè la sua epoca, nè la sua personalità. Egli solo nel suo tempo è grande poeta e grande scienziato – dopo lui la poesia e la scienza fanno in Italia un deplorevole divorzio. Nè si ripeta la solita storia delle dissertazioni teologiche. Dante è sommo e unico non per, ma malgrado i suoi Canti teologici.

E il Sentimento umano? Non solo egli lo espresse in modo sovrano prima del Petrarca; ma espresse tutti i sentimenti umani: talmente che anche oggi, dopo tanti secoli, non possiamo in questo paragonargli nessuno, almeno in Italia. Pensate! Manfredi, Casella, Piccarda, Farinata, Pier delle Vigne, Buonconte, Sapia, Francesca, Ulisse, Ugolino, Filippo Argenti, Sordello, Romeo!

… “Ma le soavi, divine elegie del Petrarca, ma il colorito del Poliziano…„ Benissimo, – ma in Dante c'è ogni cosa: è una sinfonia orchestrale dove c'è l'organo solenne, e il violino appassionato, e le note ardenti della tromba di guerra, e i sospiri del flauto. Quando Dante è elegiaco, è più soave e più patetico di tutti i Petrarca del mondo – quando Dante colorisce, non gli son paragonabili che Tiziano e Velasquez – e nei sinistri crepuscoli; o nelle tragiche tenebre, Rembrandt.

I quattro Classici!!.. Ma fra Dante, e il più grande degli altri tre che è l'Ariosto, ci sarebbe posto almeno per altri due o tre poeti. Di Dante può dirsi ciò che il Petrarca cantò della Vergine:

 
Cui nè primo fu, simil, nè secondo.
 

Per trovargli un compagno, bisogna uscire d'Italia – e non ne troviamo che uno: Guglielmo Shakespeare.

E come impallidisce anche tutta questa Lirica del Quattrocento, paragonata a certi accenti lirici della Vita Nuova e del Purgatorio, non solo come sentimento e immagini, ma anche come pura forma poetica! Dante resta incomparabilmente primo anche come artefice di versi nel tecnicismo del ritmo, come stilista. Ha certe audaci e felici inversioni, certi effetti di colore e di suono, da fare impallidire i più consumati maestri della parola poetica, da Goethe a Victor Ugo, dal Foscolo a Tennyson, dallo Shelley al Carducci.

Perchè notate, o Signori, che nei poeti del Quattrocento, accanto a versi bellissimi, a strofe perfette, trovate versi deboli o manierati, l'epiteto ozioso e insignificante, la zeppa: un lavoro di mosaico e di tarsia, dove manca la pastosità del cemento, il magistero dell'artista sommo che sa dir tutto, e tutto bene, e sempre bene.

Ah! se insieme ai tanti, ai troppi, commenti filologici, filosofici, teologici, storici, archeologici, che abbiamo della Divina Commedia, ne avessimo uno estetico; si vedrebbe come i caratteri essenziali dell'arte moderna, il naturalismo, la malinconia, la passione, son caratteri essenziali della poesia Dantesca – e come Dante, nonostante la sua scolastica e la sua teologia, è il più moderno di tutti i poeti italiani. E si deplorerebbe che i poeti che gli succedettero, invece di svolgere quel che era in germe nel Divino Poema, si ostinassero nella sistematica riproduzione delle forme grecolatine. In Dante era l'ode, l'eloquenza, la satira politica, sopratutto il dramma. Non vi si badò. Si preferì di copiare Ovidio e Terenzio, il Decamerone e il Petrarca – e si ebbero due secoli di Canzonieri noiosi, di laide Novelle, e di Commedie copiate. E tutta questa roba si chiama anche oggi letteratura classica e se ne infarciscono le Storie letterarie e le Antologie per le scuole: certe storie letterarie, certi Manuali, dove si parla a lungo del Segneri e non è neppur rammentato il Savonarola – dove si parla diffusamente e si danno estratti della Tancia, e non è neppur ricordato Carlo Goldoni; perchè il Savonarola e il Goldoni scrivono in cattiva lingua… Tanto è vero che da noi, per troppo amor della lingua, si perde spesso il cervello.

Ho detto che anche come artefice di verso, Dante è superiore a tutti i poeti del Rinascimento, non escluso il Petrarca.

Mi basti ripresentare alla vostra memoria e alla vostra ammirazione i versi descriventi la fiamma che parla, il gemito di una testa recisa, le piante animate e sanguinanti, le trasformazioni di uomo in serpente, l'uccello mattutino, le pecorelle che escon dal chiuso, l'anima che si dilegua cantando, i versi sull'ora del tramonto, quelli sull'alba di maggio…

E le note di suprema malinconia, i versi patetici, com'egli solo sa fare?

 
Deh, quando tu sarai tornato al mondo,
E riposato della lunga via…
Ricorditi di me che son la Pia.
 
 
Indi partissi povero e vetusto.
E se il mondo sapesse il cuor ch'egli ebbe
Mendicando sua vita a frusto a frusto
Assai lo loda e più lo loderebbe.
 

Ed è lo stesso poeta che ha scritto:

 
Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti
Riprese il teschio misero co' denti
Che furo all'osso come d'un can forti.
 

e:

 
A te sia rea la sete onde ti crepa
… la lingua e l'acqua marcia
Che il ventre innanzi agli occhi sì t'assiepa.
 

E i versi passionati, dai primi, incerti, deliziosi sogni d'amore, fino all'ebbrezza, fino al delirio?..

 
Quanti dolci pensier, quanto desio,
Menò costoro al doloroso passo!
 
 
Questi, che mai da me non fia diviso,
La bocca mi baciò, tutto tremante…
 

È un grido umano, che cuopre e soffoca tutti i melodici sospiri per tutte le Laure dei cento Canzonieri italiani.

Se la parte scolastica e scientifica della Divina Commedia ci apparisce un po' come natura morta, tutta la parte umana e poetica è immortalmente giovine e viva: perchè la scienza è progressiva, e perciò ha sempre un valore relativo, – ma la Poesia (la vera Poesia) è assoluta, e perciò inalterabile. Copernico offusca Tolomeo, Cuvier eclissa Buffon, Darwin eclissa Lamarke, – ma Dante non scema d'un raggio l'aureola sfolgorante d'Omero – nè Shakespeare attenua di un grado la gloria sovrana di Eschilo. Nè tutti gli splendori del Rinascimento, dal Petrarca all'Ariosto, nè tutta la grande poesia moderna da Goethe al Leopardi, offusca minimamente la gloria trascendentale della Divina Commedia.

VI

Il Savonarola è una grande anima, e un vero poeta – ma è più gran poeta in molte sue prediche, che nelle vere e proprie Poesie. Nonostante, anche in queste, benchè scorrette, neglette di forma, circola un'aura, un soffio potente, come un'eco ancor calda delle sue ardenti perorazioni, delle sue tragiche visioni, delle sue formidabili apostrofi: ma talvolta, e non di rado, vi son note semplici, fresche, quasi festose, come in questi versi sul Natale, che sembran preludere nella loro ingenuità ai due inni immortali del Milton e del Manzoni.

 
Venite, Angeli santi.
E venite suonando;
Venite tutti quanti
Gesù Cristo laudando,
E gloria cantando
Con dolce melodia;
Ecco il Messia – ecco il Messia
E la madre Maria.
 
 
Venitene, Profeti
Che avete profetato,
Venite tutti lieti;
Vedete ch'egli è nato,
Il picciolin Messia!
 
 
Pastor pien di ventura,
Che state voi a vegghiare?
Non abbiate paura;
Sentite voi cantare?
Correte ad adorare
Gesù con mente pia.
I Magi son venuti
Dalla stella guidati,
Con lor ricchi tributi.
 
 
In terra inginocchiati.
Quanto son consolati
Adorando il Messia!
 

Altre volte, nell'ardore della preghiera, ha qualche cosa di petrarchesco come in questa strofa:

 
Apri, Signore, il tuo celeste fonte;
Quella tua dolce vena
Che Maria Maddalena
Trasse di basso loco all'alto monte,
Con l'anima serena
Piena di raggi e di splendor divino.
Pietà, Signor, di questo peregrino!
 

Amor giovine, deplorò le umane rovine della Chiesa e le morali rovine del Mondo, con versi potenti. La Chiesa di Cristo,

 
Povera va con membra discoverte,
I capei sparsi e rotte le ghirlande:
Scorpio la punge ed angue la perverte.
E così va per terra
La coronata, e le sue sante mani…
Bestemmiata dai cani
Che van truffando sabbati e calende…
 

Le Poesie sacre del Savonarola, a differenza di quelle di Feo Belcari e del Benivieni, accennano o confermano il concetto d'una Riforma Cattolica, già prenunziata da Dante. E in alcune strofe si mostra anche artista. Nonostante il falò delle vanità, nel quale è a deplorarsi l'eccesso che pur vi fu, egli aveva vivo il sentimento dell'Arte. Fondò una scuola di pittura nel suo stesso Convento, ove lavorò Fra Bartolomeo, fu agli artisti e ai letterati consigliere e ispiratore, fu intimo amico di Pico della Mirandola e inaugurò con lui gli studi ebraici e orientali – e il genio dei Profeti e di Dante che era in lui, lo comunicò a Michelangiolo, e palpita ancora immortale alla volta e alle pareti della Sistina. Non facciamo dunque del grande oratore e del grande riformatore, un Erostrato selvaggio e un frate ignorante.

Egli fu in Italia la più gran coscienza morale del secolo XV, come Dante lo era stato del XIV, e come Michelangiolo lo fu del XVI. L'ardore con cui il santo monaco fuse insieme i sentimenti di patriottismo e di morale nel popolo di Firenze, non si spense con lui – e i suoi migliori effetti si videro rifulgere nel memorabile Assedio degli anni 1529-30. Il soffio vulcanico del grande oratore che ispirò il poema della Giustizia dipinto nella Sistina da Michelangelo, animò egualmente la tragedia della Libertà combattuta a Gavinana da Francesco Ferruccio.

La sua fede eccitava il suo entusiasmo, il suo entusiasmo faceva la sua forza. Nessuno, o Signori, è diventato martire per una opinione: la fede sola fa i martiri. Egli credeva e vedeva, e tuonava dal pergamo le sue visioni. Chiamatelo pure un fanatico. Era fanatico come Ezechiello, come Geremia, come Arnaldo, come Demostene, come Dante, come Mirabeau, come O'Connell – come tutti quelli che hanno comunicato l'elettricismo d'una parola di fuoco. Era un malato?.. Forse. Ogni vera creazione produce uno spostamento, un disequilibrio. Se gli eroi, i martiri, i grandi poeti son tutti malati – consoliamoci – non c'è mai stata tanta salute come oggi, in Europa!

Le più ammirabili prediche del Savonarola, come ben nota l'illustre Villari nel suo classico libro, son quelle su i Salmi: e quella dove l'impeto lirico è sommo ed unico, dove il Savonarola è veramente poeta, e gran poeta, è la predica-visione dei flagelli d'Italia. Il Cielo stesso combatte; i Santi, gli Angeli spingono i barbari vendicatori. Son loro che li hanno chiamati, che hanno messo le selle ai cavalli, e affilate le spade. E il diluvio degli stranieri, il gran gastigo italico, comincia. Dove andiamo? San Pietro grida: A Roma! a Roma! San Giovan Battista e Santo Antonino: a Firenze! E San Marco: là verso la città superba e voluttuosa, che inalza le sue cupole d'oro sovra le acque!

La impressione che riceviamo anche oggi, dopo quattro secoli, e alla semplice lettura, da questa predica, è solo paragonabile a ciò che proviamo al primo ingresso nella Cappella Sistina. Vi ricordate? Un fremito, un tumulto, corre sulle pareti. Non si sa dove riposare lo sguardo. Da tutte le parti, visi minacciosi, e pianti disperati. Ezechiello si volta impetuosamente, in furiosa disputa con un Angelo. Geremia appoggia l'enorme testa sulle mani, come schiacciato dal peso di tutti i dolori di Gerusalemme. La Libica si alza terribile, con in mano il gran libro dei fati. La Persica legge con occhi ardenti. Daniele scrive tremando. Qua, il tronco di Oloferne versa una fiumana di sangue; là, gli adoratori degli idoli si contorcono, ignudi, sotto i morsi dei serpenti divoratori. Madri spaventate urlano e fuggono, stringendo al seno i bambini. Un altro vede passare in uno specchio visioni così terribili, che indietreggia atterrito, e batte la spalla nella muraglia. Par di sentir ruggire di lontano il tuono della vendetta divina. La Giustizia e il Giudizio – riparatore e vendicatore – respirano da ogni angolo della tremenda Cappella.

In quegli anni tragici e sinistri di saccheggi e di incendi, di orgie e di tradimenti, Michelangelo, che doveva assistere ai funerali della libertà e dell'Italia, si ricordò soprattutto del Savonarola, e leggendo assiduamente i Profeti, Dante, e le Prediche e le Liriche del Ferrarese, dipinse i Profeti, e scolpì la Notte, la Notte d'Italia.

In una delle sue ultime prediche, il Savonarola, presago dello imminente martirio, disse queste parole: “O Signore, io non tengo modi di cercar gloria umana. Io non voglio cappelli, nè mitrie piccole o grandi. Non chieggo se non quello che tu hai dato ai tuoi Santi – la morte. Un cappello rosso, un cappello di sangue, questo desidero.„

E l'ebbe. E prima, le agonie dell'infame processo, i dubbi e i terrori, la fune che gli slogò tutte l'ossa, le tenebre della segreta, le smanie e gli scoramenti, e i sudori di sangue dell'eterno Getsemani…

Fu allora che in un momento di tregua, in un'ora di grazia e di respiro, – fra la tortura e il rogo – compose un salmo sublime, che il Tommaseo ammirava tanto, e tradusse.

Eccone alcuni versetti:

 
Conoscerò dunque, fra poco, Voi, o mio Dio, conoscitore di me.
O mio consolatore, mostratevi a me finalmente;
Siatemi adiutore – non mi lasciate.
Perchè il padre e la madre mia mi lasciarono…
Ma il Signore misericordiosamente mi assunse.
Non mi date alle animosità di quei che mi tribolano,
Poichè insorsero contro me testimoni iniqui – e l'iniquità mentì a sè medesima.
 

Sospeso dal laccio infame sul rogo, e non ancor morto, il Savonarola potè forse vedere le mani impazienti e furiose del popolo, appressare le torce accese alla catasta già sparsa d'olio e bitume; mentre altre mani scagliavano una pioggia di sassi su quel volto tante volte illuminato dalla luce del genio e dalla santità della vita.

Ah! da quando insultò Socrate, e preferì ad alte grida Barabba a Gesù; al giorno in cui sputò in faccia a Bailly e imprecò a Madama Roland moritura – la plebe ingannata e pervertita, o abbandonata al cieco istinto bestiale, ha sempre applaudito all'eccidio dei suoi più insigni benefattori.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 ekim 2017
Hacim:
390 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
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