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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892», sayfa 14

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VII

Come il lato sofistico del Paganesimo era stato il consacrare la natura umana anche nella sua parte cattiva – il lato sofistico del Cristianesimo medievale fu di gettare un anatema troppo assoluto su la Natura, di vivere come lo Stilita sospesi tra il Cielo e la Terra, guardando a quello con estasi, a questa con un sacro terrore. Il centro della Idealità fu spostato nel Rinascimento; e al culto del Dolore spirituale, successe l'apoteosi della plastica Bellezza e della Euritmia. Ma tra le voci armoniose e pagane, dura anche nel Quattrocento qualche eco della grande, triste e patetica poesia del Cattolicismo. Oltre il Savonarola, vanno ricordati il Benivieni e il Belcari. Il primo essenzialmente lirico, drammatico e trovatore di patetiche situazioni, efficaci, nella loro ingenua espressione. Basti rammentare le parole d'Isacco al padre che sta per sacrificarlo.

Nella lirica satirica si distinsero il Cammelli e il Burchiello: ma il loro più gran merito consiste forse nella visibile influenza che ebbero sull'ammirabile genio del Berni.

Un soffio veramente lirico spira in alcuni canti epici del rude e possente poeta Luigi Pulci. La sua morte di Orlando è semplice, patetica, e tocca il sublime. E forse Alfredo Tennyson l'ebbe in mente, quando descrisse, negli Idilli del Re, la Morte di Arturo.

Nelle stanze narranti la catastrofe cavalleresca, Roncisvalle, e la morte del gran Paladino, è commisto in modo mirabile l'elemento lirico all'epico:

 
Così tutto serafico al ciel fisso
Una cosa parea trasfigurata,
E che parlasse col suo crocifisso…
Il cielo certo allor s'aperse…
E come nuvoletta che in su vada,
In exitu Israel, cantar, de Egipto
Sentito fu, dagli Angeli solenne
Chè si conobbe al tremolar le penne.
Poi si sentì… .
Certa armonia con sì soavi accenti,
Che ben parea d'angelici istrumenti.
 

Versi che certo rammentava l'Ariosto quando cantò con la magia che gli è propria:

 
E voci e suoni d'angeli concordi
Tosto in aria s'udîr che l'alma uscìo
La qual, disciolta dal corporeo velo,
Fra dolce melodia salì nel cielo.
 

Arriva Carlo Magno e benedice al morto Paladino e gli richiede la spada Durlindana.

 
Io benedico il dì che tu nascesti,
Io benedico la tua giovinezza.
Io benedico i tuoi concetti onesti,
Io benedico la tua gran prodezza.
E se tu hai di me nel ciel mercede,
Come solevi al mondo, alma diletta,
Rendimi se Dio tanto ti concede,
Ridendo, quella spada benedetta.
 
 
Come a Dio piacque, intese le parole,
Orlando, sorridendo, in piè rizzossi;
Con quella reverenza che far suole,
E innanzi al suo Signore inginocchiossi,
E poi distese, ridendo, la mana,
E resegli la spada Durlindana.
 
 
Carlo tremar si sentì tutto quanto
Per maraviglia e per affezione,
E a fatica la strinse col guanto…
 

Ma il personaggio più magneticamente poetico del Quattrocento, quello la cui vita è una vera lirica di bellezza, di aspirazioni e di entusiasmi, è Pico della Mirandola: e non vi dispiaccia, o Signori, che io concluda col suo simpatico nome, questi miei rapidi cenni su la poesia del Quattrocento.

Marsilio Ficino ci ha narrato come lo vide la prima volta in Firenze. Era il 1480, l'anno in cui il Ficino aveva compiuto la sua grande opera, la traduzione di Platone. Una bella giornata di settembre, verso l'ora del tramonto, il dotto ellenista meditava nel suo studio. La lampada votiva che egli teneva accesa dinanzi al busto di Platone brillava vivace nella languente luce vespertina. Entrò un giovane alto e bello, dagli occhi grigio-cerulei, dai capelli di un biondo acceso, scendentigli sulle spalle sotto un berretto di velluto nero: vestiva una cotta di raso violaceo, listato d'argento: aveva al collo la collana d'oro di Principe. Era Giovanni Pico della Mirandola.

Parlarono di filosofia – di Platone, naturalmente. E il giovine Principe suggerì al vecchio filosofo di tradurre Plotino, il mistico panteista dell'Antichità. Parlò dell'Oriente; il mio Oriente, diceva, l'alma mater d'ogni scienza e poesia. Parlò della Bibbia e del Cristianesimo, di un Cristianesimo eterno, indistruttibile, conciliabile col Platonismo. Parlò dell'Uomo, che è un piccolo Mondo, una sintesi portentosa e divina, “dov'è, diceva, l'essenza angelica e il senso del bruto, e la vegetale anima delle piante, e il fuoco e il mercurio„. Disse al Ficino di un Commento che intendeva fare alla Canzone del Benivieni su l'Amor divino: e ne discorse con una stupenda profusione di immagini colorite e poetiche, prese dall'Astrologia, e dalla Cabala, da Salomone e da Omero.

E la notte calava sulle grandi vetrate dello studio, e la lampada votiva illuminava il marmoreo volto di Platone e i capelli d'oro di Pico.

Era allora poco più che ventenne: ma avea già provato le tempeste della passione e n'era restato disilluso, e abitualmente un po' mesto.

Aveva scritto molti versi d'amore, e gli aveva, un giorno, tutti bruciati. (Grande e raccomandabilissimo esempio!..) Aveva viaggiato, visto uomini e cose. Veniva ora a Firenze, attratto dalla fama del Magnifico Lorenzo, e dall'amicizia per il Ficino.

Una bellissima bruna, una ardente Savonaroliana, soprannominata la profetessa, Camilla Rucellai, s'innamorò perdutamente di lui… ma non fu corrisposta. La irrequieta curiosità teologica e scientifica, la triste sazietà dei piaceri, preservarono Pico da nuove passioni. La Rucellai gli predisse che sarebbe morto al tempo dei gigli… E il giorno che Pico della Mirandola spirava tra le braccia del Savonarola, Carlo VIII entrava in Firenze preceduto dalla bandiera con li aurei gigli di Francia. Fu sepolto in San Marco. Aveva 32 anni. I contemporanei lo chiamarono la Fenice degli ingegni. Per noi è una Fenice soprattutto in questo, che fu un Erudito poetico. Non si è visto ancora il secondo.

Sapeva e scriveva il greco, l'arabo, l'ebraico, il caldaico. All'età di ventisette anni, trasse dai suoi immensi studi novecento tesi di fisica, filosofia, teologia, astronomia, magia naturale, comprendenti quasi tutto lo scibile del suo tempo, e le pubblicò in Roma, proferendosi pronto cavallerescamente a sostenerle contro chiunque osasse oppugnarle. Poeta e filologo, filosofo e mistico, ebbe un'ardente curiosità dell'ignoto, del miracoloso, intravedendo e indagando il Soprannaturale nell'intima essenza del Naturale; come Leonardo, Paracelso, Fichte, Novalis, Carlyle. Simpatizzava con tutto quello che le morte generazioni hanno sinceramente e passionatamente creduto: e studiava, rievocava, resuscitava le antiche mitologie. Vedeva in esse l'eterno Io dell'umanità, vi leggeva un motto del grande Enimma. Egli disse pel primo la feconda parola: in ogni fede, è una parte di verità.

La sua teoria è essenzialmente poetica e consolante, e rammenta la teoria Browninghiana. – Tutto quello che rettamente si volle e nobilmente si amò sulla Terra, non andrà mai perduto. Dovremo traversare altri mondi – molto avrem da imparare, molto da dimenticare, ma quel momento verrà. Tutto quello che ardentemente aspiravamo ad essere, e non potemmo essere su la Terra, ed a cui pure ci sentivamo chiamati; tutto ciò che era in noi e che il mondo ignorò, la poesia muta, l'amore represso, il momento fatale perduto, tutto avrà un giorno, altrove, sviluppo e trionfo. Pico della Mirandola serbò intatte, nel suo poetico naturalismo, la coscienza individuale, e la libertà morale dell'anima umana. Nel suo trattato De Hominis dignitate, scrisse queste belle e memorande parole: “I bruti sono eternamente bruti, gli angeli, essenze angeliche eternamente. Tu solo, o Uomo, puoi degenerare fino a divenire un bruto, e rigenerarti e sollevarti fino a parere un Dio. Tu solo hai un incessante sviluppo; tu solo porti in te i germi di ogni specie di Vita.„

Se Pico della Mirandola distrusse i suoi versi, restò poeta nella vita, nel sentimento, nell'intelletto. Nè mi è parso inopportuno parlare di lui, in una lettura su la poesia del Rinascimento. Per esserne il più poetico simbolo, non gli è mancato nulla. Ha avuto l'ingegno, la dottrina, la bellezza, la gioventù, la nobiltà, l'entusiasmo, la morte precoce; e finalmente un certo mistero che avvolge il suo nome, la sua vita, e tutti i suoi scritti.

L'ORLANDO INNAMORATO

DEL BOIARDO
DI
PIO RAJNA

Scommetto, signore e signori miei, che se fossi mago – che pur troppo non sono – e avessi la virtù di far qui comparire a un vostro cenno tutti i poeti che vi venisse la curiosità di vedere, la sala correrebbe un gran rischio di essere stipata prima che a Matteo Maria Boiardo fosse concesso di trovarsi in mezzo a un'accolta di persone, tale da richiamarlo a' suoi giorni più belli. Gli è che il nome suo vi s'offrirebbe offuscato da un altro: quello di Lodovico Ariosto. E c'è di peggio. Il Boiardo della tradizione comune ha come l'aria di un somarello dal pelo arruffato, pieno di guidaleschi, che se ne va trotterellando alla meglio, indegno di attirare gli sguardi, finchè un buffone – Francesco Berni mi scusi, – non è còlto dal ghiribizzo di balzargli sul dorso, e, messolo a corsa a forza di scudisciate, non si dà ad eseguire su quella cavalcatura ogni sorta di smorfie e capestrerie. O chi mai deve dunque impacciarsi di richiamare dall'eterno riposo un'ombra cosiffatta?

Chi? – Voi per l'appunto: dopo che vi siate presi la cura di conoscere meglio cosa sia per davvero l'Orlando Innamorato, o Innamoramento d'Orlando che si voglia dire; una cura che, avendo me a guida, riuscirà forse una fatica e una noia; ma che fatica e noia non sarebbe, se, mandato a farsi benedire l'incomodo mediatore, apriste il libro voi stessi e vi deste a legger senz'altro.

Per il momento son qui, e bisogna che mi tolleriate. Ed io dal mio canto, volendo adempiere coscienziosamente l'ufficio a cui mi son sobbarcato (povera coscienza, come si strazia in tuo nome!), son costretto a risalir molto indietro. L'Orlando Innamorato – dicono i barbassori – non si può giudicar bene senza essere prima informati della sua schiatta; e questa schiatta è disgraziatamente antica assai.

Sicuro: ci si perde in un lontano passato, e in un passato non nostro. Tutti sanno oramai di una epopea rigogliosa fiorita nella Francia del medio evo e dissepolta pietosamente da sessant'anni in qua. Essa accompagnò la vita francese dai primordi fino a un'età molto tarda. Nata di sangue germanico, ma fattasi presto romana, cantò i fatti e gli eroi del periodo merovingio, poi quelli del carolingio, e serbò ancora abbastanza fiato perchè, due e più secoli dopo, al tempo delle crociate, potesse mettersi alla bocca la tromba.

Quanti personaggi si trovò così a celebrare! Ma tra gl'infiniti, taluni, per motivi interni ed esterni, vennero a prevalere. Primo fra tutti Carlo Magno, il sovrano per eccellenza. E accanto a lui Orlando, del quale la morte stoicissima al passo di Roncisvalle fece l'ideale del guerriero valoroso e del vassallo devoto. In Rinaldo invece e in certi altri si possono veder personificate le doti meno corrette, ma spesso più simpatiche, del barone ribelle; ribelle nondimeno ai soprusi, non all'esercizio legittimo dell'autorità.

Nella sua forma schietta e genuina questa epopea francese è poesia severa, profondamente patriottica, ardentemente cristiana, fieramente guerresca. Ma se il patriottismo, la religiosità e lo spirito bellicoso eran troppo connaturati con essa per venir a mancare, la severità invece dovette via via ceder terreno di fronte al bisogno di andar a sangue a un pubblico mano mano più desideroso di svago: simile al pubblico d'una conferenza! Così l'epopea si veniva convertendo in romanzo: metamorfosi da non poter mai riuscire perfettamente, nel territorio almeno a cui l'epopea appartiene per nascita. Getti pur lontano quanto vuole la sua tonaca, poco o tanto il frate resterà sempre frate. Quindi, se le chansons de geste continuarono ad appagare esuberantemente il gusto, facile sempre, delle classi popolari, il palato dei signori trovò col tempo maggior piacere in altri cibi. E i cibi furono svariati; ma il più gradito fra tutti fu quello offerto in gran copia dalle narrazioni costituenti la cosiddetta Materia di Brettagna, o il Ciclo d'Artù e della Tavola Rotonda. Straniero di origine, e però non vincolato o frenato da nessun obbligo o tradizione, questo ciclo potè volgersi liberamente a sodisfare ogni tendenza e desiderio di quella società cavalleresca alla quale s'indirizzava, parte, svolgendo gli elementi portati con sè della patria, e più assai trasformando e introducendo di nuovo. Ne uscì un mondo fantastico, nel quale il meraviglioso – prima causa, se non erro, della fortuna brettone – s'incontra a profusione; dove i guerrieri se ne vanno errando soletti, o quasi, per regioni solitamente boscose, sconosciute affatto a loro medesimi, incontrando di continuo l'inaspettato; dove al posto della guerra s'ha il duello, il torneo e l'“avventura„; dove insieme col valore regna la cortesia; dove la donna, relegata in un cantuccio dall'epopea carolingia, è messa in trono, e con essa – occorre mai dirlo? – è messo in trono l'amore; un amore che cura ben poco le istituzioni sociali, sicchè si compiace segnatamente delle due coppie adultere di Tristano ed Isotta, di Lancillotto e Ginevra.

Dalla Francia così l'epopea nazionale come la materia di Brettagna si propagarono all'Italia. L'epopea se ne dovette venire fino da un'età molto antica; oserei quasi dire già in quella stessa di Carlo Magno. Quanto alle narrazioni brettoni, giunsero a noi più tardi; eppure, lasciando stare certi indizi che ci riporterebbero nientemeno che al cadere del secolo XI, è certo che nel XII si divulgarono largamente. La fortuna dell'epopea fu senza confronto maggiore. Essa trovò qui una seconda patria; e non già solo in questa o quella regione, bensì oramai in tutto il paese. Ciò non toglie che la vallata del Po fosse il terreno più disposto ad accoglierla. Colà prima che altrove mise salde radici e si rivestì di nuove frondi. Agli abitatori di quelle provincie che avessero qualche poco di coltura, la favella francese sonava famigliare; sicchè ivi accadde che si rimaneggiasse e s'arricchisse con nuove invenzioni ciò che s'era avuto d'oltralpe servendosi del linguaggio della Francia e senza dipartirsi dai ritmi originarii. Linguaggio e ritmo non rimasero; invece, nè potevano rimanere, al di qua dell'Appennino; l'uno cedette il posto ai volgari nostri, l'altro all'ottava rima o alla prosa. Ma di quaggiù il mutamento ebbe poi ad essere comunicato di rimbalzo all'Italia stessa del settentrione, ridottasi a poco a poco ancor essa ad accogliere un sentimento più vivo d'italianità nell'ordine altresì della lingua e della letteratura.

Quanto alla materia di Brettagna, è naturale che anche presso di noi se ne avessero a compiacere specialmente quelle classi per cui s'era venuta foggiando. Ciò viene a dire che dovette certo aver voga maggiore nella Lombardia, intesa nel suo vecchio ed ampio significato, nella Marca di Treviso, nella Romagna, così ricche di signori feudali e di piccole corti. Però non a caso Dante pose il romanzo di Lancillotto tra le mani de' “duo cognati„, con quell'effetto che troppo ben sapete. Nondimeno e Artù e Tristano e Galvano e tutta la brigata non mancarono di esercitare vive seduzioni anche qui nella Toscana sulle fantasie di una gioventù, cui il nascere per la più parte di popolo non toglieva d'essere amante del “donneare„, della prodezza del lusso, e di ogni gentil costume. Quindi sulle pareti del palazzo della sua Madonna il poeta dell'Intelligenza – o perchè non dirò io Dino Compagni? – darà luogo alla rappresentazione di questo mondo leggiadro con parole che lasciano intendere quanto fosse caro al suo cuore (St. 287-288):

 
E sonvi i pini, e sonvi le fontane.
 
 
E sonvi tutti i begli accontamenti
Che facevan le donne e' cavalieri:
Battaglie, giostre, be' torneamenti,
Foreste, roccie, boscaggi e sentieri.
Quivi sono li bei combattimenti,
Aste troncando e squartando destrieri.
Quivi sono le nobili avventure;
E son tutte a fino auro le ligure:
Le caccie, e corni, valletti e scudieri.
 

Lungi da me l'idea di parlarvi, sia pure rapidissimamente, di ciò che da un lato il ciclo carolingio, dall'altro il brettone, produssero presso di noi nel lungo periodo che precede al mio soggetto, ossia fin verso il declinare del quattrocento. Questo solo dirò, che il brettone riuscì poco prolifico, e si limitò quasi sempre a tradurre e verseggiare. Il carolingio invece fu di una fecondità conigliesca, e mise alla luce una serie interminabile di romanzi in prosa e in verso, attraenti dapprima, fino a che in generale si contentavano essi pure di ripetere in forma schietta ed ingenua narrazioni antiche, ma via via più stucchevoli. Ci si domanda come la gente del secolo XV – ed anche del XVI – potesse trovar diletto nel leggere o sentir recitare casi tanto uniformi, narrati prolissamente e senza grazia. Ci si domanda: ma quando si vede un fanciullo trastullarsi ore ed ore con quattro fuscellini, e gli stessi pettegolezzi far le spese della conversazione universale per una intera settimana, e i cuori di migliaia e migliaia di persone (osservo, non critico) stare in ansia per veder risolto il gran problema se quattro zampe di cavallo arriveranno alla mèta un minuto terzo prima di altre quattro, e rimanersene per questo ore ed ore sotto la sferza solare, si conchiude che per divertir l'uomo, grande e piccino, molto poco può essere sufficiente. Vero che non ci vuol troppo più nemmeno per annoiarlo.

Questa nostra letteratura pareva giunta alla sera – e che squallida sera! – senza aver avuto un vero meriggio; quando le nubi si squarciarono e il sole prese a sfolgoreggiare. Esso, par bene, ebbe prima a mostrarsi a Firenze, dove, secondo le conclusioni di studi recenti, il Morgante di quella bizzarra creatura che fu Luigi Pulci era già composto per tre quarti nel 1470. Il valore di questo poema è tuttavia più scarso che non si pensasse in addietro. D'invenzione non è da parlare che per pochi episodii, dacchè del resto l'amico del Magnifico non fece oramai che rintonacare le mura rustiche elevate da un rimatore popolaresco, sovrapponendovi un tetto costrutto con travi e tegoli di cui possiamo determinare la provenienza. Il pregio maggiore dell'opera sta nella vivacità, davvero mirabile, dello stile e della lingua, e nel riso che guizza per ogni dove. Ma insomma, col Pulci, il romanzo popolare carolingio si riveste di nuovi panni, si raggentilisce, si abbandona alla gaiezza, senza punto mutare sostanzialmente. I cantambanchi che in San Martino ed altrove raccoglievano dattorno a sè un uditorio composto sopratutto di bottegai e di artefici, potevano ancora riconoscere in messer Luigi uno dei loro. Che le cose seguissero a questa maniera nella democratica Firenze, è un fatto più che naturale.

E il Boiardo? – Qui la scena cambia. Ma prima di vedere il come, bisogna pure che noi si faccia un po' d'amicizia col nostro personaggio.

Matteo Maria Boiardo nasceva di una famiglia feudale che nel 1423 aveva ceduto al marchese Niccolò d'Este l'avita signoria di Rubiera, tra Modena e Reggio, ricevendone in cambio la vicina Scandiano ed altre ville, con titolo di contea. Venne al mondo nel 1434, o giù di lì; verosimilmente in Scandiano stessa, residenza abituale de' suoi. Perdette il padre nel 1452; il nonno, Feltrino – uomo insigne – nel 1455; la nonna due anni appresso; e si trovò così arbitro di sè medesimo in età affatto giovanile. La vita sua, nota a noi in modo per verità manchevolissimo, trascorse per la massima parte tra Scandiano, Reggio, Ferrara. Caro agli Estensi, com'era stato loro carissimo l'avolo, accompagnò nel 1471 Borso nel viaggio intrapreso a Roma, quando Paolo II gli concedette anche per Ferrara quel titolo di duca, che l'imperatore Federico gli aveva conferito già da oramai vent'anni per Modena e Reggio. Sotto Ercole poi, succeduto poco appresso al fratello, fu nel 1481 e nel 1486 al governo di Modena. E più lungamente ebbe quello di Reggio: chè, lasciando stare qualcosa che s'afferma e non si prova per un tempo antecedente, rimase in ufficio dal 1487, o al più tardi dal principio del 1488, fino alla morte, seguita nella notte dal 20 al 21 dicembre del 1494.

Educato senza dubbio alcuno all'esercizio delle armi fin dagli anni suoi teneri, Matteo Maria ebbe scarse occasioni di menar per davvero le mani. Qualche parte è verosimile che prendesse alla difesa contro i Veneziani, che nel 1482 mossero ad Ercole una fiera guerra, durata fino al 1484. Come reggitore, certe voci, posteriori alquanto, lo accusano di fiacchezza; e non dirò che l'accusa sia sbugiardata trionfalmente in tutto e per tutto dall'esame di quel tanto che ci è rimasto del suo carteggio col duca. Certo l'animo suo era profondamente inclinato alla benevolenza. Non meno che a questa tuttavia alla giustizia. E il carteggio dà insieme chiaramente a vedere com'egli fosse largamente dotato di senno pratico, e rotto agli affari.

Agli uffici pubblici par che Matteo fosse spinto da ragioni private; probabilmente da strettezze pecuniarie, ben conciliabili anche colla signoria di Scandiano, toccata propriamente a lui nelle divisioni con un cugino. Ma occupazione più gradita che le faccende amministrative, conditegli spesso di fiele da altri ufficiali, gli riuscivano di sicuro lo studio e la poesia.

Tre libri di liriche amorose contengono soprattutto gli sfoghi della sua passione giovanile per una diva reggiana, che non tardò a mostrarsi maestra di lusinghe, simulatrice, volubile, capricciosa. Grazie alla provvida costumanza degli acrostici, ne conosciamo nome e cognome: si chiamava Antonia Caprara. Ma Antonia non domina sola qua dentro. Buon numero di poesie, scritte durante il viaggio a Roma del 1471, inclino a credere indirizzate da Matteo a Taddea Gonzaga dei conti di Novellara, divenuta l'anno dopo sua moglie. Ed altre rivendicazioni dovremmo ammettere (nè dico ciò senza ragioni specifiche), se alle ossa che furono donne gentili e leggiadre negli Stati estensi durante la seconda metà del quattrocento fosse consentito di venir qui a far valere i loro diritti. Chè l'amore fu il sentimento predominante nel Boiardo. E sia poi stata fatta eseguire da lui medesimo, oppure invece da altri in suo onore, la medaglia che nel 1490, quando egli s'avvicinava alla sessantina, ce ne tramandò – e autentiche – le fattezze, il suo rovescio, rappresentante Vulcano intento a foggiare sull'incudine strali per Cupido, lì presente con Venere, e il motto virgiliano che accompagna la rappresentazione, Amor vincit omnia, ci rendono davvero secondo verità i lineamenti interni del Conte di Scandiano. Quel motto – si badi – in una forma o in un'altra, noi lo raccogliamo direttamente dalle sue labbra non so quante volte.

Il canzoniere del Boiardo è uno dei più notevoli del secolo XV; e io mi domando, se mai, non ostante una certa povertà di tavolozza, non fosse il più notevole addirittura. Attrae e colpisce la sincerità della passione, di cui noi seguiamo agevolmente la storia nelle sue vicende liete e tormentose; l'efficacia e la bella semplicità delle espressioni via via che essa riceve; la vivezza e soavità delle immagini; la delicata sensitività per la natura; l'armonia squisita dei congegni ritmici. Se i convenzionalismi e le ricercatezze non mancano (specialmente, badiamo, nel libro terzo, forse ordinato da altri che dal poeta), quanto difficilmente potrebber mancare dopo l'esempio del Petrarca! Ma l'ispirazione petrarchesca, che qui pure può assai, non soffoca nient'affatto l'originalità. Tra Antonia e Laura, tra il modo di sentire di Matteo e quello di messer Francesco, c'è una differenza profonda. Quasi più che a Laura direi che Antonia rassomigli alla Lesbia di Catullo; ma le assomiglia come una donna somiglia ad un'altra donna, poichè essa è propriamente persona viva. Il poeta, trascorsa la prima fase dell'estasi, ce la rappresenta colle sue pecche; e in causa di lei accusa, più spesso e più acerbamente che il Petrarca non faccia, tutto il sesso femminile:

 
Fede non più: non più v'è de honor cura
In questo sexo mobile e fallace,
Ma volubil pensier e mente oscura.
 
(Son. 79).

Ma anche quando soffre, e non potrebbe più dire di certo, come in un tempo di beatitudine, non sarebbe alieno dal ripetere le altre parole che faceva allora tener dietro:

 
Amore ogni tristezza a l'alma toglie,
 
(Son. 23)
 
E quanto la natura ha in sè di bene
Nel core inamorato se raccoglie.
 

E infatti dell'Amore egli prende una volta le difese in un leggiadro contrasto col suo proprio cuore che lo viene accusando:

 
Non sei tu per Amor quel che tu sei?
Se in te vien ligiadria,
Se honor e cortesia?
Ah, pensa pria se lamentar te dei!
Lamentar di colui che l'armonia
Infonde a i vagi ocei!
Che infonde a' tygri humana mente e pia,
E fa li homini Dei
 
(Canzone V, st. 3).

No, l'amore può tormentarlo quanto si voglia: dopo d'aver imprecato, Matteo si riconcilierà con lui, e rimarrà tra' suoi più devoti.

Col Canzoniere hanno scarsa attinenza le altre opere minori. Dieci egloghe latine furono composte, secondo me, tra il 1460 e il 1462; dieci italiane spettano manifestamente la più parte al tempo della guerra con Venezia. Perfino nel numero portano scritta in fronte l'imitazione virgiliana! Qualche sprazzo di luce non vale davvero a conciliarci con codesti pastori, che non hanno nulla di schiettamente rustico, neppur quando l'allegoria non ne succhia il sangue. E meno ancora ci seducono cinque capitoli, quattro dei quali hanno per soggetto il timore, la gelosia, la speranza, l'amore, e il quinto il trionfo delle virtù sui vizi. Quanto copiosi di una non recondita erudizione mitologica e storica, altrettanto son poveri, e peggio, di poesia. A un posto senza confronto più onorato, segnatamente per ragion di tempo, può pretendere il Timone: commedia in terza rima, che non vuol essere se non traduzione e adattamento scenico del dialogo omonimo di Luciano, e che è qualcosa più. Traduzioni vere sono quelle che il Boiardo fece, dal greco, dell'Asino d'oro di Luciano stesso, delle Storie di Erodoto, della Ciropedia; dal latino, dell'Asino d'oro di Apuleio. Quanto alla Istoria Imperiale, ossia degl'imperatori, prima romani, poi romano-germanici, che si dà essa pure come versione di un testo di Riccobaldo ferrarese, ancora non s'è ben chiarito cosa sia; ma par da ritenere un raffazzonamento del Boiardo stesso, a cui Riccobaldo non dette se non molta parte del materiale.

Tale, in brevi termini, l'uomo e lo scrittore, venuto ancor esso nell'idea di metter mano a un poema cavalleresco. Quando l'idea nascesse, non so dire; so bensì che nientemeno che sessanta dei sessantotto canti e mezzo che il poeta ci ha lasciato, erano già scritti al tempo della guerra con Venezia, e probabilmente anche proprio avanti che nel 1482 la guerra scoppiasse. Chè, tra le armi, il poeta, smarrito e addolorato, non per la sua provincia soltanto, ma per l'Italia, non ha cuore di attendere all'opera, e ne rimette a giorni migliori la continuazione:

 
Non saran sempre e tempi sì diversi,
Che mi tragan la mente di suo locho.
Ma nel presente e canti mei son persi,
E porvi ogni pensier mi giova poco;
Sentendo Italia de lamenti piena,
Non che hor canti, ma sospiro apena98.
 

Però il principio della composizione vorrà riportarsi indietro Dio sa di quanto; nè con essa ha dunque assolutamente che vedere la pubblicazione del Morgante, seguìta essa pure solo nel febbraio di quel medesimo anno 1482. E per me credo assai poco che vi abbia che vedere nemmeno in altra maniera il poema fiorentino, del quale la voce, od anche qualche esemplare manoscritto o qualche saggio, fossero arrivati fino al Nostro. In ogni modo, se da Firenze fosse venuto qualcosa, non si tratterebbe che di un semplice impulso, di cui poco capisco che ci potesse esser bisogno.

Sicchè dobbiam fare direttamente i conti col nostro Matteo Maria. Cosa ci saprà e vorrà egli dare? – Se ci mettiamo ad argomentare dalle altre opere, il Canzoniere ci inspirerà una certa fiducia; ma tutto il rimanente ci farà scuotere il capo in atto di diffidenza. Che razza di poema cavalleresco dovrem noi aspettarci da un erudito, da un traduttore, da un imitatore, dal coltivatore assiduo di un genere letterario quale è l'egloga virgiliana, falso in sè medesimo e più falso ne' suoi riflessi?

Diffidiamo; ma se invece di baloccarci fantasticando ci daremo a guardare, saremo presi da un sentimento analogo a quello da cui sarebbe colto chi per la prima volta s'accorgesse che l'autore del Convivio, del De Monarchia, del De Vulgari Eloquentia, è ad un tempo l'autore della Divina Commedia. Contemplando, siamo indotti a riconoscere che se l'Italia produsse mai un uomo a cui la materia cavalleresca potesse convenire, fu per l'appunto il Boiardo. E quest'uomo era in pari tempo un esperto maneggiatore di affari grossi e piccini. Davvero, per quanto si deva sentir ritegno a lodarsi di sè medesimi, non si può trattenersi dal notare come sia dote caratteristica dell'ingegno italiano la moltiplicità delle attitudini. Rassomiglierei questo ingegno al cubo, che, adagiato su sei facce diverse, è sempre stabile ed equilibrato ad un modo.

Erano due, come sapete, i cicli che il Boiardo si trovava dinanzi: il carolingio ed il brettone. Entrambi gli erano ben famigliari; ma a lui la schiatta e il costume signorile, e ancor più l'animo amoroso, rendevano tra i due molto più grato il secondo:

 
O gloriosa Bertagna la grande,
Una stagion per l'arme e per l'amore,
Onde ancor hoggi il nome suo si spande.
Sì ch'al re Artuse fa portar honore:
Quando e bon cavalieri a quelle bande
Mostrarno in più battaglie il suo valore
Andando con lor dame in aventura;
Et hor sua fama al nostro tempo dura.
Re Carlo in Franza poi tenne gran corte,
Ma a quella prima non fo sembïante,
Ben che assai fosse ancor robusto e forte
Et havesse Ranaldo e 'l sir d'Anglante.
Perchè tenne ad amor chiuse le porte,
E sol se dete a le battaglie sante,
Non fo di quel valore o quella estima
Qual fo quell'altra ch'io contava in prima.
 
(Orl. Inn., II, XVIII, 1-2).

Si direbbe dunque che il Boiardo dovesse correre difilato al mondo arturiano: porre in esso la scena, togliere di lì i personaggi, per quel tanto che non li foggiasse di nuovo. Invece a questo partito egli non s'appigliò punto; e anche con ciò dette prova di un criterio rettissimo. Intanto, le selve della Brettagna, per quanto vaste, erano sempre un terreno troppo angusto perchè ei ci facesse muovere liberamente il suo popolo un intelletto italiano devoto al senso del reale, e però non disposto a rappresentarsi ed a rappresentare gli spazi troppo difformi dal vero; ben altra comodità offriva il ciclo carolingio, condottosi via via ad estendere il suo dominio su tutta quanta la terra! Poi, appunto perchè gl'ideali del Boiardo venivano già ad essere attuati nella Tavola Rotonda, poco rimaneva qui a fare per una mente creatrice. E c'era una ragione anche più grave d'assai. Mentre Tristano, Lancillotto, Galvano, mantenevano non so che di aereo anche per coloro che gli avevano in maggior domestichezza, i loro rivali carolingi presentavano alla fantasia una concretezza, da non potersi immaginare la maggiore: gli uni rassomigliavano come a gente vista in sogno; gli altri parevano uomini conosciuti nella vita. Però, parlare ad italiani di Carlo, d'Orlando, di Rinaldo, di Malagigi, era un parlar loro di persone così prossime al cuore dei più, che mai non si sarebbero stancati di udirne i fatti. Nè si creda che la famigliarità con costoro, se non forse l'affetto, fosse nei signori troppo minore che nel volgo. Di ciò fornisce la prova la conoscenza che il Boiardo stesso dà a vedere incidentalmente, ora dell'una, ora di un'altra narrazione tradizionale, e quella, meglio ancora, ch'egli suppone a volte in un uditorio, che da luoghi non so quanti ci è rappresentato come essenzialmente aristocratico. Ma non voglio neppur tacere una testimonianza, istruttiva per più di un verso, fornita da documenti storici dissotterrati di recente; tanto più che essa si riferisce a una principessa estense, e propriamente a colei che tutti s'accordano nel riguardare siccome l'esemplare più perfetto di quello splendido fiore, che fu la donna del nostro Rinascimento.

98.Questi versi appartengono alla penultima stanza dell'edizione che si pubblicò dei primi due libri nel 1486: stanza omessa nelle edizioni successive.
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 ekim 2017
Hacim:
390 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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