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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892», sayfa 22

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III

Dal naturalismo così altamente inteso doveva sgorgare un'arte individuale, eminentemente soggettiva, un'arte che non procede da formule fatte, ma le desume da quel travaglio incessante che l'occhio e la mente dell'artista non ristanno mai dal proseguire. Perciò con gli aspetti della natura, l'anima dell'artista entra e si rispecchia nell'opera d'arte. Il Vinci esprimeva questo concetto fondamentale nel Trattato della Pittura in un modo che non lascia luogo al più piccolo dubbio. Per lui non solamente l'artista deve ispirarsi al proprio estro, deve conformarsi alle attitudini naturali che egli ha, ma va più oltre. Egli crede che dentro al cervello di ogni artista ci sia “un giudizio proprio„, una specie di facoltà determinata, che la natura mette a disposizione di ogni singolo artista perchè egli ritragga, in una certa guisa particolare, il mondo esteriore. “Questo tal giudizio è di tanta potenza, dice Leonardo, ch'egli muove le braccia al pittore e fagli replicare sè medesimo, parendo a essa anima che quello sia il suo modo di figurare l'uomo; e chi non fa come lei faccia errore.„ A questa individualità poi corrisponde (e ne è come la più luminosa riprova) una specie di unicità nei singoli oggetti generati dall'arte. Niente si assomiglia in arte; questo è il concetto di Leonardo. Ammira le belle e armoniche forme delle statue antiche, dà anch'egli qualche precetto, qualche suggerimento per generalizzare le proporzioni del corpo umano, e andate discorrendo. Ma finisce sempre con l'insistere sulla massima che bisogna proporzionare ogni oggetto particolare con sè medesimo. Non è mai il modello rinnovato degli antichi il quale stabiliva che un corpo umano è alto tante teste e largo tante altre. No, Leonardo invece vi dice: studiate ogni singolo corpo umano, e rilevate e trasferite nella pittura vostra quella data proporzionalità che rappresenti il carattere di quel dato corpo, come voi lo vedete, e non di altro.

Questa la gran differenza che è tra Leonardo da Vinci e Leon Battista Alberti, ed Alberto Durer e Rubens, e tutti gli altri creatori di moduli, fino agli ultimi tedeschi, che hanno voluto rinnovare questa specie di meccanismo geometrico applicato alla pittura. “La bellezza dei visi„ dice Leonardo “mai si trova essere replicata in natura, di modo che se tutte le bellezze, tutte le eccellenzie tornassero vive, esse sarebbero maggior numero di popolo che quello che al nostro secolo si trova. E siccome in esso secolo nessuno precisamente si somiglia, il medesimo interverrebbe alle dette bellezze e per questo, sommo difetto è dei pittori replicare gli medesimi moti, e gli medesimi volti e maniere di panno in una medesima istoria, e via discorrendo.„ Tutto, insomma, ciò che il pittore rappresenta, secondo Leonardo, dee avere un certo carattere di istantaneità, vale a dire vuole che sia ispirato dentro di lui da un particolare stato dell'animo, fuori di lui da una particolare visione che balzi ai suoi occhi, che impressioni i suoi sensi e che per via della mano si trasferisca nella forma elaborata. “Sempre il pittore deve cercare la prontitudine nell'atto naturale fatto dagli uomini all'improvviso e nato da potente affezione dei suoi affetti; e di quelli far breve ricordo nei suoi libretti e poi, a suo proposito, adoperarli. Finalmente la mente del pittore si deve del continuo trasmutare in tanti discorsi quante sono le figure degli oggetti notabili che dinanzi gli appariscono e di quelle fermare il passo e notarle, considerando il luogo e le circostanze, il lume e le ombre.

È impossibile, o signore, esprimere in termini più esatti gli intendimenti tecnici ed estetici della pittura di sostanza e di ambiente, quale oggi potrebbe vagheggiarla ed esercitarla ogni più progressivo animo d'artista!

Da queste premesse ideali passiamo alle conseguenze pratiche. La pittura di Leonardo è una meravigliosa testimonianza della singolarità del suo modo di intendere l'arte. Aggiungo qui di passaggio, che egli, pure essendo così scrupoloso e sincero osservatore della natura, non s'acconciò mai ad essere, come Piero di Cosimo e altri del suo tempo, a guisa del letto di un fiume che accoglie indifferentemente tutte le acque, siano esse torbide o chiare. No. Questo naturalista aveva l'istinto della bellezza e procedeva per elettissime selezioni, e tutti i suoi tipi danno, per così dire, ragione veduta della sua scelta. Le figure di Leonardo, per una grande significazione di carattere, appaiono tutte segnate del segnacolo d'una razza distinta. Forse era la studiosa e perseverante scelta del pittore, forse era l'animo suo che infondeva a quelle teste qualche cosa di singolare, che ci innamora e ci esalta, sia ch'egli ci rappresenti la deviazione del tipo umano nelle deformità sue; sia che ci allegri e turbi insieme con quei sorrisi ineffabili di donna che non somigliano a nessun altro sorriso, eppure sono tanto femminili; sia che ci impensierisca e ci commuova colla espressione mistica di certe teste, ove il sentimento del divino è reso come in nessuna altra pittura, prima e dopo, fu reso mai.

E qui dovendo esemplificare mi trovo di fronte a un fatto singolare e ben triste, o signore. Questo nostro Leonardo, del quale tanto parliamo, è un artista in gran parte inedito. Peggio ancora, egli è un artista soppresso dall'opera del tempo. Quanta distruzione ha fatto il tempo sulle opere sue! Un po' per colpa di lui che il Vasari chiama instabile e vario, che cominciava mille cose e poi le tralasciava a metà, attratto sempre da quella sua eroica inquietudine di conoscere e fare del nuovo; un poco perchè anche gli accidenti della natura e della storia hanno cospirato a suo danno, fatto sta che di Leonardo quasi tutto è scomparso. Intanto dello scultore niente possiamo dire de visu. Delle tante opere in plastica di Leonardo, che pur gli diedero, lui vivente, tanta fama che per molti contemporanei suoi egli era massimamente celebre come scultore, che resta a noi? Nulla! Il gran colosso di Francesco Sforza, con cui s'era gratificato l'animo di Lodovico il Moro, fu ben finito (non però fuso in bronzo) e inaugurato a Milano nella piazza del Vecchio Castello. Ma sopraggiungevano i Francesi di Luigi XII vincitore e invadevano Milano. Entrati i balestrieri guasconi in quel castello e visto là grandeggiare in forma di apoteosi il capo della dinastia ch'erano venuti a distruggere, naturalmente furono tratti dalla voglia di balestrarlo; e lo balestrarono, ahimè! tanto bene che il colosso andò in pezzi e non n'è più rimasto che qualche vago e dubbio ricordo in alcuni segni dell'autore, e in alcune miniature del tempo.

E anche della pittura di Leonardo da Vinci poco, ben poco rimane di conservato e di indubbiamente autentico; onde ebbe a dire un critico tedesco che non avrebbe coraggio di giurare che un palmo solo di pittura leonardesca sia arrivato fino a noi veramente intatta.

Rimane fortunatamente un'opera sulla quale, quanto ad autenticità originaria, non può cadere dubbio, benchè sia ridotta anch'essa in così misero stato che fa veramente pietà. Voglio dire il Cenacolo, che Leonardo dipinse nel refettorio di Santa Maria delle Grazie. Anche così malconcio, anche in quel suo stato quasi pauroso di larva in cui ora lo vediamo, esso ferma i nostri occhi, conquide il nostro animo, ci costringe a chinare la fronte. Pensate! Esso è la riprova ancora vivente, la riprova sintetica, eloquentissima della verità ed efficacia di tutte le dottrine che intorno all'arte Leonardo era andato predicando e praticando. Pensate ancora quanti artisti si sono cimentati in questo dramma intimo e sacro, la cena ultima di Gesù Cristo coi suoi discepoli!.. I più dei pittori scelsero quel momento in cui Cristo offre ai suoi discepoli e all'umanità tutto sè stesso nel pane e nel vino. Leonardo preferì invece di cogliere un momento meno mistico ma più naturale; e talmente naturale che noi, senza mancare di riverenza ad alcuno, possiamo anche considerare quella sua rappresentazione come una scena puramente umana. Si tratta in sostanza d'un maestro che ha raccolto intorno a sè i suoi discepoli più fidi, mentre ingrossano i tempi e la persecuzione minaccia al di fuori… Arrivato a un certo punto della cena, a un tratto egli dice: uno di voi mi tradisce. Questa frase, gettata là in mezzo ad animi semplici e devoti, produce come uno scoppio di dramma istantaneo.

Non sono più le immobili figure dei vecchi Cenacoli, colle loro aureole intorno al capo, che assistono misticamente alla mistica consacrazione. Qui abbiamo invece uomini che si sentono feriti nel profondo dell'animo dall'angoscia di sapere che c'è in mezzo ad essi un loro compagno che tradirà l'uomo che vollero seguire a ogni costo, che amano sopra ogni cosa. Non basta: tutti sentono il turbamento e l'irritazione di potersi sapere sospettati di una tanta iniquità. Se guardate a quelle dodici figure d'apostoli, ognuna vi rende questo dramma interiore con una varietà ammirabile. Il volto di Cristo ha una specie di calma costernata. Le sue labbra sono ancora semiaperte, e si capisce che le tristi parole ne sono uscite allora allora; le mani fanno un movimento di tristezza; la calma non è turbata in quel volto divino; ma una lieve increspatura della fronte ci lascia comprendere che la parte umana in lui palpita e si addolora. Tutti gli apostoli alla prima hanno avuto certamente un movimento eccentrico; poi quasi tutte le figure si protendono in avanti verso il maestro. Che varia e potente significazione psicologica in quelle figure e in quei volti! Guardate tutte quelle mani. Ognuna (dando ragione ad un famoso capitolo del Montaigne) ha un significato, un pensiero, un fremito di vita personale. Guardate tutti quei piedi. Visti vagamente sotto la tovaglia, così irrequieti e mossi in vario senso, vi completano l'idea della agitazione espressa dalla parte superiore di quelle dodici figure. Nel mezzo, solo i piedi di Cristo si mostrano queti e composti…

Giovanni nella semplicità amorosa dell'animo suo pare che dica: – Ma questo non è possibile! Di una mostruosità tale niuno di noi può essere capace! – San Pietro allarga violentemente le braccia come porta l'indole sua. È l'uomo che poi tirerà fuori il coltello e taglierà l'orecchio a Malco. Par di sentirlo gridare: – Fuori il nome del traditore! Noi vogliamo saperlo ed esser puri d'ogni sospetto. – Il penultimo degli apostoli, a destra di chi guarda l'affresco, ha un lieve torcimento degli occhi e della bocca e, parlando piano al vicino, fa un accenno… Si capisce che ha un vago sospetto di Giuda… Giuda, che incarna la bruttezza del tradimento, si volta repentinamente, come per udire le parole dell'apostolo che parla dietro di lui. Si indovina l'uomo che vorrebbe dissimulare, prendendo un contegno disinvolto; ma intanto con un movimento inconscio del gomito versa la saliera. Il sale si sparge sulla tovaglia e con questo segno sinistro di mal augurio, pare che il triste dramma venga lugubremente suggellato.

IV

Su questa grande parete, Leonardo da Vinci inaugurò la pittura nuova perchè infuse nell'arte la pienezza della vita, rivendicando insieme ad essa la più completa libertà. Lo sentirono i contemporanei; e il Cenacolo fu l'opera che diede più gloria all'artista.

Ma, parlando in genere, se egli ebbe vivendo fama grandissima, possiamo noi anche affermare che riscosse favori corrispondenti al suo merito? Non credo. Chi studia attento la vita di Leonardo, vede un intimo dissidio fra l'arte sua e lo spirito che ormai domina ne' tempi suoi. Nel grande e risolutivo andazzo che andava a prendere, l'arte italiana, la quale era salita su per tutti i gradi della preparazione e della elaborazione, ormai voleva slanciarsi. Tutti quegli artisti, già così forti nella tecnica e così pieni di fantasia, non volevano più stare alle mosse e cercavano novità. Leonardo invece si mantiene fedele all'ideale artistico della sua epoca gloriosa.

Un senso d'inquietudine trae ogni giorno più gli artisti ad un'arte frettolosa, sommaria e decorativa. Anche la Chiesa, presentendo la grande bufera che si approssima, domanda che l'arte si trasformi, che si spinga ad un fare più largo e magniloquente, come per mettere fra sè e i tempi nuovi un antemurale di bellezza spettacolosa che seduca e fermi la fantasia dei popoli. Aggiungete infine che, per la perdita della indipendenza e delle libertà locali, per l'abbassamento della moralità, per l'invasione, l'amalgama e il bastardume delle costumanze straniere, la vita italiana languiva e precipitava; e l'arte, la nostra grande arte, unica energia ormai rimasta in piedi, era costretta a colmare, ma in fretta, tutti questi vuoti, tutte queste voragini; e le vecchie forme pareva che più non bastassero. Ma Leonardo volle resistere a tutte queste correnti, e star fermo all'arte sua coscienziosa, equilibrata e casta, che era in sostanza l'arte del Botticelli e degli altri migliori di quel secolo, inalzata a una maggiore potenza. Egli volle essere, e fu in fatti, l'ultimo dei quattrocentisti e il più grande di tutti. Ma pagò cara questa gloria. Egli fu uno sconfitto, ed uscì dall'arringo come un vinto. Nella sua vita ebbe molti onori, ebbe amplissime lodi; ma però guardate: i periodi della sua vita finiscono sempre in un modo sinistro. Nel suo primo periodo Lorenzo il Magnifico, che è così largo di protezione a tutti, a Leonardo mostra, non dirò il malo animo e quasi l'odio, come colla sua alfierana fantasia ha supposto il Ranalli nella sua preziosa storia delle belle arti; ma, insomma, Lorenzo il Magnifico non tiene molto conto di Leonardo, e quando il Moro da Milano glielo chiede (se è vero che glielo chiedesse) Lorenzo lo concede volentieri, perchè tra le altre cose l'indole strana, fiera di Leonardo non era probabilmente fatta per gratificarsi l'animo di un principe che, per quanto liberale si fosse, amava però di vedere ricambiata la magnificenza del suo mecenatismo con molta sottomissione e sopra tutto con l'essere richiesto di consiglio. Voi sapete che Lorenzo amava d'andare sopra i lavori degli artisti e proverbiarli e correggerli. Diceva per esempio al giovane Michelangiolo: “Cava un dente a quel vecchio satiro„, e Michelangiolo lo cavava docile. Chi sa se Leonardo avrebbe avuto così pronta arrendevolezza?.. Io molto ne dubito; e penso che per questo egli non potè mai entrare appieno nelle grazie del Magnifico. Il suo secondo periodo è il più brillante. Alla corte del Moro egli è riconosciuto, carezzato, festeggiato; ma in sostanza l'utile fruttuoso pare che fosse scarso, se dobbiamo rilevarlo da un frammento di lettera in cui dice, in sostanza, al Moro: – Con tutti questi onori, con tutte queste commissioni io non cavo da vivere, non mi sono avanzato nemmeno quindici lire. – E il frammento chiude con una frase tristissima: “Io non voglio mutare la mia arte.„ Quanta differenza, o signore, tra questa umile e sconsolata lettera e la lettera piena d'onesta baldanza con cui Leonardo si faceva precedere nella sua andata a Milano! Allora egli diceva al duca: – Io so fare questo e questo; tutto ciò che gli altri fanno io lo faccio, e, sia chi voglia, meglio di loro. Mettetemi alla prova! – Anche questo periodo adunque, principiato bene, si chiude con una sconfitta. Leonardo dopo va errando prima agli stipendi del Valentino, poi a Firenze col Soderini. Si cimenta con Michelangiolo ed è molto onorato, perchè in questa gara di due giganti, nessuno ha il coraggio di decidere quale sia il perdente e quale il vincitore. Ma poi, allor che si viene alla esecuzione del cartone celebratissimo, nascono subito dei guai e delle contese; e noi vediamo il Soderini che comincia a non lodarsi più di Leonardo, e Leonardo che comincia a trattar male il Soderini. Insomma, anche quando è fortunato, Leonardo non consegue mai quella specie di alto dominio che esercitarono altri artisti, certamente grandi, ma forse non più grandi di lui, come Michelangiolo, come Raffaello; artisti davanti ai quali i principi e i papi stavano trepidanti, e mandavano delle legazioni per risolvere questioni sorte fra loro, e non avevano pace finchè non li vedevano attratti di nuovo nell'orbita del loro principato.

Tantochè Leonardo da Vinci negli ultimi anni è costretto ad espatriare; e, bisogna confessarlo, trovò sorte più lieta e più benigno mecenatismo in Francia che in Italia. Questo mi pare che risulti evidentemente dalla sua vita. Come già era stato liberalmente protetto da Luigi XII, fu liberalmente ospitato ed onorato, secondo i meriti suoi, da Francesco I, questo re che non fu certo un modello di buon costume, ma che col suo spirito cavalleresco seppe tanto bene farsi perdonare i difetti; e che noi dobbiamo ricordare con gratitudine. Fatto è che per invito suo Leonardo da Vinci col suo caro alunno Francesco Melzi, col suo fedele Salai va in Francia. Oltre una pensione di 700 scudi d'oro, il Re gli alloga il castello a Cloux presso Amboise; e là può il grande italiano spendere finalmente i suoi ultimi anni di vita nella perfetta quiete dell'animo e darsi intero e libero alle occupazioni predilette del suo spirito.

In Francia Leonardo da Vinci finisce i suoi giorni e li finisce pacifico e riconciliato con tutti. Se lo avevano accusato di poca reverenza verso gli antichi, egli aveva già ordinato al Platina di fargli un epitaffio in cui dice: “Io studiai gli antichi ma non potei però raggiungere la loro divina simmetria. Feci quello che potei. O posterità, siimi indulgente! Veniam da mihi, posteritas.„ E muore riconciliato colla Chiesa, con la quale, a detta del Vasari, non fu sempre in troppo buoni termini; e nel suo testamento raccomanda l'anima sua a Dio, alla Vergine e a non so quanti altri santi del Calendario. Muore riconciliato colla famiglia verso la quale aveva avuto delle liti non piccole per causa di eredità, lasciando ai suoi fratelli 400 scudi che teneva sopra un banco fiorentino.

È cosa singolare, o signore! Finalmente nel suo testamento noi incontriamo un nome di donna. Ma che i romanzieri e i poeti non si esaltino. Non si tratta della Giulia Gallerani nè della Cecilia Crivelli, nè della Lisa del Giocondo, nè della bella Ferroniera; si tratta di una certa Maturina, a cui lascia un po' di denaro e un po' di roba in cambio dei buoni servigi ch'essa gli aveva reso. È dunque il caso d'una povera serva, per giunta forse vecchia e brutta. Ecco l'unico episodio femminile, se così si può chiamare, di quest'uomo che aveva versato nelle sue tele tutte le più squisite e poetiche suggestioni dell'amore. E a me non dispiace. In fondo quella povera vecchia avrà dato all'artista, tanto combattuto e tanto travagliato, gioie e servizi umili ma preziosi, che i potenti coi loro favori, spesso in mal punto dati e sgarbatamente tolti, non gli avevano procurato mai. Lo avrà scaldato negli inverni rigidi di Cloux, gli avrà preparato il desinare, lo avrà curato, confortato, e colle sue goffaggini e facezie di vecchia serva, qualche volta forse anche rallegrato nelle ore più tristi della infermità e del tedio. E allorchè il vecchio pittore sarà morto, non Francesco primo re di Francia e Navarra, come dice la favola, ma lei, lei, questa povera vecchia avrà chiusi quegli occhi che avevano veduto tante meraviglie… Che importa? Essa glieli avrà chiusi con quel senso di schietta pietà che quaggiù inalza tutti ad un modo, perchè è l'unico attributo, o signore, divinamente dato alla nostra umanità.

L'ARTE VENEZIANA

DEL RINASCIMENTO
DI
POMPEO MOLMENTI

Correva l'anno 1495 (perdonate, o Signori, se incomincio come usava nei vecchi romanzi storici di mezzo secolo fa), correva l'anno 1495 e Filippo de Commines, ambasciatore di Carlo VIII, entrando a Venezia, esclamava ammaliato: – la più trionfante città che io abbia mai veduta! – E, in vero, dall'aprirsi del secolo quintodecimo fino quasi alla fine del XVI, la vita di Venezia sembra un trionfo. Prorompono affetti ed entusiasmi, e tutto vive in un contrasto che pare aumenti l'energia. In questo tempo appunto, fra la metà circa del quattrocento e lo scorcio del cinquecento, nasce, cresce, matura, declina l'arte veneziana. È una vita breve, rapida, piena di agitazioni e di esultanze. La pittura, fra le lagune, sboccia a un tratto quasi senza lavoro di preparazione. Nel secolo XIV, allora che Giotto compiva le sue divine opere, in Assisi e in Padova, e fino quasi alla metà del secolo seguente, i tentativi di alcuni timidi pittori veneziani non possono chiamarsi col nome d'arte.

Ma, circa l'anno 1422, la Repubblica, volendo dipingere una sala del Palazzo Ducale, chiamava Vettor Pisanello di Verona, eminente artefice, e Gentile da Fabriano, la mano del quale, al dire di Michelangelo, non facile lodatore, era gentile come il nome. Durante la loro dimora fra le lagune essi segnarono un avanzamento nell'arte, ed esercitarono una azione efficace sulle opere dei primi artefici veneziani, specie del Vivarini.

Dopo aver dipinto, in Palazzo Ducale, la battaglia navale presso Pirano, tra l'armata veneta e quella del Barbarossa, Gentile da Fabriano partiva per Roma, accompagnato da un giovane pittore veneziano, Jacopo Bellini. Della vita di Jacopo poco o nulla si sa; il Vasari si limita a dire, che, ritornato in patria, egli era nella sua professione il maggiore e più reputato.

Del resto, di quasi tutti quegli artefici, che espressero il sentire profondo della giovane arte veneziana, ci è sconosciuta la vita. Prima della gran luce di Tiziano, quei casti ingegni non viveano se non per l'arte, dimenticando ogni cosa, non d'altro desiderosi che di farsi dimenticare.

Il nome di Jacopo Bellini è menzionato più per essere stato padre di Gentile e Giovanni che per le opere sue. A torto, perchè egli veramente segna l'alba di quella pittura, che sbocciò subito dopo, tutta fiori, odori e colori. A rendere in breve tempo splendida e rigogliosa quest'arte, contribuirono l'ordinamento politico, la postura della città e l'indole degli abitanti.

L'onnipotenza dello Stato teneva unite e dirigeva le forze della nazione, e ora le spingeva a creare la libertà e ad arricchire la patria, ora, distraendole dalla politica, le rivolgeva a trasformar la città in tempio dell'arte.

E intorno a quest'arte ricorreva, come nimbo glorioso, la natura circostante, con tutto il fascino di una bellezza incomparabile. Qui pare abbia più incanti la luce del sole, più dolcezze melanconiche il tramonto. I vapori dell'aria tolgono ogni rigidezza di contorni alle cose e le immergono come in un'onda eterea; i mille strani sbattimenti delle acque, i miraggi di madreperla degli orizzonti lontani, i dorsi di sabbia che s'alzano dalla laguna e rifulgono di tinte dorate, s'intrecciano in un'armonia stupenda, dove, senza eccesso e senza volgarità, l'azzurro e l'arancio si uniscono, e il violaceo si congiunge al giallo, e lo smeraldo al giacinto, e il diaspro

 
par che si mischi in flessuosi amori
con l'ametista.
 

Chi nasce in quest'aura ed abbia il senso dell'arte è naturale debba comprendere tutte le ricchezze e le gioie del colore. Venezia è veramente la reggia del colore. E per questo appunto nell'arte veneziana incontriamo pochi nomi di statuari eminenti, e anche questi architetti e decoratori, come i Delle Masegne, il Buono, il Rizzo, i Lombardo, il Vittorio, i quali tutti seppero trarre dalle due arti ornamenti svariati e leggiadri. Gli architetti violavano ogni regola, sfuggivano la simmetria, e raggiungevano l'armonia, trasportavano, negli edifizi delle lagune, la poesia fastosa dell'Oriente, emulando con le seste il pennello. E infatti le pietre, con le loro armonie di colore, servivano di tavolozza e sulle facciate dei palazzi brillavano il porfido, il serpentino, il verde antico, la breccia, il broccatello. Ecco forse perchè qui, più che altrove, tardò a comparire, sulle tavole e sulle tele, la pittura, che avea agio di manifestarsi nell'accordo dei marmi variopinti. Anche si dipingevano i prospetti. Quando il Procuratore Contarini ordinò a Giovanni Buono la facciata della casa, chiamata d'Oro, non già per aver appartenuto alla famiglia patrizia Doro, ma per le dorature di cui era adorna, fu fatto il contratto il 30 aprile 1430. Compiuta la facciata, che, nonostante le offese del tempo, ride ancora di una immortale bellezza, fu chiamato mastro Giovanni di Francia, per ornarla de pentura. Come dovea allora apparire quel gioiello della veneta architettura! Maestro Giovanni s'impegnava di dorar le rose, gli stemmi, i leoni, gli archetti, il fogliame dei capitelli e i dentelli, dipingere le tresse dazuro oltremarin fin ben dopiado per muodo che i la stia benissimo. Le merlature doveano essere dipinte con biacca e venate a guisa di marmo; le fascie bizantine a tralci di vite, tinte di bianco su fondo nero, e tutte le pietre rosse e tutte le dentade rosse sia onte de oio e de vernixe con color che le para rosse.

Passando pel Canal Grande, e ammirando la Cà d'Oro e i palazzi dipinti dai migliori maestri dell'arte, poteva bene Filippo de Commynes esclamare: – C'est la plus belle rue que je croy qui soit en tout le monde. —

Dodici anni più tardi, sul Fondaco dei Tedeschi, dipingeano a fresco Tiziano e Giorgione. A Giorgione furono dati 150 ducati dell'opera sua, in cui ebbe a cooperatore, per gli ornamenti, il Morto da Feltre, il quale, secondo una leggenda, abbellita dal verso, rapì l'amante al maestro ed amico, che ne morì di dolore. Ma il Vasari attribuisce la morte di Giorgione a un male più prosaico.

Quanta forza e quanta efficacia ha sull'indole umana la qualità del luogo dove si nasce! E come le persone e le vesti dei veneziani si accordavano, in quei tempi, con la vita festante, coll'architettura fantastica, colle trasparenze opaline dell'aria, coi riflessi delle acque! Una vecchia cronaca dice che, nel 1433, a Venezia, più di seicento donne andavano fuori di casa vestite di seta, oro, joje, che è una maestà vederle. Le belle veneziane ci appaiono vestite di broccato d'oro, di velluto ricamato d'argento, di tela a fiorami dai più vaghi colori, col breve busto fregiato di gioielli e le spalle ignude, adorne di perle, di gemme, di diamanti, di monili, di oggetti d'oro e d'argento. Una Contarini, sposa a Jacopo Foscari, l'infelice figlio del Doge, avea nel corredo, tra molte vesti di seta, un abito di broccato d'oro con maniche piccole: un altro in campo d'oro ricinto di cremisi con maniche aperte, foderate di vaj, con la coda di un braccio e mezzo; un terzo di panno in campo d'oro e paonazzo foderato d'ermellini: un quarto con maniche cadenti a terra, dette arlotte, d'ormesino broccato, e via via. La donna veneziana non rivive nelle pagine degli storici e dei poeti, ma palpita ancora nelle tele degli artefici come a traverso una gaia fantasmagoria di colori. La ricerca e la femminile brama di tutto ciò che splende e brilla erano portate qualche volta all'eccesso. Non bastarono alla donna le vesti a tinte audaci, ma si voleano ravvivar col belletto i pallidi colori delle guancie. E perfino, perdonate all'osservatore del passato questo strano particolare, perfino si colorivano le mammelle, che le vesti oltremodo scollacciate non lasciavano ignorar allo sguardo. Un poeta popolare del cinquecento scrive:

 
Fazzandose le tete rosse e bianche
E descoverte per galantaria.
 

E i capelli si tingevano in biondo, il colore, che, sui bei capi femminili, stacca come un'aureola dorata sul fondo dei canali oscuri, delle viuzze buie, dei bruni palazzi. Cento ricette, una più curiosa dell'altra, esistono per dare la tinta e la lucentezza dell'oro alla chioma. Vedete bizzarrie delle mode, che hanno i loro ritorni, come le civiltà di Vico! Per rasciugare i capelli tinti, le donne si esponevano al sole sopra i tetti delle case, in una specie di loggia scoperta, chiamata altana, e là sedevano vestite di tela leggera con in testa un cerchio di paglia finissima a foggia di tesa di cappello, detto solana.

Ricche e variopinte anche le vesti degli uomini. I patrizi, secondo i vari uffici e le solennità, andavan vestiti di raso, di velluto, di zendado cremesino, di broccato d'oro. Nell'inverno, gli abiti, con ricami di cordoni d'oro e d'argento, si foderavano con finissime pelli di gran prezzo. Elegantissimo il costume dei Compagni della Calza, brigate di gentiluomini uniti nell'intento di dare feste, tornei, spettacoli d'ogni maniera. Si chiamavano della Calza, perchè portavano sugli stretti calzoni un'impresa a colori. I giubberelli attillati di velluto, di seta, ricamati d'oro e stretti da un cingolo, avevano le maniche tagliate per lo lungo e riunite da nastri, che lasciavano scappar fuori gli sbuffi della camicia. Le calze strette a striscie colorate longitudinali, le scarpe forate in punta, su le spalle un mantello di panno d'oro, di damasco o di velluto cremesino, con un cappuccio sulla cui fodera era ricamata l'impresa della Compagnia. Di sotto a un berretto nero o rosso, ornato in punta da un gioiello e pendente sull'orecchio, scappava la chioma, allacciata da una fettuccia di seta.

Nelle feste religiose e civili, nelle incoronazioni dei dogi e delle dogaresse, nei ricevimenti di re e di principi, nel commemorar vittorie, nelle nozze, perfino nei funerali, sempre e dovunque il trionfo del colore, un poema di magnificenze.

Nei palazzi, i ricevimenti, i banchetti, gl'inviti, i festini doveano sembrare mirabili fantasmagorie. La luce dei doppieri faceva scintillare le pareti ricoperte d'oro, d'arazzi, di specchi di Murano, i velluti e le sete d'ogni colore, le splendide gemme. La magnificenza patrizia scendeva dai palazzi alle vie, dove la città s'agitava felice, gioiosa di contemplarsi ed ammirarsi. Sulla piazza e sulle strade passavano le gentildonne colle vesti più magnifiche del mondo; i patrizi nelle loro splendide toghe come, osserva un viaggiatore tedesco del quattrocento, se fossero tanti vescovi; i levantini dalle fogge variopinte e bizzarre.

Un altro viaggiatore, il milanese Casola, che, nel 1494, fu presente alla processione del Corpus Domini, sulla piazza di San Marco, non trova parole per descrivere i gentiluomini vestiti di aurei drappi e di velluti, la ricchezza degli addobbi, la profusione dei fiori, la quantità dei ceri, la varietà dei colori. Gl'ingressi dei Procuratori, dei Patriarchi, dei Cancellieri Grandi, ecc., parevano trionfi. E trionfi si chiamarono le incoronazioni dei Dogi e delle Dogaresse – affascinanti splendori di tinte.

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12+
Litres'teki yayın tarihi:
28 ekim 2017
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