Kitabı oku: «La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892», sayfa 4
È davvero inconcepibile come in mezzo a tanto rinnovamento di studi e gentilezza di coltura le donne parlassero lo sboccato linguaggio che loro attribuiscono gli autori di commedie e i novellieri. Il Boccaccio è di gran lunga più riguardoso. Nelle Cene del Lasca, troviamo narrata da una donna, Amaranta, e con minutissimi particolari, la sconcia beffa fatta da un giovine ricco e nobile al suo pedagogo, ed essa è tale che nessuno artifizio di stile potrebbe farmi lecito di raccontare. E quella del Lasca a sentirlo era compagnia che sapeva di greco e di latino. Dicono: erano più sinceri di noi. Ma, astrazion fatta della morale, la verecondia è più una grazia che una virtù, ed è grazia sopratutto di gente colta. Nè Virgilio, nè Orazio, nè Catullo, nè Ovidio, nè lo stesso Giovenale, potevano apprendere a quelle dame ed a quei cavalieri somiglianti modi, onde è lecito sospettare che la vantata coltura fosse meno diffusa di quanto si crede, sicchè la gentilezza dei pochi nulla potesse contro la rozzezza dell'universale. Ed è certo poi che fra i meno colti, era il mio signor Castellano. Il quale, venuta la sera, si riduceva accanto al fuoco, in sonnacchioso silenzio, e le donne fatte alcune lente danze al dubbio chiarore delle fumose lucerne, prima novellavano alquanto fra di loro, indi infilavano in cerchio pater noster ed ave Marie, ed il cappellano dava loro lo spunto. Poi i valletti mescevano al signore il vino del sonno, e Madonna e Messere ognuno dalla sua ed in diversa e servile compagnia andavano a letto.
E a me non rimane che augurare tranquille notti a quei morti, e gioconde giornate a questi vivi.
LA VITA PRIVATA DEI FIORENTINI
DI
GUIDO BIAGI
Signore e Signori,
Quale fosse la Firenze del Tre e del Quattrocento non è facile immaginare. A riguardarla dall'alto, da uno di quei colli che le fanno ridente corona e oggi son per lei mutati in altrettanti giardini, mentre forse allora nereggiavano d'alberi folti, di macchie e di scopeti, appariva come una bruna massa di torri merlate, cinta di mura e di baluardi. I pubblici edifizi che noi ammiriamo, le aeree cupole delle chiese, i campanili, nella cui voce è il palpito della vita d'un popolo, non ancora drizzavansi tutti nel fondo azzurro del cielo, come le antenne poderose d'una nave a più alberi. La terza cerchia, quella istessa che noi vedemmo abbattere, non era interamente compiuta, e l'Arno faceva il suo gorgo dove è ora la Piazza di Santa Croce, sboccando tra il Ponte a Rubaconte e il Castel d'Altafronte.
Questo a' primi del Trecento, quando la piccola chiesa di Santa Reparata durava tuttavia e di Santa Maria del Fiore era ignoto il nome; e nel luogo dove sorse la Loggia d'Orsammichele tenevasi il mercato delle granaglie, e il campanile cominciato da Giotto e che da lui prese il nome, non era ancor stato condotto fino alle ultime finestre da Francesco Talenti: soltanto di sulla torre del Palazzo dei Priori, già la grande campana del Popolo, “la Vacca„, mugliava, facendo in alto echeggiare il dolce suono della libertà1.
Le miniature del Biadajuolo, raffresco del Bigallo, appena ci danno un'idea della Firenze di quegli anni. Sono rappresentazioni fantastiche, dove la prospettiva è ancora ignota, e i tetti di color rosso vivo staccan di tono dalla selva delle torri che s'intrecciano e si accavallano. La tavola di Domenico di Michelino, che si vede in Duomo, vorrebbe mostrarvi la Firenze di Dante, la cui figura spicca nel mezzo del quadro; ma anche cotesta è una Firenze immaginaria, quanto il Purgatorio e l'Inferno che l'artefice le ha dipinti da presso. Una veduta della città, ma assai più recente, troviamo nella tavola che il Botticelli compose per Matteo Palmieri; una tavola, il cui soggetto tolto dal poema di lui la Città di vita, parve quasi ereticale; perchè il pittore, dipingendo la Vergine Assunta nella gloria del cielo, circondata dalle più sublimi visioni dell'idealità femminile, creò schiere di angelesse così formose, da far giustamente temere per i futuri amori degli angeli. Ma il paesaggio che serve di sfondo alla meravigliosa composizione, sfuma nella lontananza e nell'ombra d'un crepuscolo dorato, e al desiderio nostro non giova. Il quale potrà soltanto appagarsi più tardi, quando nelle Cronache di Norimberga scorgeremo una pianta della città quale era alla fine del Quattrocento.
Ma a rappresentarci Firenze dal Trecento a' più gloriosi giorni del Rinascimento, quando i tesori raccolti in tutto il mondo da' suoi mercatanti versò nella creazione di monumenti immortali, proseguendo le tradizioni delle arti inaugurate per mano di Arnolfo, di Giotto e dell'Orgagna2; a rappresentarci lo scenario e la scena ch'io vorrei popolarvi con le figure d'artieri, di mercanti, di donne, di chierici, di trecche, di poeti, di novellatori, d'uomini d'arme, di forosette, di villani, di donzelli, di cavalieri, che mi s'affollano nella lanterna magica del cervello e che vorrei potervi dipingere in questo quadro della vita privata; a darvi un'idea viva se non compiuta, a darvi come una visione della storia del nostro popolo, che dalla rozzezza antica si condusse ai raffinamenti della Rinascenza, non basterebbe tutta l'opera d'un artista che fosse insieme storico, archeologo e poeta; non basterebbe – Dio ci liberi! – un corso intero di conferenze ideali, fatte con la parola e illustrate con il pennello. Ma finchè la donna, che ne è maestra, non abbia reso obbligatorio l'insegnamento per gli occhi dovremo contentarci di saggiare appena un così gustoso argomento, scegliendo nei vecchi libri di ricordanze, nelle cronache domestiche, nei carteggi, nei novellieri e nei poeti qualche particolare men noto, qualche aneddoto, qualche notizia che ci sembri meglio opportuna, per cogliervi alcun aspetto della vita in quegli anni, così remoti anche dalle nostre immaginazioni.
I
Accanto ai massicci palagi di pietra, sicuri come fortezze, su cui si levavan fiere le torri merlate; nelle vie strette e tortuose dove la grand'ombra di quelle moli incombeva triste e paurosa, sorgevano le casette piccole e basse, con il tetto coperto di paglia, con le impannate alle finestre, con le grosse imposte di legno, sempre esposte ai pericoli del fuoco; onde Paolo di Ser Pace da Certaldo consigliava tener sempre pronte “dodici saccha grandi buone per sgombrare quando fuoco fosse ne la vicinanza tua o presso a te o a casa tua„ e uno “canape che sia lungo dal tetto in terra per poterti calare da ogni finestra„3. Le vie, piene di polvere, eran spazzate dall'acqua che correva come un fiumicello4 dentro e fuori il rigagnolo, dove s'ingrufolavano, scrive il Sacchetti, quegli animali che sant'Antonio avea in i protezione, ed entravan poi nelle case altrui a portarvi il disordine e lo scompiglio5. Nè quelle case erano un modello di pulizia: si spazzavano una sola volta la settimana, il sabato, e negli altri giorni le immondezze si cacciavano sotto il letto, dove era d'ogni cosa un poco: bucce di frutta, torsoli, ossa, pelli scorticate, polli vivi, oche gracchianti e abbondanza di ragnateli. Erano modeste dimore di gente che si contentava del poco e più che ai conforti e godimenti della vita badava ai guadagni: gente antica, se di buona stirpe, che passava la vita uccellando e cacciando piuttosto in contado, nelle proprie tenute, che in città; gente nuova che nelle arti e nella mercatanzia cercava far la roba. L'avolo di Messer Lapo da Castiglionchio, che avea sua abitazione in sulla porta di Messer Riccardo da Quona, là dalle Colonnine, usava far serrare la porta della città a una vecchia serva, buona e lealissima, che glie ne riponeva le chiavi nella sua camera6.
Firenze intanto cresceva man mano che aumentava la proprietà de' cittadini. Le vecchie case di legno o coi tetti di paglia eran spesso distrutte dal fuoco. Tutta la città si commoveva e tutta la gente, ad ogni incendio che divampasse, era sotto l'arme e in gran guardia7. Anche la Signoria, per abbattere con minor spesa le case dei condannati, usava darle alle fiamme e poi pagare i danni degl'incendi che si propagavano8.
E come incendi avvampavano le passioni: le vendette, le risse, le turbolenze tingevan di sangue le vie; e le paci tra gli avversi consorti si celebravano con feste e conviti. Il Comune “fiero e in caldo e signoria„ raddoppiava le forze; e debellati i nemici esterni, “i mercanti della città vincitrice guidavano, nuova maniera di trionfo, i loro muli, carichi de' panni di Calimala e delle seterie di Por Santa Maria, attraverso a' monti e a' piani poc'anzi battuti dalle cavalcate e da' soldati de' loro eserciti; portavano l'oro e l'ingegno fiorentino nelle città, sotto alle cui mura avevano ondeggiato, fra le armi, le libere insegne di questo popolo grande„9.
II
Mercato vecchio era il cuor di Firenze; e pareva allora la più bella piazza del mondo10. Chi ne legga le lodi nel capitolo di Antonio Pucci, chi ne cerchi i fatti di cronaca quotidiana nelle novelle di Franco Sacchetti, può avere un'imagine di quella vita cittadina che si contentava di così piccola scena. Quello, il vero emporio d'ogni commercio, il ritrovo de' bottegai, de' commercianti, degli oziosi, de' giuocatori, de' villani, de' medici, degli speziali, de' malandrini, delle fantesche, de' gentiluomini, de' poveri, delle trecche, dei rivenduglioli, delle brigate allegre e spendereccie. Quivi robe d'ogni genere e sorte: le carni fresche, le frutta, i formaggi, i camangiari, l'uccellame, i pannilini, la cacciagione, i fiori, le stoviglie, le botti, la mobilia usata. I monelli, anche allora terribili, vi stanno come in casa loro: i grossi topi vi fan carnevale; la gente vi trae da ogni parte. Ogni giorno si leva qualche romore: un cavallaccio s'imbizzarrisce per una ronzina, e tutti gridando accorr'uomo, la Piazza de' Signori s'empie di fuggiaschi, serrasi il Palagio, armasi la famiglia, anche quella del Capitano e dell'Esecutore, e questi per la paura nascondesi sotto il letto, e, quetato il tumulto, n'esce fuori coperto di ragnateli; due muli beccati da un corvo cominciano a tempestare; saltan sui deschi, si serrano le botteghe e nasce grande contesa fra i lanaiuoli e i beccai per i danni fatti da quelle bestie furiose.
Ma talvolta accadono anche serie questioni: i barattieri, tenitori di giuoco, vengono alle mani:
E vedesi chi perde con gran soffi
Bestemmiar, con la mano alla mascella
E ricevere e dar di molti ingoffi.
Ed allor vi si fa con le coltella,
Ed uccide l'un l'altro, e tutta quanta
Si turba allora quella piazza bella.
Si rinnova la scena raffigurata in un affresco del monastero di Lecceto, vicino a Siena. I tre dadi caddero sulla tavola in modo che un de' giuocatori è perdente. Egli sorge in piedi, esacerbato da quel colpo dell'avversa fortuna, e afferra il vincitore per la gola, stendendo il braccio. E l'altro, fattosi pallido per l'ira e lo spavento, si cerca indosso l'arme vendicatrice. La bestemmia prorompe sui labbri de' contendenti; le grida degli astanti, delle donne, de' fanciulli echeggian paurose: “Accorr'uomo, accorr'uomo!„ – La folla indietreggia sbigottita, e quando l'Esecutore arriva – sempre tardo – co' suoi famigli, la vittima è a terra, distesa in un lago di sangue.
III
Questi i drammi, i “fatti diversi„ d'allora, che turbavano la pace della semplice vita di quei nostri bisavoli. Perchè, la novella borghese, che tenea l'ufficio delle odierne gazzette, rare volte ci narra queste scene crudeli. Piuttosto si piace di raccontarci le beffe, le burle, onde allegravasi il popolo motteggevole; perenne argomento di queti ragionari, al canto del fuoco, presso gli alari dei grandi camini, sotto la cui cappa annerita raccoglievansi le famiglie, prima che sonasse l'ora di spegnere i lumi, quando chi andava a letto “il sezzaio11 erasi accertato fossero ben turate le botti„ e “l'uscio e le finestre serrate„.
Non parea vero di ridere, di scordare le paure dell'oltremondano, onde gli spiriti erano stati depressi: e già l'incredulità de' nuovi tempi cominciava a metter fuori le corna, burlandosi de' cherici, e un tantino de' miracoli e di molte altre imposture. I motteggiatori, i burlevoli, che d'altrui si prendevan sollazzo e cercavano gabbare il prossimo e il mondo, si dicevano “nuovi uomini„ e “nuove cose„ le loro malizie. I deschi e le botteghe di Mercato Vecchio, i fondachi di Calimala, le loggie che sorgevano allora presso i palagi, dove la gente stava sui banchi a conversare, echeggiavano di fresche risate argentine; cui rispondevano i crocchi femminili, bisbiglianti sulle porte di casa. Gli artisti, o come li chiamavan gli artefici, erano i più sottili architettori di coteste burle ingegnose, immaginate fra una pennellata e un colpo di stecca. E ne durò la memoria molti anni, tanto che il Vasari parecchie ne raccolse nelle sue Vite, di quelle che i novellieri non avevan consegnate alle lor cronache cittadine.
“Sempre fu che tra' dipintori si son trovati di nuovi uomeni„12 scrive il Sacchetti; e Bonamico Buffalmacco immortalato nel Decameron, e Bartolo Gioggi, e Bruno di Giovanni, e Filippo di Ser Brunellesco e Paolo Uccello e Donatello, ci fan tornare a mente le burle fatte a Calandrino, al Grasso legnaiuolo, e a tanti altri che furon vittime di così spietati begliumori13. Ma la voglia matta di ridere e sollazzarsi, s'appiccicava anche alla gente più grave; e dalle botteghe degli artefici entrava in quelle degli speziali, e attaccavasi a' medici, a' giudici, a' procuratori, e saliva in Palagio a rallegrare i Priori della malinconia di star chiusi, lontani dalla moglie e dalla famiglia. – Semplici uomini e semplici costumi, che ancor sapevano della rozzezza antica: la Signoria dormiva in una camera sola, e ciò era incentivo e occasione agli scherzi14; e il proposto dei Priori poteva andare in persona alla cucina a cuocersi sulla brace una fetta di carne15. La burla, lo scherzo rasentava talora la truffa; ma una buona risata dava torto a chi aveva avuto colle beffe anche il danno, e tutti pari. Perchè a quegli anni, quand'ognuno pensava a sè, a' casi proprii, al proprio interesse, la gente non aveva pietà o compassione pei gonzi. Le più sottili malizie erano anche permesse ai mercanti, e quei di Firenze eran famosi per la gran furberia.
Racconta il Sacchetti quel che intervenne ad un Friulano, che aveva nome Soccebonel, e che andò a comprare panno da un di costoro. Ne misuran quattro canne, e il fiorentino glie ne mangia una mezza. Poi, per ricoprire l'inganno, gli dice: “Vuo' tu far bene? attuffalo in una bigoncia d'acqua, e lascialo stare tutta la notte, sì che bea bene, e vedrai poi panno ch'el fia.„ – Soccebonel così fa, e poi manda il panno al cimatore. “Soccebonel va per esso e dice: Che dei tu avere? Dice il cimatore: E' mi par nove braccia: da' nove soldi. Dice costui: Come nove braccia? oimè! che di' tu?„ Lo rimisurano; ma il panno non cresce. Soccebonel va dal ritagliatore, va di qua, va di là. E uno gli dice: “Questi panni fiorentini non tornan nulla all'acqua.„ “Uno comprò un braccio di panno fiorentino, e la sera l'attuffò, come tu facesti questo, in un bigonciuolo d'acqua, e lasciovvelo stare tutta notte; la mattina, lo trovò tanto rientrato, che non c'era più nulla„16.
IV
Ma i codici de' mercanti, chi li cerchi e li legga tra la polvere degli archivi e delle librerie, paiono disdegnare simili imbrogli. In quelle carte che cominciano tutte “al nome di Dio amen,„ piene di “buoni asempri e buoni chostumi e buoni proverbi e buoni amaestramenti„, troviamo precetti teorici ispirati alla più rigida e severa moralità. Scrive un di cotesti savi: “Tieni a mente quando ài a dare alchuna sentenzia di darla diritta, e leale, e giusta, e di questo non ti rivolgere mai nè per prezzo, nè per amore, nè per paura, nè per parentado, nè per amistà, nè per compagnia…„, perchè la persona “contro cui la darai fia tuo nemico e quei cui tu servirai non t'avrà nè per leale, nè per diritto, anzi si guarderà sempre di te e vitupereratti sempre.„ Ma subito, più sotto, leggiamo: “S'hai bisogno in piato o in altro tuo fatto dell'amistà d'alcuno signore o di rettore di terra, – ti dico che co' presenti s'acquista molto agevolmente. Guata chi è di sua famiglia, più suo segretario e con quel cotale prima ti domestica, e dona a lui alcuna cosa, e poi a lui chiedi aiuto e consiglio ed e' t'insegnerà a venire in amore del suo signore e presentargli quella cosa di che e' sentirà che sia più vago„17.
E non basta; la morale pratica porge ancora più opportuni consigli: “Quando comperi biada, guarda che non ti sia empiuta la misura a un tratto, che sempre ti calerà 2 o 3 per cento; e quando vendi il fa', e cresceratti la tua biada„18. – “Di' sempre bene di quelli che reggono il Comune. Sta' sempre bene co' tuoi vicini, però che de' tuoi fatti e' sono sempre domandati prima di te, e negli onori e ne' disonori e' póssonti molto nuocere e giovare.„ E così consigliavano e ammaestravano i figliuoli, che crescevano destri ed esperti e consumati nell'arte del saper vivere, fra mezzo a gente che della vita conosceva le malizie e gl'inganni. Nè è meraviglia che un predicatore, per far gente e non parlare al deserto, annunziasse voler proclamare dal pergamo che l'usura non è peccato19, anzi “è sovvenimento„, e così avesse tutta la quaresima “infino a Domenica dell'olivo„, attento e affollato uditorio.
La famiglia che allargavasi e alleavasi nella consorteria, aveva unico fondamento la proprietà, guarentita da una selva di leggi e privilegi. Il padre era padrone dispotico de' beni personali: poteva lasciarli a chi meglio volesse, anche a' nipoti o ad alcun luogo pio20, anche ai figli dell'amore cresciutigli in casa. Così per testamento: e si comprende di colpo l'importanza che aveano allora i notari ed i chierici. Le donne, succedendo ab intestato, avean soltanto diritto al quarto de' beni dei loro figliuoli: in ogni caso, ai semplici alimenti. Tutto cospirava a preservare l'integrità del patrimonio, ad impedire che uscisse fuori della famiglia, della consorteria, del comune.
Giova ripeterlo: l'interesse, in quella società di mercanti, avidi di far la roba, era d'ogni azione legge suprema. Sarebbe ingiustizia cercarvi le sentimentalità della famiglia moderna, in cui alla donna è riserbato così larga e così nobile parte, così degni e teneri uffici.
Quelle povere madri fiorentine dovevano starsi contente alle modeste ingerenze consentite loro dalla tirannia de' mariti, e vivere, o menar la vita, nell'uggia delle sordide case, allevando i figliuoli, “vicitando„ la chiesa, e confessando a' frati i molti peccati di desiderio.
Le fanciulle, le ragazze che oggi ci dan tanta pena, nemmeno dovevano imparare a leggere: “S'ella è fanciulla femmina, ponla a cuscire e none a leggere, che non ista troppo bene a una femmina saper leggere, se già non la volessi far monaca„21. I monasteri erano, come furono molti secoli, il rifugio di coteste meschine, com'eran la provvidenza delle troppo numerose famiglie. Aver venti e più figliuoli, parea la cosa più naturale del mondo; se campavano: “Iddio n'abbi lode e grazie„; se morivano: “Di tutto sia lodato Iddio, amen„22. I libri di ricordanze, le cronache domestiche, al tempo delle grandi morie, registrano così le morti come le nascite con una serenità che oggi, alle trepide madri, sembrerebbe cinismo. E anche ci porgono testimonianze preziose di fatti più singolari, dell'intrusione nelle famiglie d'un nuovo elemento, che ne offusca la vantata purezza. I critici più benevoli ne trovano la ragione nel “gran vuoto fatto dalla mortalità nelle plebi cittadine e nei campagnuoli„, onde non bastando “la lusinga del poco salario„ a cavare dal popolo i domestici e le fantesche, “fu d'uopo cercare nel commercio esterno la maniera di supplire alla loro rarità„23. Ma piuttosto i commerci con l'oriente, e la vita randagia de' mercatanti e la cresciuta ricchezza, furono eccitamento a quel traffico degli schiavi e delle schiave, che durò in Firenze per ben due secoli dopo il XIV24. È un tasto doloroso che pur dobbiamo toccare, a rischio di cavarne alcuna nota stridente; ma anche in un quadro son necessarie le ombre per concedere maggior risalto alle figure cui si vuol dare evidenza e rilievo. – Ma non temete! anche un artefice inesperto non dimentica il “fren dell'arte„; nè vorrei io, dinanzi a voi, empir la breve mia tela con una mostra impudica di nudità.
Le schiave orientali, comprate, come carne da traffico, quasi sempre a mezzo di sensali genovesi, veneziani, pisani e napoletani, e per lo più tartare, greche, turche, schiavone e circasse, non erano – rassicuratevi – archetipi di bellezza. I registri dove i nostri segnavano, insieme coi nomi, con l'età e con il prezzo, i connotati del volto e della persona25, ce ne fan fede. Quasi tutte avean pelle olivastra, sebbene si trovassero anche schiave di carnagione rossa, sanguigna, rubiconda e qualche volta fin bianca. E sul viso non mancava mai alcun segno particolare: chi era butterata, chi l'avea sparso di moltissimi nèi, chi sfregiato da qualche cicatrice. I nasi eran generalmente schiacciati, i labbri grossi e sporgenti, gli occhi scerpellini, le fronti basse e lentigginose26. E a questi tocchi in penna de' notai pedanti e minuziosi, corrispondono alcuni ritratti che ne rimangono. Un curioso libro, il Memoriale del Baldovinetti, dove codesto antenato del famoso pittore usava illustrar con figure le sue ricordanze, ci ha conservato i profili delle tre schiave da lui comprate negli anni 1377, 1380 e 1388; la “Tiratea overo Doratea tartara da Rossia, giovane di 18 anni o più„, la “Domenica, è de pelle bianca ed è de proxima de Tartaria„, e la “Veronica giovane di 16 anni„, “comperála quasi ignuda da Bonarota di Simone di Bonarota,„ un antenato di Michelangiolo; ma la Dorotea, la Domenica e la Veronica avrebber potuto benissimo – un po' invecchiate – servir di modello al futuro Buonarroti per le Tre Parche.
Coteste donne, o brutte o belle che fossero, entravano nelle famiglie de' Fiorentini ricchi per attendere ai più umili uffici, e badare ai bambini: e davano un gran pensiero, per ogni conto, alle povere massaie. Il sonetto del Pucci “le schiave ànno vantaggio in ciascun atto. E sopra tutte l'altre buon partito,„ ce ne spiega maliziosamente alcuna ragione, e ci dice che spesso sapean dare alle padrone “scacco matto„. Le quali, come confessava parecchi anni appresso l'Alessandra Macinghi, si vendicavano col metter loro “le mani addosso„. Pure anche allora non potean farne a meno: erano le bambinaie e le bonnes di quei tempi; e la Strozzi scriveva al suo Filippo in Napoli: “E pertanto ti ricordo el bisogno; che avendo attitudine averne una, se ti pare, tu dia ordine d'averla: qualche tartera di nazione, che sono, per durar fatica, vantaggiate e rustiche. Le rôsse, cioè quelle di Rossia, sono più gentili di compressione e più belle; ma a mio parere sarebbon meglio tartere„. Nè per questa scelta potea Madonna Lessandra trovar chi più di Filippo avesse la mano felice: il quale presso di sè tenea da vario tempo una schiava “che sapeva così ben fare„27, di cui essa il 7 aprile 1469 aveagli scritto: “Avete costì Andrea e massime Tommaso Ginori, che venne el dì della Pasqua e me n'ha detto molte cose… e così della Marina, dei vezzi che ella ti fa„. E un anno appresso, con accento piuttosto ironico: “Mandávi gli sciugatoi… fatene masserizia che non si perdino; che madama Marina no' gli mandi a male„. Dove vediamo che con i vezzi e le astuzie sapevan coteste donne cattivarsi i padroni e diventar madame, e meritarsi, come appunto cotesta Marina, la libertà e per “le buone fatiche et buoni portamenti„28, alcun'assai liberale disposizione testamentaria.
Meno male: peggio quando, come accadde a Francesco Datini, le cui beneficenze verso i Pratesi non fan dimenticare le gravi colpe ch'egli ebbe verso la moglie, – peggio, quando cotesto trafficato sangue di tartare e di russe si mescolava con quelli, sin allora schietti, delle antiche e libere stirpi!