Kitabı oku: «La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892», sayfa 7
XII
Tre anni appresso, nel giugno 1469, le nozze sfolgorate, da vero principe, di Lorenzo dei Medici con Clarice Orsini, che riuscirono una pubblica festa, un vero carnasciale. “Tu felix, Florentia nube!„
Non c'indugeremo a descriverle, sulla traccia dell'informazione che ne dette Piero Parenti a Filippo di Matteo Strozzi, suo zio materno, che allora stava in Napoli, ed è il fondatore del bel palazzo di Firenze, monumento della grandezza di questa famiglia. Quei conviti, quelle magnificenze ponevano in grave impaccio le gentildonne che vi erano invitate e dovevan comparirvi, secondo la dignità della casata, con robe e cotte di broccato di gran valuta. Mentre il “Babbo„ era “a Napi„75, come aveva imparato a balbettare il piccolo Alfonso, figlio di Filippo Strozzi e della bella e buona Fiammetta di Donato Adimari, la giudiziosa donna volle piuttosto far l'ammalata, e non v'intervenne76.
Anche noi vogliamo seguirne l'esempio, e piuttosto cercare ne' documenti contemporanei alcun accenno alle intimità della vita domestica, che fra tanto pubblico scialo, si facevan sempre più rare. E ci sarà grato trovarlo nelle letterine che il figlio di quelli sposi, Piero de' Medici, scriveva a suo padre, mentr'era in villa o altrove, raccomandato alle cure del suo pedagogo Messer Agnolo Poliziano. Le ha tratte dagli originali del nostro Archivio di Stato, il Del Lungo che saprà a' loro luoghi ricollocarle nella Vita dell'Ambrogini, antica promessa ringiovanita con lui.
A Piero de' Medici molto si perdonerebbe in grazia di queste letterine, vergate con mano incerta dai cinque anni in poi, e dei primi latinucci che il maestro non correggeva. Nel 1476, appena cinquenne, scriveva di villa alla nonna Lucrezia Tornabuoni, con la petulanza d'un nipotino guastato dalle carezze. “Rimandateci parecchi fichi, chè quegli mi piacquono; dico di quelli brugiotti: et mandateci delle pesche col nocciolo, et delle altre cose che voi sapete che ci piacciono, zuccherini et berlingozzi ed altre coselline.„ Nel '78 avvertiva il padre d'aver “apparato già molti versi di Virgilio, e so quasi tutto il primo libro di Teodoro a mente, e parmi d'intenderlo„, cioè la grammatica greca di Teodoro Gaza (il Curtius, d'allora). “El maestro mi fa declinare et mi examina ogni dì.„
L'anno appresso scrive più franco: “Vorrei che Voi ci mandassi qualche segugio de' migliori che vi sono. Non altro. La brigata, ognuno si raccomanda a voi, massime io. Priegovi che vi guardate dalla moría, e che voi vi ricordiate di noi, perchè noi siamo piccini e abbiamo bisogno di voi.„ Un'altra volta, passato alcun tempo, cerca profittare del latino imparato per chiedere cose maggiori: “Quel cavallino non si vede. Nondum venit equulus ille, magnifice pater„ e già comincia a far da sopracciò ai fratellini. “Giuliano pensa a ridere… la Lucrezia cuce, canta e legge; la Maddalena batte le capate pe' muri, ma senza farsi male; la Luisa dice già parecchie cosine; la Contessina fa un gran chiasso per tutta la casa.„ E appresso: “Io, che per dar più tono alla mia scrittura, ho scritto sempre in latino, non ho ancora ottenuto il cavallino che m'avete promesso; cosicchè tutti mi danno la baia.„ Ma il cavallino non veniva. “Al cavallino ho paura gli sia incolto qualche malanno; perchè, se fosse sano, so che me l'avreste già mandato, come m'avevate promesso… Caso mai quello non possa venire, vi piaccia mandarne un altro.„ Finalmente arrivò, e un'ultima lettera, ch'è di ringraziamento e tutta piena di buone promesse, chiude quest'infantile carteggio.
Ma il curioso bozzetto domestico di vita medicea, che ha per isfondo la campagna e per scena una di quelle ville dove i Medici si riducevano per dimenticare le noie della politica, anche ci ricorda un altro aspetto della vita d'allora. Il desiderio della quiete campestre, l'amore per la villa, il sentimento della natura è una spiccata caratteristica degli uomini della Rinascenza. Già ne troviamo cenni in Ser Lapo Mazzei che usava andare a Grignano a far le faccende della ricolta e della vendemmia77, accomodava da sè la vigna, e voleva in casa un po' di buon aceto. Buonaccorso Pitti, come il Petrarca, gode a noverare tutti gli alberi del suo giardino78; il Rucellai è più superbo della sua villa di Quaracchi, di cui ci porge una descrizione amorosa, che del suo palagio magnifico79; i trattatisti del Governo della famiglia80 cantano le lodi della vita rustica: il Poliziano ne compone una prosetta da far voltare in latino a' discepoli81, e nello sfondo di un paesaggio fiorito disegna l'immagine della bella Simonetta Cattaneo82.
XIII
Lorenzo de' Medici (mediocre marito), anche in mezzo alle grandezze della sua condizione d'ottimate e quasi di principe, seppe conservare una certa bonarietà tutta casalinga e fiorentina; nè gli dispiacque incanagliarsi col volgo, all'osteria della Porta a San Gallo, e celebrar le bellezze della Nencia rusticana, e serbare nel fasto una sobrietà cittadina.
Racconta il Borghini che Franceschetto Cibo, cui dava in isposa la figliuola, fu da Lorenzo trattato con grande semplicità e parsimonia, mentre i suoi compagni, cavalieri e baroni romani, ebbero sontuose accoglienze. E a lui, impensierito per la figura che avrebbe fatta con loro, rispose rassicurandolo: “Onorai que' signori come ospiti e forestieri; te invece accolsi come uno di mia famiglia83.„ A' clienti dava udienza per istrada, o al canto del fuoco, o passeggiando amichevolmente per le vie di Firenze84. Fiorentino nell'anima, non gli dispiaceva d'essere e di mostrarsi faceto. Vedendo a Pisa uno scolare guercio, disse che e' sarebbe il più valente di quello Studio. E domandato perchè, rispose: “perchè e' leggerà a un tratto le due facce del libro, e così potrà imparare a doppio„85.
Ma sotto coteste semplici apparenze covavano i disegni del politico astuto che, come scrive il Vettori, “non istudiò in altro se non in ridurre gli uomini alle arti e ai piaceri„, e la protezione alle arti e agli artisti volle strumento a futura dominazione. Col denaro mediceo si alzavano palazzi e conventi, e dentro vi si raccoglievano antichità e libri; ne' giardini si radunavano gli artisti; alle cene accorrevano i poeti; si bandivano giostre e giuochi del calcio, concorsi poetici e feste religiose: la clientela politica del palazzo era resa più gagliarda da quella dei sommi artisti delle umili botteghe. Il Savonarola che del tiranno aveva indovinato i segreti pensieri, diceva: “occupa il popolo in spettacoli e feste, acciocchè pensi a sè, non a lui„. Firenze a' suoi tempi vide nascere, o crescere più rigogliose, molte forme di costume e molti generi di poesia; dai trionfi e dalle mascherate per le vie ai simposj platonici di Careggi; dal canto carnascialesco e dalle ballate a rigoletto, alle Sacre Rappresentazioni. La gaiezza spensierata e il facile appagamento dei desiderj, così negli ordini dello spirito come in quelli della materia, servirono a compensare la diminuzione delle pubbliche libertà86.
La città gaudente, che da un pezzo risonava di clamori festivi, accolse lieta il gran carnevale mediceo, que' sontuosi apparati, quelle processioni ordinate dalle confraternite de' vari quartieri e dirette da artisti. La paganità rinascente invadeva le feste religiose e le trasformava a' suoi fini. In carnevale si facevan carri e trionfi “per parere (dice mestamente il Cambi) che la città fussi in festa e in buono stato„. In Mercato Nuovo si danzava, nella Piazza de' Signori si facevano combattimenti d'animali, e fra essi si sguinzagliarono i leoni sperando ne seguissero terribili scene. Ma il leone fiorentino era così mansuefatto, che “come fosse un agnel si stava cheto„87. In via Larga, dinanzi al palazzo de' Medici, correvano a gara gli armeggiatori e si celebrava il trionfo d'amore. Per la venuta di Franceschetto Cibo, novamente maritato alla Maddalena di Lorenzo il Magnifico, si fecero in tutte le botteghe “mostre di cose gentili e ricche e drappi, e broccati, e gioie di perle e argenterie, che è stato cosa stupenda e miranda bellezza„. Per San Giovanni, s'apparecchiò “una bella festa di nugoli e di spiritelli e carri ed altri festivi edifici e ingegni popolari da passar tempo, e con tutte l'altre cose festive, ordinarie altre volte„. Si correvano palii di sfoggiata magnificenza, e la torre del Palagio rosseggiava tra i fuochi delle scoppiettanti girandole.
Nel far cavalieri e ricevere oratori, l'eccelsa Signoria, usava cerimonie solenni di cui troviamo ricordo nel libro di Francesco Filarete, araldo della Repubblica88.
Nel 1491, per la festa di San Giovanni, Lorenzo fece fare 15 edifizi o trionfi, rappresentanti il trionfo di Paolo Emilio, reduce dalla Macedonia, quando tornò con tanto tesoro che i Romani per molti e molti anni non pagarono nessuna gravezza89.
XIV
Pareva rinnovarsi l'età dell'oro! Le giostre medicee, che aveano inspirato le ottave del Poliziano, stimolavano anche gli altri cittadini a largheggiare nelle spese più pazze. Benedetto Salutati, nipote di Messer Coluccio, per quella del 1467, “nella sopravveste, testiera ed altri paramenti di due cavalli mise 170 libbre di fino argento, che volle sottilmente lavorato per mano d'Antonio del Pollajuolo. E ne' ricami dei detti paramenti, nella sopravveste sua e nelle cioppette de' sergenti mise intorno a 30 libre di perle, la più parte di maggior pregio„90.
Firenze, abbellivasi di sontuosi palagi. Filippo Strozzi incominciava, il 6 agosto '89, a fondare il suo, e Giuliano Gondi poco appresso ne imitava l'esempio. Il popolo ne andava orgoglioso, e il buon Tribaldo De Rossi, per memoria del fatto, si fece mandare dalla Nannina sua donna, tutti rivestiti i suoi due figliuoli e menatili a vedere i fondamenti del palazzo Strozzi “prese Guarnieri in collo e guatava colaggiù, e dettili un quattrin gigliato, e gittollo laggiù, e un mazzo di roselline di Damasco c'aveva in mano ve li feci gittar drento. E dissi: Ricorderàitene tu? Disse, sì. Insieme con la Tita nostra serva erano, e Guarnieri aveva appunto detto di anni 4, e avevali fatto la Nannina una gabbanella di taffetà cangiante, verde e gialla, nuova„91.
I ragazzi, come i cittadini più grandi, dovevano esser colpiti dalle sorprendenti meraviglie, a cui li avvezzavano le magnificenze medicee. Ogni giorno cose nuove e singolari: feste, processioni, cortei principeschi. E il De Rossi, semplice cronista, di quegli avvenimenti, ci ha conservato il ricordo. Nel 1488, donata dal Soldano di Babilonia a Lorenzo, venne in Firenze una giraffa alta sette braccia, ch'era menata a mano da un di quei Turcimani. Grande curiosità in tutti, perfin nelle monache; onde furon costretti a mandarla attorno pei monasteri92. “Mangiava d'ogni cosa, nelle ceste d'ogni forese metteva il capo; a un fanciullo arebbe tolto una mela di mano, tanto era piacevole. Morì a' dì 2 di gennaio 1489„ e tutti la piansero, “perchè era sì bello animale„.
Ma, d'un tratto, tutta questa serena giocondità di vita, tutto questo abbagliante splendore d'arte, di poesia, di spensierata gaiezza, si spegne sinistramente. La tempesta rumoreggia lontano, la collera celeste, profetizzata dal fiero domenicano che nel convento di San Marco, fra lo strepito del carnevale, medita solitario, minaccia i rinnovellati trionfi del paganesimo. L'8 di aprile 1492, come di una pubblica calamità, giunse la nuova della morte di Lorenzo de' Medici. “Lo splendore di tutta Italia, non che di Toscana,„ come scriveva il Dei, era scomparso. La sera appresso, la compagnia de' Mazzi riponeva il corpo nella sagrestia di San Lorenzo, e l'altro dì si fece l'onoranza, “non con molta pompa, come i loro antichi son consueti, ma onestamente e senza drappelloni, con tre regole di frati e una di preti solo; che in vero, non si poteva tanta pompa fare, che maggiore non fosse stata poca a un tanto uomo„93.
Con così lugubri esequie, nel gelo de' sepolcri laurenziani si chiudevano, con le spoglie del Magnifico, i ricordi di tutta una età che apparve radiante di gloria e di giovinezza. Il mondo della Rinascenza scompariva, e poco dopo, scrive Tribaldo De Rossi, “venne una lettera alla Signoria che certi giovani, iti con caravelle, arrivarono a cert'isole grandissime, che mai più vi si navigò per nazione umana, popolate d'uomini e donne assai, tutti ignudi„.
Un nuovo mondo era stato scoperto!
Signore e Signori.
Rotta la terza cerchia delle sue mura, Firenze, fatta italiana, piantò, sotto la folgorata torre di San Miniato, come un segnacolo di libertà il David di Michelangiolo, glorioso mutilato nei tumulti del 527, testimone immortale delle miserie antiche e delle future grandezze. Dalla cima del colle e' guarda Firenze nuova, Firenze aperta da ogni lato, senz'altra difesa di mura, di bastioni o di torri; perchè Firenze, cuore d'Italia, si difende oggi dalle Alpi e dal mare.
La patria, un tempo ristretta nel Comune, nel piccolo Stato, ha abbattuto le vecchie mura e i vecchi confini, e si distende per ogni plaga dove suoni la lingua di Dante. Così la ragione de' popoli e la civiltà, si sono affermate nel diritto e nella carità umana.
Tornare indietro nè si può nè si vuole: la semplice vita de' nostri antichi, con la gioconda serenità che le fu propria, più non ci alletta. Il pensiero moderno, che ci travaglia e tortura coi dubbi tormentosi, con le aspirazioni insoddisfatte, lo redammo da tante sublimi e nobili intelligenze: è una conquista superba cui non possiamo rinunziare.
In esso è la forza che muove la scienza e che solleva i cuori e gli spiriti verso un ideale più alto, l'ideale del perfezionamento umano: il nuovo sole che irradia le vette eccelse della carità e dell'amore.
Firenze, 17 aprile 1892.
LA DONNA FIORENTINA nel Rinascimento e negli ultimi tempi della libertà
DI
ISIDORO DEL LUNGO
I
Pel San Giovanni del 1473, al consueto festeggiar cittadino si aggiungeva la solennità del ricevimento fatto, come la Repubblica artigiana soleva e i Medici favorivano, con principesca magnificenza a Eleonora d'Aragona figliuola del Re di Napoli, la quale andava sposa ad Ercole d'Este, duca di Ferrara e di Modena. Entrata in Firenze il 22 giugno, ella trovava nel suo massimo sfoggio la mostra che delle proprie ricchezze avevano apparecchiata le botteghe dei mercatanti; assistè alla processione delle Compagnie co' fanciulli vestiti di bianco in forma di “agnoletti„; vide i “dificii„ o macchine fantasmagoriche, che in sulla Piazza della Signoria rappresentavano Storie dell'Antico Testamento e del Nuovo; vide l'offerta che al tempio del Santo Patrono portavano la Signoria e gli altri magistrati del Comune e delle Arti, le Compagnie del Popolo coi gonfaloni, parte Guelfa, e poi i Signori e Comuni sottoposti o raccomandati, recanti palii, ossia drappi, di gran pregio e bellezza e grandi ceri istoriati e fioriti; e con l'olivo in mano l'offerta de' prigioni e de' condannati (quella a cui Dante non si sottomesse); e finalmente, nel pomeriggio del dì 24, i barberi, già prima offerti ancor essi, che correvano il palio di San Giovanni, un palio ricchissimo di broccato d'oro, dal Prato su per la Vigna pel Mercato e pel Corso verso Porta alla Croce, tal quale noi che non siam più giovani possiamo ricordarci d'aver veduto. Ma nessun di noi potrebbe da' ricordi suoi giovanili evocare ciò che nel 1473 fu dato a godere, in quelle feste, a madonna Eleonora: un ballo, là su que' prati donde i barberi pigliavan le mosse, un ballo alla dolce aria profumata de' giardini e delle loggie, in uno de' palagi, quello de' Lenzi, dov'è oggi la Galleria Pisani, che fronteggiavano coteste estreme parti della città verdeggianti lungo le rive dell'Arno. Tacciono di quel ballo i diarii: sulle cui aride pagine, a ogni modo, voi cerchereste inutilmente, signore gentili, descriversi dal giornalista di quattro secoli fa gli abbigliamenti delle vostre antenate; e sotto quali colori d'abito e con qual dottrina di linee, presentassero esse al desiderio de' loro innamorati quelle bellezze, che all'ammirazione nostra sopravvivono nelle tavole del Botticelli e negli affreschi del Ghirlandaio. Un ballo fiorentino de' tempi del Rinascimento; non dominato e quasi sopraffatto dallo scintillio de' doppieri, ma lumeggiato soavemente dal sole che di là dal Pignone tramonta; nè turbinato fra le vorticose battute orchestrali, ma sposato sulle corde flebilmente amorose del liuto e della viuola alle gentili baldanze ottonarie della Canzonetta che appunto dal Ballo s'intitola; meritava cronista un poeta. Permettetemi ch'io vi traduca dal latino di Angelo Poliziano quel Corriere del mondo elegante d'allora: distici levigatissimi, dove le realtà della vita s'intrecciano con le concezioni dell'arte, il vero col fantastico, il fiorentino, il cristiano, con la classica paganità; circola l'aria che respiravano i letterati nella Firenze del magnifico Lorenzo.
“Apollo con la rosea faccia ha menato il giorno che riconduce la festa del selvaggio Batista san Giovanni; quando alla città che fu colonia di Silla ferma le candide vestigia, per riposarsi dal lungo cammino, la figlia del Re, che, lasciata la città delle Sirene, va sposa ad Ercole. Festeggiano a gara il suo arrivo fanciulli, giovani e vecchi, e le matrone e splendide di fresca bellezza le spose: tutta la città si anima, d'ogni dove rumoreggia l'allegria. V'è una strada che i Sillani (i Fiorentini, parafrasati in latino) chiamano Pantagia (Borgognissanti, ribattezzato in greco), dove sorge splendido un tempio dedicato a tutti i Celesti. Colà s'inalza superbo il palagio de' Lenzi: ivi presso ride la verde distesa de' prati, e de' colori primaverili si dipinge fiorito il terreno. Quivi, mentre i corsieri scalpitanti aspettano, in sulle mosse, il canoro segnale della tromba Tirrena, la regal fanciulla si abbandona ai sollazzi delicati della danza; ed ecco atteggiarsi le gentili donne al tempo misurato e all'intreccio de' balli. Innanzi alle altre ninfe risplende Albiera bellissima, e di sua bellezza sparge a sè dintorno il tremulo splendore. Mossi dal vento diffondonsi i capelli sulle candide spalle, i neri occhi raggiano di luce soave: pare, fra le sue compagne, la stella del mattino il cui rossore purpureo vince gli astri minori. Giovani e vecchi ammirano Albiera: sarebbe di ferro chi non si commovesse a quella verginale bellezza: lietamente, plaudendo, col cenno, con gli sguardi, con la voce, tutti lodano Albiera.„
Albiera di Maso degli Albizzi era una giovinetta fra i quindici e i sedici anni, fidanzata a Gismondo della Stufa. S'ammalò, subito dopo quel ballo, e in capo a pochi giorni morì. “Ahi povera Albiera!„ sentite ancora il suo poeta: “così giovinetta, rubata ai genitori, allo sposo! Va' ora, e confida nelle umane fortune! Ecco disfatte da morte crudele, o Albiera, le tue bellezze: disfatto il tuo viso di gigli e rose; i tuoi occhi gioiali, dove Amore accendeva le sue fiaccole; i capelli, che o scioglievi abbondanti, e parevi Diana cacciatrice, o raccoglievi in diadema d'oro, ed era l'acconciatura di Citerea: gli Amorini, le carezzevoli Grazie, ti facevano bella, senza che tu il sapessi: ogni virtù ti adornava, modestia e serietà di contegno, senno, pudore, lealtà, gioialità, bel costume, bel tratto, schiettezza: tutto ormai divenuto un pugno di cenere!„
In altre parti della elegia lunghissima è mitologizzata la malattia e la morte d'Albiera. La sua bellezza ha attirato il bieco sguardo di Nemesi, la dea che con misteriosi decreti governa le umane vicende. Ritirasi la giovinetta alle sue case, finito il ballo, in sull'annottare; nell'ora, o Signore, nella quale a voi, pe' balli vostri, cominciano appena le operazioni della toeletta. E coricata ch'ella è, si appressa al suo letto la Febbre, nume orribile, del quale e del suo corteggio vi risparmio la descrizione, e che Nemesi ha sospinto verso quella povera casa. I genitori, i fratelli, lo sposo, pendono per dieci giorni ansiosi dal viso dell'inferma, pallido e trasfigurito. Ella dà gli estremi addii a que' suoi cari e alla vita, che, incominciatale appena, sente sfuggirle; e muore fra il pianto disperato della sua casa. Il lutto e la pietà de' cittadini circondano il corpo inanimato. La morte ha ricomposto il suo volto a pace soave: pare che dorma. La ninfa, vittima della dea Nemesi e della dea Febbre, ha esequie cristiane; e il distico ovidiano di messer Angelo colorisce anche quelle. Ecco il trasporto; ecco con la nera coltre la bara: ella distesavi su, coi capelli recisi, e in capo una umile ghirlanda. Le salmeggiano intorno i preti; le campane suonano a morto: segue, in veste di lutto, la cittadinanza; fra quella, lo sposo, che tutti si mostrano a dito, compassionando. La chiesa di San Pier Maggiore arde di ceri, è profumata d'incensi: si fa l'assoluzione e la benedizione: e le tombe degli Albizzi, in quella stessa chiesa, si aprono a ricevere la giovine fidanzata; forse, come si soleva, in abito di monacella: il che non dice il Poeta; ma que' capelli tagliati ce ne danno, a mio avviso, argomento più che probabile. La musa latina dell'umanismo fiorentino consacrò, non con la sola elegia e con altri minori epicedii del Poliziano, il nome d'Albiera: elegiaci e ricordanze su quella morte e quei funerali abbondano, in copia anche maggiore che pei funerali della bella Simonetta, morta soli due anni dopo la fanciulla degli Albizzi.
Ma alla Simonetta Cattaneo, genovese, venuta nel 69 sedicenne sposa in Firenze a Marco Vespucci pur sedicenne, e mancata di mal sottile nel 76, l'arte dette anche in altre forme gli onori dell'apoteosi. E mentre delle fattezze verginali di Albiera non ci è rimasta testimonianza (salvo se qualche benemerito investigatore riuscisse a trovare il busto marmoreo nel quale sappiamo dal Poliziano averla fatta rivivere lo sposo), per la Simonetta, invece, si è impacciati a scegliere fra più d'uno il ritratto vero: o vuoi quello che è nella Galleria de' Pitti, attribuito al Botticelli, di una bionda delicata, dal collo assai lungo, dal viso intento e gentilmente pensoso, in acconciatura modesta e casalinga, da riferirsi piuttosto a un mezzo secolo innanzi; o vuoi l'altro, sotto il quale è stato apposto il nome di lei, e che si conserva a Parigi nella galleria del Duca d'Aumale, creduto del Pollaiuolo o di Piero di Cosimo, ed è essa pure una figurina delicata e gentile, ma di gaia e vivace bellezza, nudi il collo (anche di questa assai lungo) e il seno e le spalle, i capelli tirati all'indietro o avvolti in giri artificiosi con grande intrecciamento di perle e pietre, e pendente sul petto un monile intorno al quale si rigira un aspide; o che dobbiamo infine ravvisarla, come altri propone,94 in una delle figure allegoriche di quella misteriosa Primavera del Botticelli, guidati da certi singolari riscontri che la composizione del fantasioso maestro offre con le Stanze del Poliziano, dove è ritratta e designata per nome (pur nell'atto di trasfigurarla in Ninfa delle più autentiche), e poeteggiata, con buona pace del marito Vespucci, come innamoratrice di Giuliano de' Medici, appunto la Simonetta Cattaneo. Or qualunque ella si fosse la giovane sposa, certamente bellissima, che nell'aprile del 76 moriva, basti a noi, pur lasciando d'altri suoi celebratori in latino e questa volta anche in volgare, che il Poliziano facesse di lei la mitologica eroina delle sue Stanze; che per la morte sua scrivesse pure epigrammi funebri, d'alcuno de' quali il magnifico Giuliano de' Medici, il bel “Iulio„ delle Stanze, proponeva il concetto; e che Lorenzo, a sua volta (il che mostra del tutto ideale e poetico il culto dei due fratelli alle bellezze della Vespucci), tragga, o finga d'aver tratto, dalla morte di lei il motivo a platonizzare poeticamente sull'anima ritornata alle stelle. Lorenzo era a Pisa, e dai Vespucci medesimi riceveva di giorno in giorno le dolorose notizie. Morta, un suo famigliare gli scriveva: “La benedetta anima della Simonetta se ne andò a paradiso, come avrete inteso. Puossi ben dire, che sia stato il secondo Trionfo della Morte: chè veramente, avendola voi vista così morta come la era, non vi saria parsa manco bella e vezzosa che si fosse in vita. Requiescat in pace„; e Lorenzo, essendo (così ci racconta) una serena nottata primaverile, e andando con un amico a diporto, e parlando di quella morta, si affisa a un tratto in una stella che mai non gli par d'avere veduta così lucente, e “L'anima di quella gentilissima„ esclama “o è trasformata in questa nuova stella, o si è congiunta con essa„; e un'altra volta, pure in cotesta primavera, passeggiando per una delle sue splendide ville, osserva il girasole, anzi Clizia, l'antica innamorata del sole, “la sera restar col viso vòlto verso l'orizzonte occidentale, che è quello che le ha tolto la visione del sole, insino che la mattina il sole la rivolge all'oriente„; e ci vede una immagine del nostro destino quando perdiamo chi si ama, che è di rimanere “col pensiere vòlto all'ultima impressione„ della “visione„ perduta; ma l'orizzonte nostro occidentale, donde il tramonto non ha ritorno, è la morte.
È, del resto, notabile come in que' tempi che tante erano, e così vigorosamente svolte, e così spesso violente, le energie della vita, la morte circondasse di tanta poesia, sebbene caricata di tanta oziosa mitologia, agli occhi e al cuore di cotesti uomini la idealità femminile: notabile come quei travestimenti di donne viventi in ninfe posticcie, pe' quali l'imitazione artistica del vero perdeva miseramente tanto tesoro di realtà, si arrestassero, cotesti travestimenti, o s'impacciassero dinanzi alla santità delle tombe; quando, secondo la figurazione Polizianesca (nelle Stanze) della morte della Simonetta, l'amante, o il poeta,
Vedea sua ninfa, in trista nube avvolta,
Dagli occhi crudelmente essergli tolta.
In uno degli epigrammi funebri di messer Angelo per la Simonetta, e proprio in quello a cui dette il concetto Giuliano de' Medici, “tranquilla in sul punto di morte, si volge, la ninfa, a Dio, in lui confidando„; curiosa ninfa, a dir vero, che si raccomanda l'anima: come singolar mortorio, altresì, quello che portava verso la chiesa d'Ognissanti, alla cappella de' Vespucci, la Simonetta, se intanto, strada facendo, Amore, proprio il figliuolo di Venere piovuto non si sa come in quell'accompagnamento, saettava tuttavia, standocene a un altro di cotesti epigrammi, saettava da' chiusi occhi di lei pur col ricordo del loro splendore.
Meglio ispirato il poeta mediceo faceva da un'altra tomba di sposa ventenne (cominciammo da un ballo, o Signore, e ci siam persi fra le tombe; ma il geniale argomento, ancorachè caduto, come vedete nelle mani d'un conversamorti, ci ricondurrà, vi prometto, alle gioie e ai travagli della vita), da un'altra tomba di giovine sposa, minor sorella dell'Albiera, e ancor essa bellissima, Giovanna degli Albizzi moglie a Lorenzo Tornabuoni, morta nel dare alla luce il secondo figliuolo, faceva il Poliziano uscire la voce di lei, così: “Gentilezza di sangue, bellezza, un figliuolo, ricchezze, amor coniugale, ingegno, costume, animo, mi facevan felice: felicità, che la Parca, perfida, a viepiù inacerbirmi la morte, mi addimostrò piuttosto che darmi.„ Ma buona e pietosa forse possiamo noi oggi dire la Parca; che risparmiò a Giovanna di vedere soli nov'anni appresso, nel 97, ne' tempi del terrore Piagnone, decapitato a ventinove anni il suo Lorenzo come cospiratore mediceo: memorie d'infinita pietà a chi guardi, sulle medaglie coniate in onore di lei, le sue forme gentili, e ne' rovesci simboleggiate le sue virtù, o con le tre Grazie, sottovi scritto Castità, Amore, Bellezza, o con la figura virgiliana della ninfa cacciatrice; a chi nella cappella che fu de' Tornabuoni, in Santa Maria Novella, la riconosce, nei meravigliosi affreschi di Domenico Ghirlandaio, in quella bionda giovanissima gentildonna, che riccamente vestita di broccato d'oro campeggia nella storia della Visitazione; a chi potesse pur di Giovanna rivedere un altro ritratto, della stessa mano del Ghirlandaio, che col nome della madonna Laura petrarchesca da un palagio fiorentino trasmigrò ad altri lidi; o a chi rimpianga certi preziosi affreschi, che in una villa suburbana del pian di Mugnone tornarono, pochi anni or sono, alla luce, solamente per essere divelti e travalicati e (sento dire) sciupati oltr'Alpe.
Quanta gentilezza del Rinascimento fiorentino dovette accogliersi fra le pareti di quella villa, che nei Tornabuoni rimase dal 1469 al 1541, e fu dunque villa di Giovanni Tornabuoni, quando questi e in Firenze e in Roma, quasi ambedue egualmente medicee, era forse il principale agente della fortuna sì mercantile e sì politica della poderosa famiglia; quando ei faceva nel 1490 scoprire quella magnifica sua cappella, e ci faceva scrivere dal Poliziano la data, “anno 1490, nel quale la città bellissima, nobile per ricchezze, vittorie, arti, edificii, godeva di abbondanza, di salute, di pace„; quando nel giugno dell'86 le nozze del suo Lorenzo con la bella Giovanna erano festa non pur domestica ma cittadina. Veniva la sposa a Santa Maria del Fiore, in mezzo a un cortèo di cento fanciulle delle maggiori famiglie, e di quindici giovinetti vestiti d'un'assisa: assistevano al darsi l'anello cavalieri così cittadini come di fuori, e un ambasciatore di Spagna al Pontefice. Un Guicciardini e un Castellani accompagnavano la sposa alle case de' Tornabuoni, presso alle quali la piazza di San Michele Berteldi (oggi piazza San Gaetano) era “messa a palco„ per uso di festeggiamento e di ballo: e di là tornati gli sposi alle case degli Albizzi, s'imbandiva suntuosamente la cena, essendo messo il terreno del palagio egualmente a palco pel ballo, che a lume di doppieri si alternava, durante l'intera notte, co' virili giuochi d'una sfarzosa armeggeria. Più riposate dolcezze offriva ai giovani sposi la villa. Qui viene ad essi il Poliziano, tenerissimo del giovane Lorenzo fin quasi a ieri suo valente discepolo; il Poliziano che con affetto quasi paterno si compiace d'ogni suo trionfo, così nelle lettere classiche, specialmente greche (delle quali spera che toccherà presto la cima); come nel poetar volgare, magari anche all'improvviso; come nelle giostre della piazza di Santa Croce: viene l'umanista dottissimo a intertenersi de' cari studi, a leggere que' suoi stupendi poemetti latini le Selve, una delle quali l'Ambra, d'argomento omerico insieme e mediceo, è dovuta a te (scrive dedicandogliela) per l'un titolo e l'altro: viene a esaminare e interpretare le antiche medaglie, della cui raccolta in casa Medici il numismatico erudito e diligente è appunto Lorenzo Tornabuoni: al quale, e al maestro suo, chi dubiterebbe (certi di ciò) d'attribuire, con altre, le medaglie fatte eseguire in onore della sposa diletta? Ma il vecchio Tornabuoni, che guarda con occhio d'immenso affetto que' giovani capi, ahimè destinati sì da presso alla morte, non pago che il Ghirlandaio li ritragga nelle mirabili storie della cappella, in un'altra di quelle meraviglie dell'arte li vuole, sulle mura di quella stessa sua villa, consacrati alla ricordanza de' secoli. “Dipignetemi, o maestro, questa sala a buon fresco; e il Poliziano nostro, qui, darà, come suole, il concetto d'alcuna di quelle esquisite allegorie nelle quali sì fieramente vi compiacete.„ E il Botticelli, in due storie sulla medesima parete della sala, come sulla medesima parete della cappella in due separate storie il Ghirlandaio, ritraeva i giovani sposi.