Kitabı oku: «La vita Italiana nel Rinascimento. Conferenze tenute a Firenze nel 1892», sayfa 6
IX
Già i tempi maturavano. Dell'antica e proverbiata semplicità, in tanta sete di guadagni, rimanevano monumento vivente, ma pur rispettato, soltanto quei vecchioni di cui Donato Velluti ci porge uno stupendo ritratto, vivo e vigoroso come una figura di Andrea del Castagno.
“Bonaccorso di Piero, fu uno ardito, forte e aitante uomo, e molto sicuro nell'arme. Fece di grandi prodezze e valentie, e sì per lo Comune e sì in altri luoghi. Tutte le carni sue erano ricucite, tante ferite avea avute in battaglie e zuffe. Fu grande combattitore contr'a Paterini e Eretici… Era di bella statura, di membra forti e bene complesso. Vivette ben 120 anni, ma ben 20 anni perdette il lume, innanzi morisse, per vecchiaia. Fu chiamato Corso, e benchè fosse così vecchio, udii dire che la carne sua avea sì soda, che non si potea attortigliare, e se avesse preso qualunque giovane più atante in su l'omero, l'avrebbe fatto accoccolare. Intesesi anche bene di mercatanzia, e fecela molto lealmente; intanto era creduto, che venuti i panni melanesi in Firenze da Melano (de' quali molti ne faceano venire) e tutti gli spacciava innanzi fossono aperte le balle; molti ne faceano tignere qui, e perch'era sì diritto, udii dire che un Giovanni del Volpe loro fattore veggendo sì grande spaccio di detti panni, pensò nella tinta fare avanzare più la compagnia, e più debolmente, e con meno costo gli facea tignere; di che essendo passato un tempo i detti panni non avevano quel corso soleano: di che cercando la cagione, trovarono che era stato per la sottilità del detto Giovanni, di che egli il volea pure uccidere.
“Il detto Bonaccorso avendo perduto il lume, il più si stava in casa. Avea di dietro al palagio di Via Maggio… un verone lungo quanto tenea il detto palagio, in sul quale rispondea tre camere dal lato di dietro, per le quali egli andava, e tanto andava in qua e in là ogni mattina, che facea ragione essere ito tre o quattro miglia, e fatto questo asciolvea, e l'asciolvere suo non era manco di due pani, e poi a desinare mangiava largamente, perocchè era grande mangiante: e così passava la sua vita. Ora perchè si sappia come morì, udii dire a mio padre, che gli venne voglia andare alla stufa, e così andò, nella quale stufa s'incosse un piede; di che essendo tornato e veggendo che per essa cagione non potea andare, nè fare il suo usato esercizio, in sul verone, immantinente sì si (ac)cusò morto. Or avvenne in quel tempo che Filippo suo figliuolo, e mio avolo che fu, menando Monna Gemma de' Pulci sua seconda donna, avendo il dì molto motteggiato dicendo: ora farebbe bisogno a me d'avere moglie, più ch'a figliolmò, che m'aitasse, e molte altre ciance, gli venne voglia, essendo sul letto, farsi portare in sul lettuccio da sedere: di che chiamato mio padre e Gherardo suoi nipoti, avendosi colle mani e braccia appoggiato in sulle spalle loro; subitamente per grande vecchiezza la vita gli venne meno, e morì„56
X
Con il ricordo di questa “cara e buona immagine paterna„, affrettiamoci a' tempi nuovi, al nuovo secolo, di cui ormai rosseggia in cielo, nel cielo della letteratura e dell'arte, la splendida aurora. Già ne scorgemmo i segni annunziatori nell'ottenuto acquisto della ricchezza, nell'affrancarsi così dai vecchi pregiudizi, come dalle severe regole del vivere antico, nelle tendenze egoistiche preparanti lo svolgimento di quel che i moderni critici chiamano “individualismo,„ onde meglio si comprende il carattere degli uomini e della vita della Rinascenza.
L'affetto per il Comune, per la patria e anche per la famiglia, già s'affievolisce col desiderio acuto de' godimenti, di che non era avara la vita a chi volea gustarne le dolcezze. L'incredulità fa capolino; lo scetticismo, la sensualità, minacciano di prendere il sopravvento. Coteste generazioni, dopo i terribili terrori delle pestilenze, scampate all'infuriar del contagio, doveron quasi meravigliare, stupire di risvegliarsi alla vita.
Dalla grande moria del 1348 ai primi del '400, i cronisti ne registrano molte altre: ricordiamo quelle del 1363, del 1374, del 1400, del 1411, del 1420 e del 1424. Un nostro erudito spogliando il libro de' morti degli Ufficiali della Grascia, noverò dal 1.º maggio al 18 settembre 1400, ben 10908 morti, la massima parte fanciulli57. Della peste del 1348, oltre alla classica e grandiosa descrizione del Boccaccio, troviamo vivi e dolorosi ricordi nelle cronache famigliari, ne' diarii, ne' memoriali.
Dovè essere un pauroso, un raccapricciante spettacolo! Giovanni Morelli racconta che in un'ora “si vedeva ridere e motteggiare„ il vicino o l'amico “e nell'ora medesima il vedevi morire„. La gente cascava morta per istrada “su per le panche„ come abbandonata, senza aiuto o conforto di persona. Molti impazzivano e si buttavano nel pozzo, o giù dalle finestre o in Arno, dal gran dolore o dalla orribile paura. Tanti morirono senza esser veduti e “infracidavano su per le letta„, molti si sotterravano ancor vivi. “Avresti veduto una croce ire per un corpo e averne dietro tre o quattro prima giugnesse alla chiesa„58. Si calcola che in Firenze morissero i due terzi delle persone, “cioè de' corpi ottantamila„59. Della moria del '400, veggiamo un'efficace pittura in una lettera di Ser Lapo Mazzei. “Qui non s'apre appena appena bottega: i rettori non stanno a banco: il palagio maggiore senza puntelli: nullo si vede in sala: morti non ci si piangono, contenti quasi solo alla croce„60. Era uno spavento: i figliuoli morivano, cadevan gli amici, i vicini, i conoscenti, gl'ignoti; nel colmo della estate, passavano i cento al dì; nel luglio vi fu un giorno che furon dugento.
Di quella del 1420 scrive nel suo Libro segreto Gregorio Dati: “La pestilenzia fu in casa nostra, e cominciò dal fante, cioè Paccino, a l'uscita di giugno 1420; e poi da indi a tre dì la Marta nostra schiava, e poi al primo dì di luglio la Sandra mia figliuola, e a dì 5 di luglio l'Antonia. E uscimmo di casa, e andammo dirimpetto; e in fra pochi dì morì la Veronica: e uscimmone e andammo in Via Chiara, e presevi il male alla Bandecca e alla Pippa, e amendue s'andarono a Paradiso a dì 1.º d'agosto, tutti di segno di pestilenza61. Iddio li benedica!„
Chi poteva fuggire, scappava ad Arezzo, a Bologna, in Romagna, in alcuna città e terra dove credesse potersi stare sicuro. Il Datini se n'andò a Bologna, portando la famiglia, i domestici e i forzieri su ronzini e su muli carichi di ceste62. Buonaccorso Pitti scampò dalla peste del 1411 recandosi a Pisa in una casa a pigione, dove in sette mesi spese 1300 fiorini e gli morì una figliuola e un famiglio. Nel '24 mandò il figlio suo Luca con la moglie e i bambini a Pescia, dove poi si ridusse con gli altri congiunti.
Era di regola recarsi “in qualunque luogo la mortalità non fosse stata„63; rimedi contro l'oscuro malore non c'erano, nè l'arte dei medici sapea consigliarli. Il Morelli prescrive alcune norme che oggi si direbbero igieniche: la pestilenza del 1348 era stata cagionata da una terribile carestia: “l'anno dinanzi era suto in Firenze gran fame„64; “vivettesi d'erbe, e di barbe d'erbe, e di cattive„, “tutto contado era ripieno di persone, che andavano pascendo l'erbe come le bestie„, e i corpi erano disposti e non avevano “argomento nè riparo niuno„. Consiglia, pertanto, conservarsi sani, riguardarsi, mangiar bene, sfuggire l'umido, “spender largamente„, senza “niuna masserizia„ senza economia “fuggi(r) malinconia e pensiero„, pigliarsi “spasso piacere e allegrezza„, non “pensare a cosa ti dia dolore o cattivo pensiero„, giuocare, cavalcare, divertirsi, stare allegri, tenere “in diletto e in piacere la tua famiglia„, e “far con essa buona e sana vita senza pensiero di fare per allora masserizie; che assai s'avanza a stare sano e fuggire la morte„65.
Gli “avanzati„ dal mortale flagello, doverono ben presto avvezzarsi al nuovo tenore di vita, anche passato il pericolo. Effetto della peste e de' suoi terrori, le processioni dei “penitenti bianchi, simiglianti a quelle che quasi un secolo innanzi, sotto il nome di compagnie de' battuti, avevan percorsa tutta l'Europa. Partivansi in folla dalle lor case mescolati uomini e donne, laici ed ecclesiastici, tutti vestiti di bianche cappe che lor coprivano anche la faccia, avendo un crocefisso per insegna; e andavano processionalmente di paese in paese cantando laudi, pregando con alte voci misericordia. Giacevano quasi sempre all'aria aperta, non domandavano che pane e acqua. I popoli delle città visitate, accendendosi d'egual fervore andavano col medesim'ordine a visitare un'altra città. Alla comparsa dei pii pellegrini, tutti movevansi a penitenza, le gravi inimicizie si deponevano, si pacificavano le discordanti fazioni, le città si riempivano di santimonia„66. A Firenze i facinorosi voleano profittarne per liberare i prigioni delle Stinche; ma fortunatamente s'impedì che la città n'andasse a romore d'arme, e tra le altre si fecer le paci tra i Pitti e i Corbizi67. Anche Francesco Datini nell'agosto 1399 andò in pellegrinaggio, “vestito tutto di tela lina bianca e scalzo„, co' suoi famigli, amici e vicini. Erano in tutto dodici e portaron seco due cavalle e una muletta, “in sulle quali bestie mettemmo un paio di forzeretti, in che furono più scatole di tutte ragioni confetti, e formaggio d'ogni ragione, e pane fresco e biscottato, e berlingozzi zuccherati e non zuccherati e più altre cose che s'appartengono alla vita dell'uomo, tanto che le dette cavalle furono presso che cariche di vettovaglie„68. Stettero in pellegrinaggio dieci giorni, dal 28 agosto al 6 di settembre, e giunsero fino ad Arezzo o poc'oltre; e dovunque si fermavano compravano cose da mangiare. Era davvero un allegro modo, e comodo, di far penitenza, e di pellegrinare a cavallo!
Delle pratiche religiose, i più accorti e più increduli rispettavano appena la forma esteriore, come il Datini, che temeva i rimbrotti e i predicozzi dell'amico e mentore spirituale Ser Lapo Mazzei.
Altri, come Buonaccorso Pitti, già ci porgono l'immagine dell'uomo della Rinascenza, che non ha terraferma, e gira il mondo, rôso da una interna irrequietezza, e giuoca, e perde, traffica, e mescola la politica ai commerci e ai sollazzi, come un avventuriere del Settecento, come un Benvenuto Cellini, ma senza l'arte e con molto meno d'ingegno. Curioso, strano tipo questo Pitti che sembra morso dalla tarantola e mena le mani e sta a tu per tu con Carlo VI69, con duchi e principi, che cavalca a Roma difilato per una scommessa con una giovane ond'era invaghito70; gran danzatore, giuocatore ostinato e prode e leal cavaliere, e in patria assunto agli uffici supremi71. Il Burckhardt lo chiama addirittura un precursore del Casanova, che viaggia continuamente in “qualità di mercante, di agente politico, di diplomatico e di giuocatore di professione„. “Guadagnò e perdette enormi somme, e non trovava competitori che fra i principi, quali ad esempio, i Duchi di Brabante, di Baviera e di Savoia„72. Questo il padre di quel Luca Pitti che in ricchezza e in magnificenza rivaleggiava coi Medici e voleva anche in ogni altra cosa andare a paro con Cosimo. I mercanti di panni divenuti banchieri e prestatori, aveano in quei viaggi, in quei traffichi, con quelle “fattorie„ sparse in varie città d'Europa, ne' più operosi centri del commercio, negli scali più frequentati, accumulato smisurate ricchezze, ed era venuto il tempo di godersele tranquillamente.
Già Fiorenza come una bella e prosperosa giovane “con buone parti„ e dote abbondante, cessate le gare fra i partiti che se la contendevano, all'ombra de' lauri medicei socchiudeva gli occhi abbarbagliati da tante sfoggiate magnificenze, onde, come femmina, s'era lasciata conquidere. Le famiglie, fatta la roba, voglion fondar la casata: si cercano i maritaggi più convenienti e si discutono quasi fossero alleanze. L'Alessandra Macinghi va a tutte le messe “in Santa Liperata„ e si pone “allato„ alle fanciulle, con cui vorrebbe per il suo Filippo far parentado, e con occhio di futura suocera le studia, le esamina, le spoglia, e ne scrive al figliuolo come se si trattasse d'un mercato di polledre e non d'un matrimonio. Egli è vero che la buona madonna Lessandra, per me troppo esaltata e lodata, dovette avere piuttosto cuor di mercante che di donna. Che mettesse le mani addosso alle schiave, lo confessava ella stessa senza ritegno; era costume, e fors'anche con quelle rôsse e tartare la pazienza doveva facilmente scappare. Ma di lei e della sua pietà troviamo un documento rivelatore. Si tratta di due vecchi, gli unici che rimanessero d'una famiglia di lavoratori di Pozzolatico: “ancora vive Piero e mona Cilia, tramendua infermi. Ho allogato il podere per quest'altr'anno, e me lo conviene mettere in ordine: e que' due vecchi se non muoiono, hanno andare accattare. Iddio provvegga„73. Nè crediate sia questo un tristo, ma fugace pensiero: è un fermo proposito. In una lettera scritta, pochi mesi dopo, nel dicembre del 1465, leggiamo: “Piero vive ancora„ a Mona Cilia Iddio aveva forse già provveduto “e bisogna che se n'esca, e andrà accattando… Arà pazienza: che Iddio lo chiami a sè, se 'l meglio debb'essere!„74 Col cuore, non si fa masserizia!
XI
Ma chi aveva accresciute e moltiplicate le proprie sostanze, mostrava sentimenti più nobili e animo più gentile. Giovanni Rucellai ci dà l'immagine compiuta del fiorentino ricco che sente la dignità del nuovo stato in cui fu posto dalla fortuna; la quale “non tanto gli ha conceduto grazia nel guadagnare, ma ancora nello spenderli bene, che non è minor virtù che il guadagnare. E credo – scrive nel suo Zibaldone, – che m'abbi fatto più onore l'averli bene spesi ch'averli guadagnati, e più contentamento nel mio animo,„ e “massimamente delle muraglie ch'io ho fatte della casa mia di Firenze, del luogo mio di Quaracchi, della facciata della chiesa di Santa Maria Novella, e della loggia nella Vigna dirimpetto alla casa mia„. E ringrazia messer Domenedio,„ d'averlo fatto “creatura razionale,„ cristiano e non “turco, moro, o barbaro„, d'averlo fatto nascere “nelle parti d'Italia, la quale è la più degna e più nobile parte di tutto il cristianesimo, e nella provincia di Toscana la quale è reputata delle degne provincie ch'abbi l'Italia„, e altresì d'avergli dato la vita nella “città di Firenze, la quale è reputata la più degna e la più bella patria che abbi non tanto il cristianesimo ma tutto l'universo mondo„, e infine d'avergli dato l'essere “nell'età presente, la quale si tiene per li intendenti ch'ella sia stata e sia la più grande età che mai avessi la nostra città poi che Firenze fu edificata… per esser stato al tempo del magnifico cittadino Cosimo di Giovanni de Medici„. – E più lo ringraziava d'avergli concesso d'allearsi con lui, per il matrimonio della Nannina figlia di Piero e nipote di Cosimo, con il proprio figliuolo Bernardo, splendido parentado di che il Rucellai insuperbiva.
Firenze allora celebrava, senza temere i rigori delle leggi suntuarie cadute in disuso, le feste nuziali delle grandi famiglie. Le nozze di Baccio Adimari con la Lisa de' Ricasoli, celebrate nel 1420, ci son rappresentate da un'antica tavola della Galleria dell'Accademia di Belle Arti, e vediamo gli sposi con la loro accompagnatura danzare sotto un padiglione a strisce di vari e ridenti colori, al suono d'una musica di trombe e di pifferi; ma di queste del Rucellai con la Medici, che ci danno l'imagine della vita d'allora, vogliamo tentare un quadro di cui ci fornirà le linee, i colori e il disegno lo Zibaldone del buon vecchio che ne serbò caro e pregiato ricordo.
Dorati dal fiammante sole di giugno, i festoni di verzura si distendevan superbi da un lato all'altro della via, levando in alto gli scudi, la metà coll'arme de' Medici e la metà coll'arme de' Rucellai. Le pietre ruspe della facciata che la magnificenza di Giovanni Rucellai aveva pochi anni innanzi fatto murare, come credesi, da Leon Battista Alberti, acquistavano quasi nuovo colore coperte com'erano dagli smaglianti parati e dalle ghirlande di fiori penzolanti da' pilastri dorici del primo piano e dai pilastri corinti del secondo e del terzo. Dirimpetto al palazzo, nella piazzuola di fronte alla loggia, era stato eretto un palco che aveva la figura d'un triangolo. Lo copriva, per difesa del sole, un cielo di panni turchini adornato di ghirlande, in mezzo alle quali sbocciavano freschissime rose; mentre di sotto, sull'assito di legno, si stendevano arazzi preziosi, che paravano anche le panche messe lì torno torno per comodo d'aspettare, e le spalliere chiudenti in giro il vago recinto. I lembi del gran velabro turchino scendevano qua e là fino a terra, come aeree colonne. Da una parte di quel gran padiglione sorgeva una credenza su cui splendevano vasi e piatti d'argento lavorati a rilievo da quanti più valenti orafi ed argentieri noverasse allora Firenze: e la ricchezza di quegli arredi annunciava la sontuosità del convito che apparecchiavasi.
Nella via di fianco al palazzo s'eran poste le cucine, dove fra cuochi e sguatteri lavoravano cinquanta persone. Il rumore era grande; via della Vigna da un capo all'altro era piena di gente: agli artefici che avevan preparato gli addobbi, succedevano i messi che portavano i doni degli amici, dei clienti, del parentado: i contadini, i giardinieri, i bottegai, gli speziali che portavano le vettovaglie; i pifferi e i trombetti che preparavan le musiche: i giovani cavalieri che si accingevano agli armeggiamenti nuziali.
Quella domenica – era l'otto giugno del 1466 – poco dopo il levar del sole avea la gente cominciato ad accorrere da ogni parte al palazzo dove le nozze dovean celebrarsi: arrivavano, cara e promettente vista ai curiosi, vitelle squartate, barilozzi di vino greco, capponi quanti ce ne possono stare appiccati a una stanga portata a spalla da due robusti villani, stangate di formaggi di bufalo, coppie di paperi, barili di vino comune e di scelto trebbiano, corbelli pieni di melarance, ceste di pesci di mare grandi e odorosi, paniere di pesciolini d'Arno con le squame d'argento, caprioli, lepri, giuncate. – Venivano, portate dagli ortolani dei monasteri, cestelline di zuccherini, di berlingozzi e d'altre dolcissime delicature preparate dalle candide mani di monacelle gentili: venivano a gran fatica, dondolando la testa fronzuta, e barcollando sui carri tirati da bovi sbuffanti un magnifico ulivo di Carmignano, e ginestre e quercioli tolti alla villa di Sesto, co' fiori che la ridente stagione donava in gran copia.
Dovevano i regali aggiunger magnificenza alla festa, ed esser degni di chi li offriva, e testimoniare insieme l'affetto o la reverenza che portavano i donatori alle due insigni famiglie che con quegli sponsali faceano alleanza. Il giovane Bernardo Rucellai, diciassettenne appena, andava sposo alla Nannina figlia di Piero e nipote al gran Cosimo de' Medici, ed il vecchio Giovanni Rucellai con quelle nozze si levava di dosso il sospetto d'esser nemico alla parte Medicea che, dopo l'esilio di Cosimo, era tornata più forte di prima in Firenze. Era un parentado architettato con sommo studio, che ridondava a decoro della famiglia sua, quanto la facciata di Santa Maria Novella fatta fare all'Alberti, e la cappella in San Pancrazio, e il palagio e la bellissima loggia corinzia di Via della Vigna.
Sottile ingegno avea quel maestoso vecchio con la fronte alta ed aperta, il naso aquilino e i fulgidi occhi di un profondo color cilestro, che pare ancor vivo nella cornice d'un suo antico ritratto. Abbondanti capelli gli scendono in ricche anella sulle spalle e una lunga barba gli ondeggia sul petto, conservando ancora alcune tinte dorate frammiste al grigio della vecchiaia, e con i freschi colori del viso dimostrando una longevità vigorosa. Lo vediamo seduto in un seggiolone a bracciuoli, coperto di velluto cremisi a frangia e borchie d'oro; veste una tunica verde scura ed è ravvolto in un lucco purpureo a risvolte di velluto cremisi. Cogli occhi guarda in alto e lontano come pensando a cose che non sono di questo mondo. Ma la mano destra, adorna di un anello con un grosso brillante, si appoggia con forza al bracciale del seggiolone, e la sinistra aperta accenna ad un codice, ben rilegato, che gli è squadernato dinanzi, sur una pagina del quale leggesi il titolo Delle Antichità. Accanto ad esso alcune lettere dissigillate con l'indirizzo all'illustrissimo signor Giovanni Rucellai. Dietro una tenda di colore scuro, in uno sfondo azzurro son disegnate con grandissima diligenza ed esattezza le sue opere di pietra e di marmo, la facciata di Santa Maria Novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo e la loggia. Quel dipinto compendia l'uomo e le sue glorie: un ricco mercante che poteva diventar parente del magnifico Cosimo di Giovanni de' Medici, il quale – com'ei diceva – è stato ed è di tanta ricchezza e di tanta virtù e di tanta grazia e riputazione e seguito, che mai non fu simile cittadino nè di tante buone parti e condizioni quante sono state e sono in lui.
Ma torniamo alle nozze. Giovanna dei Medici venne a marito quel giorno stesso, accompagnata, com'era costume, da quattro cavalieri de' maggiori della città, messer Manno Temperani, messer Carlo Pandolfini, messer Giovanozzo Pitti e messer Tommaso Soderini. Veniam cioè verrò era scritto, secondo l'uso d'allora su certe cartellette appiccate alle panche parate d'arazzi che eran disposte sotto al padiglione fiorito; e la sposa vi venne, e in su quel palco soffice per i ricchi tappeti si danzò e si festeggiò a suon di musiche, aspettando i desinari e le cene.
Convennero alle nozze 50 gentildonne riccamente vestite e similmente 50 giovani in abiti bellissimi. Durarono le feste dalla domenica mattina alla sera del martedì successivo, e i conviti si tenevano due volte al giorno. Comunemente si convitavano a ciascun pasto cinquanta tra parenti e amici e cittadini de' principali, per modo che alla prima tavola, contando le donne e le fanciulle di casa, i pifferi ed i trombetti, mangiavano 170 persone. E alle seconde e terze tavole dette “tavole basse„, mangiava gente assai, tantochè ad un certo pasto s'ebbero fin 500 persone. Le vivande, che eran quelle prescritte dall'uso, furono squisite e abbondanti: la domenica mattina si dettero capponi lessi e lingue, e un arrosto di carne grossa, e uno di pollastrini dorati con lo zucchero e l'acquarosa: la sera la gelatina, l'arrosto grosso e quello di pollastrini con frittellette. Il lunedì mattina, bianco mangiare, coi capponi lessi e salsicciuoli e arrosto grosso di pollastrini; la sera le solite portate, e più una torta di pappa, mandorle e zucchero che dicevasi tartara. Il martedì mattina, arrosto di carne grossa e di quaglie, e la sera i consueti arrosti e la gelatina. Alle colazioni uscivano fuori in sul palchetto venti confettiere di pinocchiati e di zuccherati, che si distribuivano a profusione.
La spesa di questi conviti ascese a più che 6000 fiorini (circa 150000 lire), somma per quel tempo ingentissima. Si comprarono settanta staia di pane, duemilaottocento pani bianchi, quattromila cialdoni, cinquanta barili di trebbiano, tremila capi di pollame, mille e cinquecento uova, quattro vitelli, venti catini di gelatina; e si arsero in cucina dodici cataste di legna. – Pareva addirittura il regno dell'abbondanza.
Il martedì sera, parte dei giovani che erano stati invitati alle nozze fecero gli armeggiamenti secondo l'usanza, movendosi dal Palazzo Rucellai fino al canto dei Tornaquinci, e di poi in Via Larga sotto il Palazzo dei Medici.
La sposa, chi voglia sapere il corredo e i regali che ebbe, ricevè da diversi parenti non meno di venti anelli; e sei dallo sposo, due quando la tolse, due dello sposalizio, due nella mattina che si donavano le anella. Da Bernardo ebbe cento fiorini e più altre monete: le si fecero ricchi vestimenti: uno di velluto bianco ricamato di perle, di seta e d'oro con maniche aperte foderate di candide pellicce: uno di zetani, drappo di seta molto massiccio, guernito di perle con le maniche foderate d'ermellino.
Ebbe poi una cotta o vestito di damaschino bianco broccato d'oro fiorito, con maniche adorne di perle, e un'altra cotta di seta con maniche di broccato d'oro cremisi ed altri vestiti e sopravvesti, chiamate allora giornee. – Fra le altre gioie ebbe una ricca collana con diamanti, rubini e perle del valore di 1200 fiorini, e uno spillo da testa, e un vezzo di perle che avea per pendente un grosso diamante a punta, e un cappuccio ricamato di perle e una reticella di perle grosse. – La dote, che oggi parrebbe scarsa, fu di 2500 fiorini (circa 60 000 lire), compreso il corredo, nel quale si notano un paio di forzieri con le spalliere riccamente lavorati, e dieci fra cioppe, gamurre e giornee, cioè vestiti lunghi di varia forma di finissime stoffe, e sontuosi ricami d'oro e di perle: una camicia di renso (tela bianca fine operata proveniente da Reims), una cuffia o testiera di stoffa cremisi lavorata di perle, due berrette con argento, perle e diamanti, un libriccino da messa miniato con fermagli d'argento e un Bambino Gesù in cera con la veste di damasco ricamata di perle. Inoltre stoffe in pezza, rasi, damaschi, velluti, guanciali ricamati, cinture, borse, anelli da cucire, agorai, pettini d'avorio, 4 paia di guanti, un cappello alla milanese con frangie, otto paia di calze, tre specchi, un bacino e un mesciacqua a smalto d'argento, un ventaglio ricamato o rosta, e molte altre cose che non si contano.