Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I», sayfa 10
Ma, se non vi spiace, fermiamoci un momento ad osservar queste belle creature che dicono ohimè, e cercano nella frescura delle notti refrigerio al caldo soffocante, e forse all'ardore della passione. Non più volti rosei ed accesi, non più labbra coralline, o del bel rosso garofanato. La moda è cambiata; fin dal 1824, cantava il Guadagnoli:
Un viso rosso è un viso da osteria
E non è un viso di galanteria.
Le donne son diventate pallide, languide, sentimentali: l'anemia romantica, il veleno sottile della passione è penetrato nelle lor vene, e un ardore interno, nuovo, insolito, misterioso, le abbrucia. Prima, quando la Gazzetta di Firenze annunziava in 4ª pagina la Biblioteca piacevole ed istruttiva pubblicata da Guglielmo Piatti, che conteneva la Storia dei quattro spagnoli, in 11 volumi, le Sventure della famiglia d'Ortemberg, in 6 volumi, il Cimitero della Maddalena, in 8 volumi, e altre dilettose novità di questo genere; le donne non consumavan le veglie in simili letture, e all'amore bell'e fatto dei romanzi preferivano quello che sapevano fabbricarsi da loro; al sentimento preferivano la realtà, magari un po' volgare, un po' prosaica, ma viva e palpitante.
Tutto il periodo napoleonico, nella vita, nell'arte, nella letteratura fu l'apoteosi della forza, del vigore, della forma. La pittura, la scultura, la moda idoleggiarono la bellezza esteriore; e quell'aura di rinnovato ellenismo, che aleggiò da per tutto, ricoperse con gli studiati lenocinii d'un'arte mascherata all'antica il sensualismo, che il settecento aveva incipriato con la galanteria. Scomparso l'eroe – o l'eroe de' farabutti come lo chiamava il D'Elci – il sensualismo rimase. Non più guerre, non più quei macelli di giovine carne umana che lasciavano tanti vuoti dolorosi nelle famiglie e nel censimento: seguì la gioia del vivere, un senso di liberazione, come di chi si toglie un incubo doloroso; e il desiderio del piacere – l'epicureismo del D'Elci, – prese il sopravvento. Si cominciò a ballare e a godersela al Congresso di Vienna, mentre tutta Europa attendeva ansiosa il proprio assetto definitivo. Ma sì! chi poteva frenare quegl'impeti folli?
Poi seguiron le restaurazioni; la religione riebbe il disopra, riprese a poco a poco il suo impero: le leggi, i motupropri tentarono rimettere le nuove generazioni, dopo tanti anni di sregolatezze giacobine e soldatesche, nella vecchia carreggiata. Ma ci volevano altro che le prediche del Presidente del Buon Governo e le musonerie del Granduca! Il mondo va da sè, ripeteva con la sua ghigna sarcastica il conte Fossombroni, e dai rapporti della polizia lo sapeva lui dove andasse. Perchè il paterno regime di Ferdinando III e di Leopoldo II ebbe sempre gran cura di sapere a puntino ciò che si faceva nelle famiglie, nelle dimore patrizie e nelle case dei cittadini. Fioccavano le denunzie anonime: si mettevano in moto gli emissari, si riferiva, si scriveva, si chiamavano i colpevoli a Palazzo Nonfinito o negli Ufizi dei Commissari: e lì grandi lavate di capo e minacce di sfratto pei non regnicoli e per gli altri minacce di clausure in conventi e d'esercizi spirituali in qualche casa di novizi. La gente stava a sentire, lasciava passar la burrasca: e poi daccapo, come prima, se non peggio di prima!
L'esempio, diciamolo pure, veniva dall'alto, non dalla Corte però; anche i Vicari e i Ciambellani e i Podestà e i Governatori erano spesso soggetto d'inquisizioni, e la loro domestica infelicità era argomento d'inchieste e di sopraccapi per i Ministri e per lo stesso Granduca. Chi legga le polverose filze della Presidenza del Buon Governo troverebbe talvolta particolari curiosi. Oh, l'occhio della Polizia è come quello di Dio, e vede attraverso le pareti, nei salotti eleganti, nelle alcove discrete; e il buon pastore di questo gregge toscano doveva pur confessare a sè stesso d'aver nel branco parecchie pecore matte!
Ma, in buon punto, capitarono a Firenze i forestieri e dilagò la colluvie de' romanzi sentimentali: tutto allora cambiò, a poco a poco, carattere, e la passione accese i cuori, e l'amore bell'e fatto dei romanzi, il misticismo, l'ideale fu come un balsamo salutare, che calmò gli ardori troppo scomposti. L'amore bell'e fatto, rese inutile quello da farsi: o almeno lo rivestì d'un velo d'idealità vereconda. E la moda aiutò, cooperò alla riforma: non più le vesti attillate e discinte che consentivano ogni linea della persona. La Rivoluzione, ne' suoi impeti selvaggi, aveva spazzato via i guardinfanti, i paniers, i busti che stringevano i fianchi e la vita. Durante l'Impero non fu possibile la restaurazione del busto, perchè Mad. de Longuéville e l'Imperatrice, la cui vita era corta e tozza, vi si opposero recisamente. Più tardi, dopo il 1820, e trionfalmente nel 1825, riapparve con le sue stecche, co' suoi legacci, con le sue morse di ferro, chi sapeva con arte comprimere i superbi, sostenere i deboli e gli smarriti, sostituire gli assenti. – La gemma rientrò nel suo astuccio; e sotto le sapienti corazze fu più malagevole trovar la via dei deboli cuori.
IV
Ma, non avvertiti dalla gente leggiera, in mezzo a queste mondanità e galanterie, di cui tentai abbozzarvi un quadro fuggevole, vivevano in Firenze uomini seri e gravi, compresi dell'assunto che spettava all'Italia dopo la ruina napoleonica, e che con gli scritti, con l'opera, nei crocchi fidati, tendendo l'orecchio ad ogni bisbiglio di libertà, preparavano i tempi nuovi e le libere istituzioni. Costoro, non sdegnavano mescolarsi alla turba de' gaudenti, e dei giramondo; anzi, a sommo studio, nascondevano i segreti pensieri sotto le più spensierate apparenze. Firenze, in cotesto periodo, ebbe la fortuna di aver nel suo seno, fra gli altri, tre uomini: Gino Capponi, Cosimo Ridolfi e Pier Francesco Rinuccini.
Com'è virtù dei minerali di cristallizzare in una forma determinata, così è di certe figure ideali. Gino Capponi, a tutti noi che lo ammirammo vecchio, cieco e venerando, apparve quasi cristallizzato in quelle gravi ed austere sembianze. Il candido Gino della Palinodia leopardiana, lo fece a molti ingenui creder canuto anzi tempo. Ma tale non fu sempre; e a noi piace rievocare la giovanile immagine del gentiluomo dotto, operoso, intelligente, che fin dall'uscir dell'adolescenza, avea dato saggio di dottrina non frequente nei marchesi d'allora e di poi, possedendo il latino, il greco, il francese, l'inglese e il tedesco, studiando le matematiche con passione. Rimasto vedovo a ventidue anni, con due bambine di cui prese cura la marchesa Maddalena, piissima donna, potè dedicarsi interamente alle lettere, viaggiar l'Italia, osservandone i monumenti e i capolavori dell'arte, e nella vita di Corte, cui fu chiamato a partecipare per la benevolenza di Ferdinando III, non affatturare il carattere. Un viaggio in Francia e in Inghilterra, donde ritornò per il Belgio, l'Olanda, la Germania e la Svizzera, fu veramente il principio della sua virilità morale. Ne tornò con idee che in un paese dove, come diceva il Fossombroni, si facevan le cose da vinai, potevan sembrare sospette di soverchio liberalismo. L'Inghilterra, la Svezia, l'Irlanda, con le loro istituzioni nazionali, gli parvero paesi ammirabili. Conobbe personaggi illustri, avvicinò gli esuli italiani, fra i quali Ugo Foscolo, vagheggiando di stringer con essi relazioni frequenti per la pubblicazione d'un giornale; fu presentato in nobili ed ospitali famiglie, attinse informazioni preziose sulle scuole, l'educazione e l'insegnamento, ammirò le corse e i cavalli, rovistò nelle botteghe de' librai e ne' magazzini dei sarti, collazionò per l'abate Masini vari codici del Decamerone, eseguì le commissioni degli amici che volevano acquistare tabacchiere e tela batista, s'empì la testa di cognizioni di politica, di letteratura, di storia e i bauli di robe – come e' diceva fashionabilissime – e dopo una lunga peregrinazione tornò a casa rattristato dall'idea di ricader sotto l'unghie dei tedeschi e dei preti, e di una massa di volgo degno degli uni e degli altri.
Effetti di quel viaggio furon le cure ch'egli pose alle scuole lancasteriane di mutuo insegnamento, insieme col Ridolfi, e l'istituzione di un Collegio per le fanciulle del patriziato, che sorse di poi col patrocinio dell'Arciduchessa sposa, e fu quello della SS. Annunziata. Le bianche e morbidissime mani delle ragazze inglesi, da lui ammirate, gli fecer pensare alle gialle e povere mani delle ragazze italiane, condannate dall'educazione codina agl'inutili ricami, ai fiori di carta, alle frutta di lana e all'ornamento delle pantofole e delle berrette paterne.
Frattanto un altro disegno, quello del giornale, che ruminava anche in viaggio trottando sul cielo delle carrozze di diligenza, avea trovato occasione propizia ad esser effettuato. Nel luglio 1819 era venuto in Firenze un ginevrino, oriundo di Oneglia, che dopo aver percorso Europa ed Affrica per i commerci del padre e proprio, e dalla Finlandia alla Barberia visto e osservato di molto, aperse nel gennaio del 1820, a' primi due piani del palazzo Buondelmonti a Santa Trinita, quel Gabinetto letterario ove si raccolsero, in un intento concordi, i migliori ingegni italiani. Giampietro Vieusseux univa alla operosità del commerciante, l'ingegno del giornalista, l'istinto, la misura, le audacie d'un editore di genio. Il Capponi, conosciuto l'uomo, lasciò l'opera al signor Pietro, come gli piaceva chiamarlo con amorevole, e tra signorile e popolare familiarità. Così al Saggiatore, risorto per poco seguì l'Antologia, di cui il Capponi fu la mente regolatrice; perchè il nome del signor Gino, come gli scriveva il Cellini, conciliava molte amicizie. – Ma del genius loci del Gabinetto e dell'Antologia ch'ebbe l'onore di ravvivare il culto delle patrie lettere e dar ombra all'Austria e parecchi fastidi al Governo granducale, costretto più tardi a sopprimerla, non è qui luogo per discorrere con quell'ampiezza che il soggetto richiede. Basti ricordare le riunioni che il Vieusseux soleva tenere settimanalmente la sera, precedute da un modesto pranzo al quale invitava alcuni degli amici più assidui: il Niccolini, il Montani, il Colletta, il Pepe, il Tommasèo, il Giordani e quel feroce lodator di sè stesso che fu Mario Pieri, cronista di cotesti ritrovi in quel giornale manoscritto, per il quale è assai più noto che non sia per le operette in prosa e per quelle – Dio ce ne scampi – in versi! Il Gabinetto era un centro pericoloso di propaganda liberale. I giornali e i periodici che vi giungevan di fuori, i libri, le stampe, eran merce da tenersi d'occhio. La polizia vigilava: in un rapporto d'un confidente, del 30 luglio 1822, si racconta essere stato veduto nel Gabinetto Vieusseux un rame rappresentante tutti i principali sovrani d'Europa stretti insieme con un basamento sulla testa, sul quale posa la statua della Costituzione. Proprietario del rame era naturalmente il marchese Gino Capponi, «che più volte ha fatto capitare in quel Gabinetto articoli di simil genere, che gli vengono dall'estero per vie segrete.»
La società letteraria fiorentina e anche la politica liberale, faceva capo sempre al Capponi e al Gabinetto. Il Vieusseux era giudicato un liberale feroce, astuto e intraprendente: era sospettato di aver relazioni coi rivoluzionari più pericolosi; ma non poteron mai coglierlo in fallo, nè il governo ebbe mai l'audacia di «penetrare nei recessi del Gabinetto» o di molestare il Capponi. Ferdinando III, che nel suo esilio di Salisburgo, scriveva al padre del marchese Gino, «finchè avrò vita sarò italiano,» non volle mai piegare ai rigori e agli ammonimenti dell'Austria: e quando il Salvotti tempestava da Milano affinchè Gino Capponi fosse mandato a deporre de' carteggi passati fra lui e il Confalonieri, il Granduca fece rispondere ch'egli non obbligava a cotesti uffici i suoi gentiluomini. – Così, fra le distrazioni mondane e lo studio del greco, il Marchese preparavasi ad essere, per il suo paese, quel che il povero Confalonieri avrebbe bramato d'essere per il proprio.
Il Capponi portava il nome, la fama, la ricchezza e la stima di tutti con quella disinvoltura colla quale indossava il vestito più scelto, foggiato sul figurino di Londra. I pettegolezzi del bel mondo ascoltava pacato, ma non degnava ripeterli neppure ai più intimi. Nel 1821, quando il conte Giraud già sfogava la sua vena satirica nei salotti fiorentini, il Capponi scriveva al Velo: «V'è un suo epigramma recente, che forse voi potreste aver curiosità di conoscere, ma io non sarò mai quello che ve lo dirò, perchè l'argomento è di quelli che non vo' toccare.» Dagli ozii meditabondi di Varramista, tornava alla vita elegante in qualcuno di quelli accessi di dissipazione ond'era preso, ma che – com'e' sentiva – non erano vizio organico in lui. Al marchese Pucci, che se la spassava a Londra, soleva dare commissioni mondane, ordinando al sarto Stultz vestiti e sottoveste di picqué; e al sarto Williams pantaloni di panno bleu e di rusciadok. Desiderava camiciole di maglia della più fina, pezzole da collo bianche, fazzoletti di seta da naso, se vi erano fashionabilissimi e scatole da tabacco di Scozia, fra le quali alcune da donne. Poi macchinette per temperare le penne e riappuntarle, e rasoi; ma insieme i classici, le opere di Byron, e qualche bel libro di storia.
A lui, grande e liberale signore, ricorrevan gli amici per ogni impresa da tentarsi, per ogni opera buona: e lo trovavano sempre pronto a spendere il denaro e a pagar di persona. Guglielmo Libri, ingegno potente, sviato da una gioventù tempestosa, ebbe da lui ammonimenti, aiuti, consigli. Pietro Colletta, venuto a Firenze quasi infermo pel freddo sofferto in Moravia dov'era stato relegato, trovò quiete ed agio agli studi in una villetta cedutagli dal Capponi, vicino alla Pietra, e quivi scrisse gran parte della sua Storia. A correggere le pagine dell'amico, che diceva d'aver un cuore come la cupola del Duomo e di sminuzzarlo nel suo stile, si riunivano intorno al Colletta, il Capponi, Giuliano Frullani ingegnere e uomo di molta coltura, il Vieusseux, il Montani, Giacomo Leopardi, il Giordani, il Niccolini e Francesco Forti. Di quelle correzioni il Colletta era lieto, e una volta si sdegnò col Leopardi che in parecchi quinterni della Storia avea mutati soltanto un alla in nella e un cosicchè in sì che. Erano conversazioni caldissime, nelle quali spesso il Giordani arrabbiavasi, e il Niccolini si accendeva. Mario Pieri, il vero Pilade di cotesti letterati tanto di lui maggiori, era ogni settimana in lite con qualcuno: perfino col Niccolini, che credette geloso d'un premio datogli dalla Crusca, ma con il quale si rappattumò per tornare alle solite colazioni a cui l'amico lo invitava, e che d'estate e d'autunno consistevano soltanto in un piatto di fichi.
La società letteraria toscana aveva poi alcune Egerie, e prima di queste, la marchesa Carlotta de' Medici Lenzoni, nella cui casa il Giordani conobbe quella giovinetta quattordicenne bellissima, tutta occupata in una malinconia inconsolabile, ch'ei celebrò con una delle più sonanti sue prose: la Psiche di Pietro Tenerani. In casa della colta donna, che fregiò il sepolcro del Boccaccio a Certaldo, convenivano col Niccolini, col Pananti, col Pieri, col Giraud, col Montani e col Nota, la Rosellini, scrittrice di versi ormai dimenticati, e quanti artisti e musicisti fossero di passaggio a Firenze. E dalle sorelle Certellini, nella Vigna Nuova, in quella casa che è a fianco della Loggetta Rucellai, si raccoglievano in più intimi e più modesti colloqui gli ammiratori fidati del Niccolini, che vi fu ospite e quasi padrone fino agli ultimi suoi anni.
Ma di salotti letterari, chiuso quello della D'Albany, non ve n'ebbe allora propriamente alcuno a Firenze. Il fiore della società seria e colta raccoglievasi dal Vieusseux, e non mancava di fare una visita al marchese Capponi. Dal Vieusseux, ogni tanto capitava un dotto di grido; e allora i ricevimenti eran quasi solenni, come quando nell'agosto del 1827 giunse con la moglie e sei figliuoli Alessandro Manzoni, e vi comparvero ammirati e festeggiati il Fauriel, il Sismondi, Casimir Delavigne, il Savigny, Bartolommeo Borghesi, Champollion, il dantofilo Witte, il conte di Guilford e tanti altri illustri.
Perchè Firenze, anche allora, fu mèta desiderata d'ogni artistico pellegrinaggio, e rifugio quieto e sicuro alle grandi anime meditabonde. Lord Byron ci venne nel 1817, per visitare le gallerie, dalle quali – com'ei scrive – si esce «ubriacati di bellezza.» Lo Shelley, che vi stette alcuni mesi del 1819, e vi compose l'ultimo atto del Prometeo, nella Venere Medicea, nella Niobe e nelle tele riprese alla Francia e riportate trionfalmente fra noi, tre anni innanzi, dal senatore Alessandri e dal pittore Benvenuti, cercava lo spirito delle forme ideali. Ma non potè trattenercisi a lungo, a cagione del vento gelato e dell'acqua cattiva. Pure alle Cascine, dove gli piaceva passeggiar solitario, scrisse l'Ode al vento d'ovest, una delle sue liriche più perfette, e in Galleria immaginò il frammento sulla Medusa di Leonardo, dove ha tentato esprimere le impressioni che la poesia può attinger dall'arte.
Samuele Rogers passava le intere mattinate nella Tribuna, contemplando la Venere, non so se per animarla o per esserne animato alla poesia. Walter Savage Landor, giunto in Firenze nel 1821, ci rimase tutta la vita, dimorando prima nel palazzo Medici e poi in quella villetta fiesolana a cui traevano quanti inglesi capitavano in Toscana, ammirati dello scrittore che nelle Conversazioni immaginarie e nelle elegantissime prose, seppe congegnare l'arte e la erudizione, l'antico e il moderno, e l'un coll'altro animare. Brusco, stravagante, non tollerava soperchierie: dell'ordine di sfratto datogli da un birro di bassa sfera, messo su da un servo cacciato per ladro, appellossi al Granduca che gli dette ragione. Della società fiorentina era poco amico e non grande estimatore; e ne scriveva a periodici inglesi liberamente, narrandone le grettezze, e fra le altre quelle d'un certo signore che vendette gli spogli della moglie non appena fu morta. Col marchese Medici si guastò e gli scrisse, dolendosi che gli avesse preso un cocchiere. Il Medici, andato per iscusarsi forse, entrò nel salotto, dov'era la signora Landor, con il cappello in testa. Sopraggiunto il Landor, gli cavò di testa il cappello e presolo per un braccio lo mise fuori, e gli mandò lui poi la disdetta per mano d'un birro.
V
Ma poichè l'ora ci sforza a conchiudere, torniamo alla politica, soltanto per accennare ad alcuni degli avvenimenti più memorabili, occorsi fra il 1815 e il 1831.
Il 30 settembre 1817 sotto le maestose vòlte di Santa Maria del Fiore, monsignor Morali celebrava le nozze di Carlo Alberto di Savoia-Carignano con Maria Teresa di Toscana, giovinetta sedicenne, pia ed ornata delle doti più squisite che convengano ad una principessa. Le solite salve di gioia, i soliti colpi di cannone, le vie affollate, due file di soldati per lo stradale dal Duomo a Pitti; e poi pranzo di gala a Corte, passeggiata alle Cascine in gran treno e la sera fuochi d'artifizio dalla torre di Palazzo Vecchio. Il 6 ottobre gli sposi partiron per Torino, accompagnati sino al Covigliaio, sull'Appennino, dal Granduca, dall'arciduca Leopoldo e dalla sorella. – Il 16 novembre altri sponsali nella chiesa dell'Annunziata. Leopoldo, Gran Principe Ereditario di Toscana, sposava la principessa Maria Anna Carolina di Sassonia. Nuove feste, nuove cannonate, e fuochi d'artifizio, e pranzi di Corte e balli ne' teatri; ma il matrimonio auspicato rimase infecondo, e per evitare che la Toscana passasse nel dominio di Casa d'Austria, secondo i patti di famiglia e i trattati, Ferdinando III che aveva superato la cinquantina s'indusse il 6 di maggio 1821, a sposare in seconde nozze Maria Ferdinanda di Sassonia sorella della sua nuora.
Il 2 aprile 1821, alle ore 3 dopo mezzanotte, sotto il nome di Conte di Barge, scendeva alla Locanda dello Shneiderff, Lungarno Guicciardini, S. A. Serenissima il Principe di Carignano. Alle 8 inviava a Palazzo Pitti l'aiutante a partecipare il suo arrivo al Granduca, e alle 9 recavasi personalmente a visitarlo, restando più d'un'ora a colloquio col suocero, e tornando dipoi a pranzo con i Sovrani senza nessuna formalità d'etichetta. Ospite forzato del Granduca, presso il quale pochi giorni dopo lo raggiungeva la principessa Maria Teresa che da Nizza a Livorno corse pericolo di naufragare col figlio, Carlo Alberto portava attorno per la città la sua faccia seria e triste che la gente avvezza a veder sempre volti gioviali guardava con meraviglia. Gli toccava andar qua e là con la Corte, a Siena per assistere a noiose e interminabili processioni, a Prato per un'orribile corsa di cavalli; e seguiva il Granduca, ringiovanito e ringarzullito dal secondo matrimonio che in cappello di paglia e con le ghette visitava le sue tenute, a piedi, dando una tastatina ai foraggi e un'occhiata alle biade, come un buon proprietario. Una parte dell'estate si passava al Poggio Imperiale, donde il Granduca scendeva a piedi in città: la sera passeggiata alle Cascine, frequentatissime dai forestieri, e al teatro quando non c'erano ricevimenti a Corte. Il Principe di Carignano, avvilito, malvisto, chiudendo in cuore come un rimorso il segreto della sua condotta, passava dalle cupe tristezze alle distrazioni mondane, delle quali al suo buono e leale scudiere, al suo Sancho Panza, Silvano Costa, toccavano alle volte le più difficili soluzioni. Il 16 settembre 1822, accadde alla Villa del Poggio un fatto che per poco non tolse all'Italia il suo futuro liberatore. La nutrice del piccolo Principe di Carignano, volendo con un cerino ammazzare le zanzare, dette fuoco allo zanzariere del letto di Vittorio Emanuele; e vedendo il letto in fiamme, per salvare il fanciullo che ebbe soltanto alcune ustioni in tre parti del corpo, rimase talmente offesa da correr pericolo della vita. Alla principessa Maria Teresa, che due mesi dopo dava in luce il principe Ferdinando, futuro Duca di Genova, dovettero levar sangue per lo spavento avuto.
Il 18 giugno 1824, dopo cinque giorni di malattia, mentre tutta Firenze e la Toscana trepidava per la sorte del Principe, Ferdinando III moriva. Quella morte parve una pubblica sventura: la gente piangeva per le strade, ed eran lacrime vere, spontanee, sincere, e piangevano gli esuli che del principe buono riconoscevano le virtù, e i liberali che ne sapevano a prova la tolleranza. Il Landor, fa del Granduca un degnissimo ritratto, in un de' suoi Dialoghi immaginari, e ne riferisce gli ultimi detti al figliuolo Leopoldo: «Abbi cura di mia moglie, di tua sorella e del mio popolo.» E poi dopo una pausa: «In queste circostanze si chiudono i teatri per un tempo assai lungo: ma molti, che ci campano, ne soffrirebbero; abbrevia il lutto di Corte!»
Poche ore dopo che il cadavere del buon principe era stato chiuso ne' freddi sepolcri di San Lorenzo, mentre il Principe ereditario e la Granduchessa eransi ritirati a sfogare il cordoglio nella villa di Castello, il conte di Bombelles, ministro d'Austria, si presentò a Corte per parlare all'arciduca Leopoldo, dicendo avere istruzioni da Vienna per lui. Il Fossombroni, subodorato l'inganno, si affrettò a riceverlo in qualità di Ministro segretario di Stato del nuovo sovrano, la cui successione al trono avrebbe voluto il Bombelles impedire, e all'alba del 19 giugno pubblicava un editto per annunziare la morte di Ferdinando e l'assunzione del novello Granduca, col nome di Leopoldo II.
Questi diminuì subito d'un terzo la tassa prediale, revocò l'altra sui macelli che vigeva fin dal tempo della repubblica, compilò il nuovo catasto, continuò le bonifiche maremmane, dette esempi quasi ostentati di economia. La bottiglia di Borgogna che centellinava a desinare, ritornava in tavola scema parecchi giorni: modesto il vestire delle principesse, modesta la vita di Corte. Durava ancora nel Governo la politica paterna di Ferdinando: gli esuli tollerati; minacciati di sfratto, se allegavano alcuna scusa rimanevano senza molestie. Ricorderete il famoso duello del Pepe col Lamartine, che la polizia non soltanto non riuscì ad impedire, ma di cui ebbe notizia a cose fatte; e il Pepe restò a Firenze quasi benviso agli stessi governanti. Al duello aveva pòrta occasione la nota disputa sul verso di Dante: Poscia più che il dolor potè il digiuno, sostenendo l'avvocato Carmignani che il conte Ugolino avesse divorati i figliuoli. E corse allora, nel 1826, per Firenze il seguente epigramma:
Che un uom per fame mangi i figli morti
Non può sembrare strano a un avvocato,
Che divora per genio disperato
Vivi coi figli i padri e i lor consorti.
La Censura e il Buongoverno non riparavano: un'aura epigrammatica alitava per Firenze, come più tardi quando a Giuseppe Giusti dette forse, coi versi del Giraud, le prime ispirazioni alla satira. Nelle carte del Censore, padre Mauro Bernardini, esiste una raccolta di epigrammi, di cui sembra autore un certo Gherardo Ruggieri; e se ne leggon di quelli che assai dopo il 1826 trovarono chi li mise fuori per propri.
Un buon pievano a Serafin pittore
Ministrando l'estrema eucaristia
Diceva: «Serafino, ecco il Signore
«Che verso voi s'invia
«Qual di Gerusalemme entro le mura.»
Ed ei con voce fioca: – «Sì signore,
«Ben lo ravviso alla cavalcatura.»
Anche in Toscana l'opposizione liberale, non avendo altri mezzi, si sfogava coi versi, se non riusciva a compromettere il Sovrano con qualche bene architettato espediente. Nel 1830, quando Leopoldo II doveva tornare da Vienna, dove si temeva avesse ceduto alle suggestioni dell'Austria, parve opportuno a Cosimo Ridolfi, al Capponi e al Rinuccini, fargli affettuose accoglienze, celebrandone il ricordo con una iscrizione da incidersi in una marmorea colonna che doveva sorgere tre miglia fuori della Porta a San Gallo, sulla via Bolognese. L'epigrafe dettata da Pietro Giordani era stata approvata, conceduto il permesso di raccogliere pubbliche sottoscrizioni per le feste… Quando ad un tratto fu revocato il permesso, e ogni manifestazione proibita. Il Ridolfi, il Capponi e il Rinuccini rinunziarono, quegli l'ufficio di Direttore della Zecca, questi il grado di ciambellani. Il giorno dopo che le rinunzie furono accettate, Giuseppe Poerio e Pietro Giordani, che da molti anni avean dimora in Firenze, ebbero ordine perentorio di sfratto, e ordine di partire ebbe altresì il generale Colletta, che potè ottenere una dilazione a causa della sua rovinata salute.
La polizia diretta allora dal Ciantelli e sobbillata dai sanfedisti, sospettosa dei moti rivoluzionari scoppiati qua e là dopo le mutazioni di Francia, cominciava a incrudelire, e guardava con occhio bieco anche il monumento a Dante Alighieri che nel 1830 fu inaugurato in Santa Croce. Il Principe non aveva chi gli desse consigli sinceri, chi bilanciasse il prepotere del Ciantelli. I moti di Bologna e di Modena del febbraio 1831 e quelli dello Stato Romano, la insurrezione che circondava da ogni parte la Toscana, richiedevano preveggenze e ripari.
I più ardenti fra i liberali fremevano: sembrava giunto il momento di costringere il Principe a dare una costituzione. Guglielmo Libri, tornato da Parigi dov'era stato assai implicato nei moti di luglio, si recò, nel gennaio 1831, da Gino Capponi per averlo favorevole alla preparata cospirazione.
La sera di Berlingaccio, mentre il Granduca secondo il solito, passeggiava nella platea del Teatro della Pergola, dovevano i congiurati accerchiarlo, rapirlo e condurlo in luogo sicuro per costringerlo a firmare non so che fogli. Ma il Capponi saviamente si oppose, perchè gli parve cotesta opera rischiosa, d'esito ruinoso, tale da consigliare poi il Principe a secondare i disegni dell'Austria. E la congiura, benchè tentata, fallì.
Il Granduca, la sera del 10 febbraio 1831, andò secondo il solito alla Pergola e dopo le dieci e mezzo scese in platea e ci rimase fin dopo mezzanotte. La Polizia vigilava: il Libri ed i suoi non comparvero. Ma presso al Granduca, con un'arme corta nascosta nella manica, stava un certo Marco Ciatti, custode della Riccardiana, uomo robusto e risoluto, deliberato a manomettere chi primo alzasse una voce.
Il solo congiurato era lui!
Signore e signori,
Giacomo Leopardi, in un di que' suoi Pensieri tersi e taglienti come il cristallo, lamentando che il recitare i componimenti propri sia uno dei bisogni della natura umana, augurava s'istituissero accademie o atenei di ascoltazione dove persone stipendiate ascolterebbero, a prezzi determinati, chi volesse leggere.
Il voto beffardo del Poeta recanatese può dirsi oggi – ma a rovescio – effettuato, grazie alla vostra indulgenza.
La donna, la fragile creatura cantata dai poeti, che fresca e sorridente sa resistere ad una nottata di cotillon, e vegliare infaticata a studio della culla, questo essere delicato e gentile, ha ora saputo darci un'altra prova della sua tempra d'acciaio, resistendo a un corso di quindici letture.
Diciamolo all'inglese, signore: – A voi il record della pazienza!4.
Pasqua del 1897, 18 aprile.
Guido Biagi.