Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I», sayfa 9
II
Piccole le figure; ristretto e piccino anche il quadro.
La Firenze di cotesto periodo non era della Firenze d'oggi che il boccio, apertosi più tardi nel fiore che ne uscì fuori con tanto rigoglio e tanta vivezza di colori e di profumi. Allora noverava circa 80,000 abitanti: e nel perimetro della quarta ed ultima cerchia delle sue mura, spesseggiavano verso la cinta gli orti, i giardini, i poderi, tanto da occuparne un buon terzo. Nel centro, le strade, intorno al Vecchio Mercato ed al Ghetto che abbiam veduto distruggere, erano strette, malagevoli, storte. Via de' Calzaioli, che allora chiamavasi Via dei Pittori e Corso degli Adimari, era così angusta che non vi passavano due carrozze di fronte, e quando fu allargata nel 1842 abbattendo l'antica torre che sovrastava il suo ingresso verso Piazza del Duomo, la pacata musa di Emilio Frullani ne salutò la scomparsa non senza rimpianto.
Cadrai tu pure, antica
Torre degli Adimari;
E non gente nemica,
Ma cittadini avari
Ti combattono i fianchi, e si saluta
Con plauso il giorno della tua caduta.
I Lungarni, di qua terminavano al Ponte alla Carraia, e poc'oltre Piazza de' Cavalleggeri: di là al Ponte S. Trinita e al Torrino di Santa Rosa. Strettissime Via de' Martelli, Via de' Cerretani, Via de' Panzani e Via de' Tornabuoni, dove la loggetta del palazzo Corsi sorgeva al fianco del palazzo Strozzi. Le Cascine arrivavano sin presso S. Lucia sul Prato, e vi si accedeva o dalla Porta al Prato o dalla Porticciuola di Piazza delle Mulina, dov'è ora Via Curtatone. Fra Valfonda e Via della Scala, nell'area occupata dalla Stazione e dalle strade adiacenti, si stendevano orti e poderi; fra Via S. Zanobi e l'odierna Via Guelfa sino alle Mura, orti e poderi; e così fra Via del Maglio (Via Lamarmora) e Via Gino Capponi, e in quel grande rettangolo che avea per lati: Borgo Pinti, Via de' Pilastri e Borgo la Croce e le mura da Porta a Pinti a Porta alla Croce.
In Piazza del Granduca, fra Calimaruzza e Vaccherecchia, la Tettoia de' Pisani copriva l'edificio della Posta, dove entravano e donde movevano allo squillo delle cornette le vetture corriere, co' variopinti postiglioni a cavallo, svelti e vivaci alla partenza, sudati e polverosi all'arrivo desiderato, e sempre accerchiati e molestati dai monelli, dai curiosi, dai fannulloni. Traverso alle inferriate del palazzo si distribuivano le corrispondenze: e nei giorni di posta (perchè a quei tempi beati anche la posta si riposava), sotto il tetto de' Pisani affluivano quanti aspettavano lettere: e ne chiedevano agl'impiegati con quell'ansietà onde ne chiedono anch'oggi, e ne erano accolti colla stessa fiaccona. Di solito, tranne nelle vie principali e la festa, o per qualche ricorrenza, poca gente per le strade. Vetture di piazza non c'erano: fino al 1824 S. Fiacre non ebbe culto fra noi. In quell'anno ne comparvero cinque o sei, ed ebbero per stazione Piazza del Duomo presso il Sasso di Dante. In Via Larga, di faccia al palazzo Riccardi, fra una lastra e l'altra cresceva l'erba. Modeste le botteghe, anch'esse tagliate all'antica: come quelle più antiche del Ponte Vecchio o le ultime scomparse presso Badia, aveano dinanzi un muricciuolo, entro il quale si apriva uno stretto usciolino, e di qua e di là sul muricciolo eran le bacheche, di vetri verdastri, tra le cui crociate entrava nella bottega una luce discreta… come i prezzi d'allora. Dopo il 1814, cominciarono a comparire nei negozi più eleganti le prime vetrine, e ne segnala lo sfarzo meraviglioso nella sua Cronaca manoscritta Gaetano Nardi, cuoco degl'illustrissimi marchesi Niccolini, che a' suoi padroni lasciò in retaggio venti e più volumi di storie, dove ragiona di tutto, d'archeologia e d'edilizia, di religione e di politica, dimostrando le strette attinenze che ha sempre avuto la politica con la cucina.
La vita fiorentina di quegli anni, la vita pubblica almeno, consisteva in feste di chiesa, in processioni, sfoggiate e solenni, in fiere di nocciuòle, di cocci di cianfrusaglie, in riviste o come dicevansi parate militari, in corse di barberi, nelle quali si correvano palii o bandiere, nella gran corsa dei cocchi in Piazza S. Maria Novella la vigilia di S. Giovanni, in fuochi artificiali che per lo più scoppiavano e sfolgoravano in razzi e pioggie luminose dall'alto della Torre di Palazzo Vecchio; in mascherate, in festini sotto gli Ufizi, ed in balli. Lo scoppio del carro del Sabato Santo, la fiera della SS. Annunziata l'8 settembre con l'illuminazione e le rificolone, richiamavano a frotte il contadiname e la gente de' paesi vicini, que' buoni terrazzani che, nelle solennità, assaporavano con ghiotta parsimonia un di quei gelati del Bottegone, mantecati, deliziosi, che si ergevano piramidali sopra uno stretto ed esile bicchierino. Le processioni, i servizi di chiesa, ristabiliti col 1815, quando si ripristinarono con gran pompa le feste del Corpus Domini e di S. Giovanni Battista, empivano d'allegrezza l'animo di tutti, e di rimpianto chi era impedito d'assistervi. Giacomo Leopardi, tormentato da uno de' suoi mille malanni, scriveva nel 1827: «Domani sarà per me un giorno feriato. Gli altri avranno corse di bighe, corse di barberi dei primi d'Italia, fuochi artifiziali che costano non so quante migliaia… Io non vedrò nulla, e me ne dispiace.» E davvero c'era di che lamentarsi!
Per il Corpus Domini si faceva la gran processione, preparata, aspettata, desiderata di lunga mano. I giorni innanzi si stendevano grandi tendoni bianchi sulle vie per cui doveva passare, e già la città pigliava un aspetto festivo. Chi abitava più su dei primi piani doveva rassegnarsi a non veder nulla di casa sua; ma i favoriti dalla fortuna addobbavano le finestre e i terrazzini con tappeti ed arazzi, preparavano le bombole, gli scartocci o le padelle per l'illuminazione, con gran gioia dei ragazzi che già apparecchiavano lo stomaco per i rinfreschi e sognavano la notte i fuochi, i soldati e gli spari. Finalmente veniva il gran giorno, salutato dallo scampanìo di tutte le chiese. Il momento solenne si avvicina. Ecco la processione: sfilano le compagnie delle parrocchie con gli stendardi e i fuciacchi; seguono le fraterie salmodiando; e poi, precede il clero di S. Lorenzo, e quello della Metropolitana, prima i seminaristi poi i chierici. Segue un battaglione di fanteria con banda; indi i cappellani e un battaglione di granatieri. Ecco le livree di Corte, la nobiltà in uniforme e spadino, e l'uffizialità in gran montura. Seguono i canonici della Metropolitana, i furieri e gli uscieri in uniforme di gala, poi i ciambellani coperti di croci e di ricami, i canonici dignitari con le pellicce magnifiche, i consiglieri che recano torce date dalla Corte, i Ministri ecclesiastici parati, le cariche di Corte con torcie, e finalmente il baldacchino fiancheggiato da 8 paggi coi loro precettori in linea e senza torcia e 8 guardie del corpo con carabina. L'aste del baldacchino son sostenute da' cavalieri di S. Stefano vestiti del lungo manto bianco con le maniche foderate di rosso, con la croce purpurea a manca o sul petto. E dietro al baldacchino S. A. I. e R. il Granduca, con 4 guardie del corpo armate di carabina, seguìte dal gran ciambellano, dal segretario d'etichetta, dai camerieri e dalle magistrature. Chiudono il corteggio una brigata di guardie a cavallo e le milizie toscane, con gli enormi gaschi e le lucerne; e i tamburi, in doppie, in quadruplici file, seguìti dai pifferi e diretti, guidati, tiranneggiati dal gigantesco capotamburo, che rotea in alto superbo la sua mazza d'ebano col pomo d'argento, al cui terribile cenno essi battono il rullo assordante o lo sospendono d'un tratto… impietriti.
La vigilia di S. Giovanni, nel dopopranzo, il palio dei cocchi in Piazza S. Maria Novella, a cui interveniva nei carrozzoni di gala e in gran pompa la Corte, che prendeva posto coi Ministri esteri in un palco sotto le loggie di S. Paolo. Cominciava la festa con un corso di carrozze, mentre i palchi dell'anfiteatro, le finestre, le terrazze e perfino i tetti delle case sulla piazza si empivano, si accatastavano di spettatori. E all'ora fissata, i soldati sgombravano la Piazza e comparivano le quattro bighe alla romana, guidate da un auriga, non diciamo un cocchiere, vestito all'eroica, di rosso, di giallo, d'azzurro o di verde come il suo cocchio. Tirato il canapo e data la mossa, tra gli applausi, i fremiti e le ansie della folla, le bighe giravano tre volte attorno allo steccato da una guglia all'altra e chi primo giungesse avea gli onori del trionfo, gli evviva, gli abbracci e la gloria d'un giorno. La sera fuochi d'artifizio da Palazzo Vecchio, e dopo il 1826 sul ponte alla Carraia; illuminazione della città, della Cupola, del Battistero e del Campanile, e trattenimento musicale nel recinto fra la Canonica e il Duomo.
Il giorno di S. Giovanni, il Gonfaloniere col Magistrato civico recavasi al tempio per l'offerta della cera; poi messa pontificale dell'Arcivescovo nella Metropolitana, a cui interveniva la Corte. Nel pomeriggio corsa di barberi dalla Porta al Prato a quella alla Croce, con premio d'una ricca bandiera, che si faceva benedire in S. Giovanni. La corte assisteva allo spettacolo dal terrazzo al principio del Prato, con in faccia schierate le guardie a cavallo. Il tragitto era percorso dai barberi in circa sette minuti, e dalla sommità della Porta alla Croce si facevano alcune fumate di polvere per avvisar qual dei cavalli fosse primo arrivato, e le fumate ripetevansi dalla pergamena della Cupola del Duomo: il Sovrano, vedutele dalla sua loggia, segnava il nome del vincitore sulla nota che aveva in mano e che gettava alla folla. La sera spettacolo di gala all'I. e R. Teatro di Via della Pergola con grande illuminazione e con passo libero al popolo, o feste campestri nel giardino del Teatro di S. Maria, più tardi intitolato al Goldoni.
Ma non scordiamo gli spari, le salve di artiglieria e moschetteria, che si facevano sulla Piazza del Duomo e dal Forte di Belvedere, mentre il Granduca e la Corte assistevano alla messa pontificale! Al comando caricat'-arm! gridato dai comandanti a cavallo, i fucilieri eseguivano i 24 movimenti prescritti; le bacchette d'acciaio, svelte con prestezza dai fucili, luccicavano fra le mobili dita dei militi, e dopo mille giravolte cadevan tutte d'un colpo nelle canne dei moschetti, per uscirne, e dopo altrettanti giri, tornare al loro posto: s'innescava il fucile, l'acciarino batteva sulla pietra; e da quelle mille bocche da fuoco scoppiava il baleno ed il tuono, mentre un fumo denso e biancastro avvolgeva ogni cosa. I ragazzi e le donne strillavano o si tappavano gli orecchi; e dopo il terribile rimbombo, riapparivano le file dei soldati, immobili, come fantocci di legno. Per ogni colpo, 24 movimenti e tre minuti di manovra! Il tempo per scappare fuori di tiro!
III
A tutti questi divertimenti, e perfino ai più umili, anche a quello della caccia al grillo il giorno dell'Ascensione alle Cascine, partecipava con la Corte il bel mondo che – come dice lo Stendhal – metteva in pratica la grand'arte d'esser felice, senza neppur sapere quanto sia difficile il possederla.
La società elegante, la nobiltà e la cittadinanza più ricca non sdegnava di restare a Firenze molta parte dell'anno. In campagna a villeggiare si andava soltanto in maggio e in giugno, ritornando in città per il Corpus Domini e per le Feste di S. Giovanni. E in città, nei palazzi e nelle case antiche, in quelle vecchie strade dove ne' solleoni senti uscire dalle cantine e dai cortili un frescolino che par quasi alitare dalle pietre come vi fosse dentro conservato da secoli, – non temevano gli ardori canicolari e non sentivano il bisogno nè delle bagnature, nè dell'aria di montagna. I bagni eran soltanto per i malati sul serio; e i medici non conoscevano che la virtù terapeutica dei Bagni di S. Giuliano e delle Terme di Montecatini; e ci spedivano chi ne avesse bisogno, e non, come ora, tutta la famiglia. In campagna si tornava dopo la SS. Annunziata (15 d'agosto) e ci si restava fino a S. Michele (29 settembre), senz'altri svaghi che la solita partita, il paretaio o la caccia a tempo e luogo, qualche ballonzolo campestre per la vendemmia, e i dilettevoli giuochi di società come la berlina e il tibidò.
D'inverno in città si tenevano le conversazioni, ricevimenti alla buona dove si giuocava al terzilio, alle minchiate, a' quadrigliati, a calabresella, al whist ed all'hombre, si faceva un po' di musica con forte-piano, cembalo, violini, violoncelli e cantanti da camera, e si giravano rinfreschi, sorbetti, acque, sciroppi, e qualche volta il thè. D'estate si riceveva in giardino, e si passava il cocomero in diaccio. La padrona di casa riceveva in abito accollato; perchè in giubba e in décolleté non si andava che a feste per inviti in iscritto.
Fra i salotti più antichi, quello della contessa d'Albany, che abitava, com'è noto, nel Palazzo Gianfigliazzi in Lungarno. Negli ultimi anni, la Contessa ed il Fabre eran diventati molto agri, lei in ispecie, fosse la politica o la vecchiaia o l'uggia di vedere che tutti la rispettavano, fuori che il tempo. I sabati della Contessa erano frequentatissimi dai forestieri, dai diplomatici e dai Fiorentini, che bofonchiavano un maligno epigramma:
Lung'Arno ammirano i forestieri
Una reliquia del conte Alfieri.
Una sera, coi fratelli Robilant, arrivati allora in Firenze ci capitò, dopo la Pergola, anche Massimo d'Azeglio, che le sentì dire, rivolta al principe Borghese: «A quelle heure viennent ces Messieurs!» L'Azeglio, incenerito da quel fulmine, si tirò indietro e s'accostò al conte di Castellalfero, ministro sardo in Toscana, che essendo sera di gala portava il grande uniforme tutto ricamato con gran cordoni e croci e patacche di brillanti e che l'accolse con l'usata benevolenza. Rinfrancato, venne all'Azeglio l'idea di pigliare da un vassoio un gelato, di quelli durissimi, che si chiamavano allora mattonelle, e che voleva rappresentare una pèsca. «Io mi trovavo proprio a petto al Conte, scrive l'Azeglio, e mentre cerco col cucchiaino d'intaccare la mia pèsca, ecco che mi schizza di sotto come un nocciolo di ciliegia pizzicato, la vedo balzare sul gran cordone del Ministro, e dal cordone rimbalzare sul tappeto e rotolare fin davanti alla contessa d'Albany. – Mi pare di correre ancora! e fu quella la mia ultima visita!»
Morta la Contessa nel 1824, la sua perdita alla maggior parte dei nostri e degli stranieri, fu meno sensibile che non doveva. La società buona in tutti i paesi, osservava Gino Capponi, che fu assiduo di quel salotto, è un mauvais lien avoué, e si reputa virtù il dir male di quelli che si frequentano più.
Ma, di case ospitali, a Firenze non c'era penuria. La marchesa Clementina Incontri, nata di Prié, coltissima dama, apriva il suo palazzo di via de' Pucci alla più eletta società, e vi convenivano i Piemontesi più specialmente e i letterati. In casa Incontri, come in casa Rinuccini, le persone più istruite e più liberali eran le meglio accette; perchè coteste due famiglie fin dai tempi dei Francesi furon l'anima del partito rinnovatore italiano e parteggiavano per Eugenio Beauharnais, vagheggiando e caldeggiando la riunione della Toscana al Regno Italico. Il marchese Pier Francesco Rinuccini e il marchese Lodovico Incontri erano stati in gioventù benissimo accolti in casa del ministro Tassoni, che rappresentava il Vicerè d'Italia presso la Regina d'Etruria e dipoi presso il Governo provvisorio francese e la granduchessa Elisa Baciocchi. Le tradizioni liberali delle due famiglie, apparvero anche nei parentadi, perchè le tre figlie del Rinuccini andarono spose una al marchese Trivulzio di Milano, una a don Neri Corsini marchese di Lajatico e la terza all'emigrato pontificio marchese Azzolino; mentre una delle figlie di Gino Capponi ebbe per marito il figlio del marchese Lodovico Incontri.
In casa Rinuccini, così nel palazzo d'oltrarno come nella villa alla Torre a Quona, si coltivava la musica e si facevan recite memorabili. Nel teatrino della Torre a Quona, ne rimasero e forse ne durano ancora i ricordi, nei vestiari coi quali le damine e i cavalieri d'allora si trasformavano nei personaggi del Goldoni, del Giraud o del Nota.
Un tempo, il marchese Pier Francesco Rinuccini mise in voga le cene, che si facevan d'estate, in carrozza, con allegre comitive, andando qua e là ne' dintorni, ne' freschi delle notti stellate. Le cene duravano fin quasi all'alba, i palazzi restavano muti e abbandonati nell'assenza dei padroni. Una notte, il marchese Pier Francesco, tornato a casa all'improvviso, non trova nessuno in porteria, sale le scale quasi a tastoni, entra nel quartiere che vede illuminato, e gli si presenta dinanzi un servo con un vassoio pieno di rinfreschi.
– Che cosa fate? dove andate? – gli grida.
Il servo allibisce. Il Marchese si fa innanzi, spalanca una porta e vede nel salone una scena singolarissima: coppie che ballavano, e che al suo apparire rimasero di stucco. I servitori e le cameriere, la guardaroba, l'anticamera, la cucina e la scuderia, facevano da padroni, e se la scialavano allegramente.
Qualche ballerina svenne, e il Marchese durò gran fatica a fare il serio ed il burbero.
Ma d'andar fuori a coteste cene, d'allora in poi, passò la voglia a lui e agli amici.
La bonarietà indulgente de' patrizi non veniva mai meno. Se il Granduca andava fuori a passeggiare a piedi, con lo scialle sul braccio, reggendosi l'ombrellino; i signori non erano meno cordiali, espansivi, alla mano. Anche nelle case più nobili si riceveva persone d'altro ceto, e il giovedì e la domenica c'era sempre in tavola la posata o per qualche sacerdote, o per qualche artista o letterato, che riferiva le notizie correnti e restava la sera a far la partita. Le spese non erano grandi: la tavola abbondante ma senza spreco; i vini forestieri venner di moda più tardi coi nuovi ricchi, e le gole toscane si contentavano del vermutte, del vin santo e del trebbiano, spremuti dai vigneti fiorenti, ancora immuni dalla crittogama e dalla peronospora, celebrati dal Redi e dal Carli.
Per abbozzare alla meglio un quadro della vita fiorentina in quegli anni, riferirò alcuni passi d'una lettera scritta da Vienna nell'aprile del 1822 al senatore Giovanni Degli Alessandri, presidente dell'Accademia di Belle Arti e direttore delle Gallerie, dal conte Angelo Maria D'Elci, grande e benemerito bibliofilo e poeta satirico mordace. Il D'Elci che donò la sua ricchissima collezione di libri rari alla Laurenziana, era un feroce codino, che salutò con gioia la caduta di Napoleone e il ritorno del paterno regime: era altresì assai sciolto e libero nello scrivere, e le lettere all'Alessandri, sono assai più salate degli epigrammi che pubblicò. «Quanto all'uniformità e monotonia della vita quotidiana che costì si mena, credetemi che è la stessa cosa anche qua a Vienna; colla sola differenza che costì tutto si fa in piccolo e in brutto e qua in gigantesco e magnifico. Costà si giuoca e si perde al più cinque paoli per sera: qua si giuoca pure e si perdono 4 o 500 zecchini. Parlo di giuochi di società: hombre, whist, ecc. Quando l'Ambasciatore di Napoli dà pranzi, ogni pranzo costa circa 3 o 400 zecchini. Quindi i principali signori sono gottosi, malsani e s'abbreviano e s'infelicitano la vita col mangiare, col bevere e con gli stravizzi. Tutto ciò si fa anche in Firenze, lo so; ma finalmente non ci si spende tanto. Non vi parlo del lusso di cavalli, di carrozze, di livree, di mobili, nè della magnificenza dei debiti e dei fallimenti. In Firenze nel corso di tutta la mia vita non ho veduto altro fallimento che quello del Sassi, che abbia fatto onore al paese…» E prosegue brontolando contro quello che rovina ogni buon principio, divora le sostanze, impedisce l'istruzione, sovverte le famiglie, e turba l'amministrazione pubblica e la privata. «A parer mio, questo gran disordine è l'epicureismo, e credetemi che l'ozio, la negligenza, l'ignoranza, la corruzione, l'ambizione stessa viene dall'eccessiva voglia di divertirsi per fas e per nefas.»
Ma questi rimbrotti codini, non del tutto immeritati, dovevano rivolgersi piuttosto a Vienna, che a Firenze, dove la corruzione elegante delle grandi metropoli trovava una gran rèmora nella parsimonia dei sudditi e nel governo del Granduca. Non dirò che a Firenze imperasse la musoneria sanfedista; ma la sbrigliatezza del vivere vi era ignota o quasi. Tutti i divertimenti consistevano nelle feste, nei teatri e nei ricevimenti. A casa Mozzi, sotto l'impero della bella contessa Teresa, nel palazzo in cui fu ospite nel 1304 il Cardinal da Prato, e nel giardino che in boschetti discreti s'inerpica sulla Costa, l'ospitalità praticavasi con grande larghezza.
La belle italienne, come la chiamò Napoleone, ammirandone le forme venuste, avrebbe meritato un inno del Foscolo, se alle tre Grazie la Mitologia neoellenica ne avesse aggiunta una quarta, quella sacra al piacere. La società che affollava i salotti o sperdevasi sapientemente in giardino, era un po' mista, senza soverchio sussiego, come l'indole della padrona di casa consentiva.
Anche da ricordare le signorili ospitalità delle marchese Luisa e Margherita Panciatici, in via Larga, nel palazzo che sta in fronte a palazzo Riccardi. – Quelle di casa Tempi nel palazzo di via de' Bardi, ora Bargagli, dove conveniva la società elegante, mondana, e si combinavano matrimoni, preparati, agevolati dalla cortese indulgenza della Marchesa. Quelle di casa Orlandini, nel cui palazzo ebbe più tardi dimora Girolamo Bonaparte conte di Monfort.
Ma rinomatissimi erano i lunedì d'un'altra gentildonna, le cui conversazioni frequentò nel 1812 e nel 1813, mentre fu a Firenze, un gran corteggiatore di donne, Ugo Foscolo, che la immortalò nelle Grazie. Ricordate?
Leggiadramente d'un ornato ostello
Che a Lei d'Arno futura abitatrice
I pennelli posando edificava
Il bel fabbro d'Urbino, esce la prima
Vaga mortale, e siede all'ara: e il bisso
Liberale acconsente ogni contorno
Di sue forme eleganti; e fra il candore
Delle dita s'avvivano le rose,
Mentre accanto al suo petto agita l'arpa.
Eleonora Pandolfini-Nencini, la bella sonatrice d'arpa, nel palazzo edificato non già da Raffaello, ma cominciato da Gianfrancesco Sangallo e compiuto nel 1538 da Bastiano d'Aristotile, continuò anche durante la Restaurazione e più tardi a mostrarsi degna degli omaggi poetici e della passione che aveva ispirato a Ugo Foscolo, e a far gli onori del «leggiadro ostello» con una grazia che le sue stesse rivali, anche la D'Albany, non riuscivano a vilipendere. In casa Corsini, non frequenti gl'inviti. Il principe Don Tommaso, nominato senatore di Roma, riceveva più a Roma che a Firenze. Ma fra il 1819 e il 1824 le signorine, con la governante signora Enriquez, diedero nuovo esempio di ricevimenti alle amiche e compagne, che riuscirono novità gradita e imitabile.
Dopo il 1821, la quiete fiorentina consigliò molte grandi famiglie a prender fra noi stabile dimora. Don Camillo Borghese, stanco dei viaggi e delle emigrazioni, venne col fratello Francesco principe Aldobrandini in Firenze e presero stanza nell'odierno villino Salviati in Borgo Pinti. Nel 1825, nella villa Zambeccari, ora Fabbricotti, a Montughi, moriva dopo lunga e penosa malattia, Paolina Bonaparte, un'altra di quelle bellezze canoviane, con la breve testa capricciosa e il cuore di marmo… o di fuoco. Il trasporto fu fatto con grande pompa e solennità, traversando tutta Firenze: l'esequie celebrate nella chiesa di Badia, donde il corpo fu spedito a Roma, in un carro. Il principe Camillo, parve non mostrarne troppo rammarico; perchè poco appresso dette ordine all'architetto Baccani di edificargli in 18 mesi il Palazzo, che sorse in via Ghibellina, su case che eran già appartenute ai Salviati. Costruito il palazzo, con puntualità che parve miracolosa, vi si dettero feste e ricevimenti magnifici, a cui interveniva la Corte.
Principi spodestati e re in esilio cercavan rifugio sotto la protezione di Ferdinando III, che stentò molto a concederla. Ci volle l'intervento dell'imperatore Francesco, perchè Luigi Bonaparte, l'ex re di Olanda, che aveva preso il nome di Conte di S. Leu, potesse ottenere il permesso di fermarsi a Firenze. Questi da prima comprò a Montughi dai Capponi delle Rovinate una villa, poi il palazzo Gianfigliazzi, ove rimase fino agli ultimi anni. A Montughi confutava la Vita di Napoleone di sir Walter Scott, componeva romanzi che leggeva alla contessa D'Albany, cui parevano pesanti e noiosi, e spesso non pagava i suoi debiti. Nel 1822 un tal Viviani era creditore dell'ex re di ottocento scudi per biada e foraggi. Il conte di S. Leu voleva fargli una tara di cento scudi, che il Viviani non volle accettare; anzi, avvicinatosi al principe con modi arroganti, gl'impose di pagarlo subito e senza tara. Il principe, temendo quelle minacce, impugnò le pistole: accorsero i servi, e il Viviani fu messo alla porta. Nel frattempo la moglie del Viviani che aspettava nel viale, incontrò un fanciullo con gli occhi cerulei e il naso aquilino, al quale ne disse di tutti colori sul conto di quell'ex re che non pagava i suoi debiti.
– Ma il conte è mio padre, signora! – rispose il fanciullo, che doveva essere il futuro Napoleone III.
La Viviani restò mortificata; ma il giorno dopo il marito fu soddisfatto di ogni suo credito.
Dietro il conte di S. Leu vennero in Firenze gli altri due fratelli: Giuseppe che aveva preso il titolo di Conte di Surviller, e l'ex re Girolamo che si faceva chiamare Conte di Monfort. Giuseppe con madame Clary e mademoiselle Zenaide dimorò nel palazzo Serristori, dando sontuosi pranzi, ma non balli nè grandi ricevimenti, perchè madame Clary era infermiccia. Proteggeva le arti, faceva lavorare gli artisti, e andava ogni giorno alle Cascine in una gran calèche a otto molle, col carro e la cassa color paglia, come tutti gli equipaggi dei Bonaparte. Il conte di Monfort, di tutti il più giovane, avea preso in affitto il palazzo Orlandini, dove compirono la loro educazione i figli di lui Girolamo e Matilde. Le livree verdi del re Girolamo, le sue feste, le sue avventure interruppero la musoneria fiorentina, e duraron gran tempo nella memoria di tutti. Jules Janin, che fu a Firenze nel 1838, ricorda una festa sontuosa a cui intervennero i Borboni di Napoli e di Spagna, e di cui faceva gli onori una giovinetta bianca e vermiglia, la principessa Matilde, che accoglieva gli ospiti, non come una principessa esiliata, ma come una bella giovane parigina dimenticata sulle sponde dell'Arno. In casa Serristori presso il fratello maggiore Giuseppe, solevano i Bonaparte riunirsi la sera: e l'affitto di quel palazzo ceduto dal conte Niccola Demidoff al conte di Surviller fu pronubo delle nozze fra la Matilde e Anatolio Demidoff ch'ebbe in tale occasione dal Granduca il titolo di Principe di S. Donato.
I Demidoff eran già venuti a Firenze dopo il 1809. Del conte Niccola, ricco come un Creso, e così come ricco benefico, è ancor vivo il ricordo fra noi. Nel 1814 comprato il convento di S. Donato, lo ridusse in breve in una villa magnifica, circondata da un parco adorno di loggiati, di statue, di rarissime piante. Poi si dette a fare opere di beneficenza: istituì asili, pensioni, ospizi, scuole gratuite, opificî. – Il fratello Paolo, ricchissimo anch'egli, a lui non somigliava punto: viveva solitario, e soltanto di tratto in tratto dava una gran festa in cui profondeva tesori. Nel 1831 dette un ballo e fece parare di nuovo tutte le sale; poi staccò i parati e li regalò ai servitori, che li rivenderono 100,000 franchi. Non poteva toccare un oggetto se altri prima di lui l'avesse toccato senza guanti. Un giorno fu trovato da un amico tutto intento a bagnare nell'acqua odorosa, entro un calice d'oro, i biglietti della Banca di Pietroburgo.
– Lavo, – disse, – questi fogli, perchè puzzano orribilmente! —
Un'altra volta, invitò a colazione un diplomatico inglese, che nel calore della conversazione prese senza badarci dalla zuccheriera un pezzo di zucchero con le dita. Il Russo ordinò subito al servitore di buttar lo zucchero rimasto fuor di finestra. Ma il flemmatico Inglese non si scompose: bevuto il caffè, gettò dalla finestra tazza, piattino, cucchiaino e ogni cosa, e voltosi sorridente all'ospite:
– Non sapevo, – disse, – che in Russia ci fosse quest'uso. —
Coi Demidoff, coi Borghese, e coi Bonaparte, e più tardi coi Poniatowsky, la vita mondana fiorentina cambiò carattere. La Corte era eclissata: affluivano i forestieri da ogni parte di Europa, nei salotti si parlavano tutte le lingue. Il Lamartine che nel 1827 era chargé d'affaires a Firenze si lodava del Principe, delle violette che fiorivan di febbraio e delle grandi feste cui era invitato. «Je termine très-honorablement mon carnaval par deux grands festins. Sur ce, je souhaite le bonsoir à mon cuisinier et je rentre dans la classe des grands seigneurs du pays, qui mangent et ne donnent point à manger.» – «Il fait ici – era il dicembre del 1827 – un printemps superbe ces temps-ci. Mais à peine avons-nous le temps d'en jouir et de sortir: c'est un brouhaha interminable. Il y a toute l'Europe voyageante, et chaque année cela devient plus nombreux en Français.» – «Nous voyons beaucoup le prince Borghese. Sa maison est des Mille et une nuits, plus encore que celle de M. Demidoff. Enfin c'est un monde et un éclat à en perdre la tête… Il faut s'habiller à dix heures et sortir à onze heures, les bals commencent à minuit.» E nel febbraio 1828 soggiungeva: «Nous n'avons plus qu'un grand bal à avaler chez le prince Borghese, après demain, et un diner diplomatique chez moi dimanche.» E in aprile: «Nous avons ici un grand monde diplomatique en ce moment. Le carnaval a recommencé et nous ennuie et fatigue. C'est tous les jours un dîner, tous les soirs un bal.» E nel maggio: «Florence est dans sa beauté physique, car nous avons déjà vingt degrés de chaleur. Mais elle est dans la solitude et le deuil par la mort de M. Demidoff, qui y tenait plus d'état qu'une ou deux cours, avec ses six millions de rente.» E nel giugno: «Nous sommes dans une semaine de fêtes jusqu'au cou: des courses de chars, de chevaux, des théâtres. Toute la journée en uniforme et en gala par la ville et toute la nuit en bals.» E in luglio, con 28 gradi Réaumur di calore: «Il n'y a pas d'amitié, pas de verve, pas de zèle qui resiste à 28 degrés: l'amour seul est à cette température, et véritablement c'est son règne à Florence. Les nuits sont divines. Je les passe à errer en calêche dans les rues, ou sous les pins harmonieux des Cascines, environné de beautés séduisantes qui disent ohimè, et à qui je ne dis rien.»