Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I», sayfa 6
Certo quest'uomo, che governò l'Austria da padrone per 39 anni, e per 33 anni da padrone l'Europa, non era nè un puro sbirro, nè uno statista volgare, come, per odio, l'abbiamo considerato noi per tanto tempo. Certo Napoleone non ebbe mai più terribile avversario di lui; un avversario, che, mentre lo ammirava, avea così profondamente studiata la sua indole, che fino ad un certo segno potea presagirne gli scatti futuri; un avversario, che non si scaldava mai e sapeva aspettare. Certo, quand'egli nel 1809 diventò Ministro, l'Austria era un paese morto e sei anni dopo (mettiamo pure che la frenesia di Napoleone l'abbia aiutato) sei anni dopo l'Austria era l'arbitra dell'Europa, gloria grande verso la sua patria ed il suo sovrano, che nessuno gli può contestare.
Ma da tuttociò a far di sè uno statista, che non ha una colpa da rimproverarsi, perchè è quasi una nuova incarnazione umana dell'eterna giustizia e dell'assoluta verità, che non ha mai sbagliata una mossa, perchè nell'interezza della sua coscienza ha sempre previsti gli errori dei nemici e le infedeltà degli amici, ci corre assai; e, per troppo volere innalzarsi, mi pare che non solo il Metternich abbia troppo sfidata la credula docilità dei posteri, ma che abbia altresì tolto merito a sè stesso, come uomo di Stato, perchè la politica, salvo certe direzioni fondamentali, è più di tutto l'arte degli adattamenti e delle contingenze variabili, e l'immobile fissità di spirito, ch'egli si attribuisce, è la caratteristica dell'utopista e del fanatico, anzichè quella del vero uomo di Stato.
Quante volte, del resto, non è egli stato sul punto d'intendersi con Napoleone? Fra le molte, che se ne potrebbero ricordare, prendiamo la maggiore di tutte, il matrimonio di Maria Luigia, la divina figlia dei Cesari, con Napoleone, il gran tipo del condottiere italiano, dice il Taine, che ha usurpato il trono di Francia. Era tutto un tranello questo matrimonio? No, era un'arma a due tagli, che potea salvar l'Austria e Napoleone, se Napoleone era savio, o salvar l'Austria sola e abbatter lui al momento opportuno, s'egli continuava a farneticare. In ciò sta la profondità del calcolo del Metternich, che l'ambizione di Napoleone s'incocciò di far riescire anche al di là d'ogni sua previsione: ma ciò dimostra che a transigere colla Rivoluzione non avea poi il Metternich le invincibili ripugnanze, delle quali si vanta.
Nella stessa guisa, s'egli rappresentava unicamente il diritto storico contro la Rivoluzione, perchè mai, caduto Napoleone, non ha egli nel Congresso di Vienna riprese le tradizioni di Maria Teresa, del Kaunitz e del Thugut, cercando di germanizzare l'Austria di nuovo ed ha preferito invece indennizzarsi al sud delle Alpi di tutto quanto perdeva o abbandonava al nord delle medesime, ostinandosi a dominare l'Italia? Egli è che appunto imitare in questo le violenze della Rivoluzione francese sembrò al purissimo eroe del diritto storico un giuoco più facile e più vantaggioso, e questa volta invece l'infallibile aveva sbagliato. In questo medesimo anno 1815, l'impresa di Gioacchino Murat, per quanto arrischiata, il proclama di Rimini, scritto da Pellegrino Rossi, che bandisce la guerra dell'indipendenza italiana, per quanto vagheggi una idealità prematura, avrebbero dovuto farlo avvertire del suo errore e che l'Italia per lo meno non era più l'espressione geografica di prima. Preferì invece ostinarsi ed iniziare un sistema di repressione perpetua, che fece di lui l'incarnazione vivente del dispotismo più odioso e più cieco, e lo abbassò talvolta, come nel colloquio famoso con Federigo Confalonieri, carico di catene e già avviato allo Spielberg, lo abbassò, dico, fino agli scaltrimenti del poliziotto più abbietto per strappar di bocca ad un misero prigioniero il nome de' suoi complici, quello principalmente di Carlo Alberto, principe di Carignano, della cui correità coi congiurati Lombardi del 1821 il Metternich volea ad ogni costo aver nelle mani la prova.
Il santo, il semideo delle Memorie metternicchiane scende così alquanto, come vedete, dal suo piedistallo. Se a ciò aggiungete che concordemente i contemporanei lo dicono scettico, frivolo, superficiale, donnaiuolo, non incorruttibile per denaro, voi vedete che razza di premeditata falsificazione egli ha perpetrato di sè stesso per canzonare i posteri, nè vi spiegherete la potenza esercitata da lui per tutta intiera una generazione, se, oltre a molte qualità d'animo e d'ingegno, ch'egli indubbiamente possedeva, non mettete in conto la profonda disposizione alla quiete, all'inerzia politica e al riposo gaudente, che il suo tempo provava e ch'egli rispecchiava, persin nella persona e nei modi, alla perfezione. Quando questa disposizione finì, anche il Metternich era finito.
Diversa affatto è la truccatura, sotto la quale ha voluto presentarsi ai posteri il Principe di Talleyrand. Pare in sostanza ch'egli dica: «son quel che sono, ed i miei contemporanei, alti e bassi, non valevano meglio di me; ma si prenda la storia com'è, poi si vegga se in conclusione, e senza troppa cura del mio buon nome (ognuno poi sacrifica alla patria quello che crede!) io ho bene o male servita la Francia.» E naturalmente dimostra che l'ha servita bene. Esso, in persona, ha cominciato abate, poi vescovo, ha celebrato ridendo la sua ultima messa nella festa della Federazione Repubblicana, s'è sconsacrato, ha preso moglie, nei tempi peggiori della Repubblica s'è ecclissato, è rientrato a tempo per esser Ministro: Giacobino sotto il Direttorio, repubblicano sotto il Consolato, Bonapartista sotto l'Impero, legittimista sotto i Borboni, e come si spiegano tutte queste metamorfosi? In una maniera sola, dice lui, cioè che agli occhi d'un filosofo le forme politiche son forme vuote; che con tale libertà di spirito egli ha visto sempre, prima, meglio e più lontano d'ogni altro, e che mentre gli altri s'attaccavano ad un partito, egli non ha servito mai che la Francia. È una disinvoltura stupefacente, la quintessenza di quell'arcana dottrina del savoir vivre, sotto la quale i Francesi compendiano tante cose, e che il Talleyrand possedeva in grado superlativo.
Corazzato di questa, egli prende posto attorno al tappeto verde del Congresso di Vienna, colla serenità medesima con cui si sarebbe seduto alla sua eterna tavola di whist, e quando, ambasciatore d'una nazione vinta, egli, con grand'arie di superiorità e per sgominare di primo acchito i segreti accordi degli alleati, osa affermare lui solo rappresentare, intorno a quel tappeto, non interessi, ma principii, e cioè il dogma della legittimità, che deve esser la base della Restaurazione, e tutti lo guardano esterrefatti, il Talleyrand non si scompone e persiste e niuno s'accorge, non un principio sostener esso in quel momento, bensì l'unico spediente, a cui poteva appigliarsi. Che diavol mai poteva egli invocare, difatto, dinanzi alle ambizioni della vecchia Europa coalizzata e vittoriosa? Gli immortali principii dell'89, come in un meeting? i diritti dell'uomo e del cittadino, come in una scuola? la sovranità popolare, come in una piazza? Non avendo forza materiale per tenere in rispetto i nemici vittoriosi, tutto quanto poteva tentare era di preservare in nome del diritto l'unità della Francia e salvar questa almeno alle conquiste economiche, civili e politiche della Rivoluzione. In parte vi riescì, poichè preservò in sostanza la Francia dal dover sopportare la pena del taglione, l'applicazione pura e semplice di quel diritto del più forte, ch'essa avea durante l'Impero applicato alle altre nazioni. L'imperturbabilità, il coraggio, la fecondità d'espedienti, il calore di patriottismo francese, che il Talleyrand spiega al Congresso di Vienna, sono una meraviglia, ed ha un bel dire il Thiers, che si dovea andare al Congresso colle mani libere, quasichè gli alleati non fossero entrati a Parigi colle cannonate: che il Talleyrand dovea atteggiarsi come un Napoleone, quasichè Lipsia fosse stata Austerlitz: che ebbe fretta, e che invece di far la pace dovea scomporre le alleanze e riprovocare la guerra. Queste critiche, dinanzi alla realtà dei fatti, non mi pare che abbiano alcun valore, e nella mente del Thiers, scrittore e storico grande, ma politico mediocrissimo, scaturiscono evidentemente da quel suo sempiterno pregiudizio tutto francese, per cui un'Europa ridotta in pillole è la sola maniera d'assicurare la grandezza della Francia. Essa non può considerarsi in piedi, se tutti non sono in ginocchio! Del resto il Talleyrand non indietreggiò neppure dinanzi al pericolo d'una nuova guerra, e quando parve che non si potesse più resistere in altro modo alle prepotenze della Russia, egli aderì alla nuova coalizione formatasi nel Congresso contro di essa il 3 gennaio 1815, ed il Thiers lo biasima anche di questo, tanto è contraddittoria ed inconsistente tutta la sua critica.
In conclusione, all'opposto del Metternich con tutte le sue pose da santo, da veggente e da messia, il Talleyrand s'è voluto nelle sue Memorie mostrare non per quello che è, ma per quello che vale. È un travestimento anche questo, ma se i contemporanei non l'hanno nè ghigliottinato, nè messo in galera, non mi pare che i posteri abbiano da essere più severi di loro.
Oltre a queste tre figure principalissime, tante altre ve ne sarebbero da ritrarre, interessanti e singolari, fuori e dentro il Congresso: Maria Luigia che, con a fianco già il suo patito, il Neipperg, non ha neppure la dignità di non esser curiosa, e poichè a lei, moglie di Napoleone e pur ieri Imperatrice dei Francesi, è interdetto prender parte alle feste, vuole almeno goderne pel buco della chiave o sta nascosta fra due tende a veder gli altri ballare; Federico Gentz, grande ingegno di dilettante, cominciato scettico e romantico, finito reazionario e segretario del Congresso, gaudente di professione, che negli ultimi anni tenea il suo gabinetto di studio in casa della ballerina Fanny Elssler, il suo ultimo amore (un romitaggio preferibile di certo a quello concesso alle teste calde italiane nei sotterranei dello Spielberg), e che, tipo dell'homme blasé, annunzierà le sua prossima fine ad un amico dicendo: «mi leverò da tavola, come chi ha mangiato a sazietà»; il Pozzo di Borgo, un Côrso al servizio della Russia, incarnazione vivente contro Napoleone degli odii di famiglia e delle implacabili vendette insulari; il cardinale Consalvi, profilo di prelato romano, aguzzo, sottile, insinuante ed anche audace, che, per salvare dagli artigli dell'Austria le quattro Legazioni, finge di ridomandare sul serio Avignone ed il Contado Venosino; il marchese Brignole, l'appassionato oligarca genovese, che vorrebbe trovare un'equazione tra la legittimità dei Borboni e quella della sua vecchia Repubblica, una specie di quadratura del circolo pei diplomatici del Congresso di Vienna; i ministri napoletani del Murat, che s'incontrano a faccia a faccia con quelli di Ferdinando IV; Eugenio di Beauharnais, già vicerè d'Italia e generale napoleonico, eppure ospite festeggiato e graditissimo a Vienna; il Conte di San Marzano, diplomatico piemontese, schermidore politico, valente assai, che avendo servito i forti contro i deboli, sa come si difendono i deboli contro i forti; Don Neri Corsini, ambasciatore del granduca Ferdinando III, che, quando meno se l'aspetta, si trova a fronte l'ambasciatore d'un'Etruria bonapartesca, reclamante nient'altro che tutta la Toscana pei Borboni, e d'altra parte, rappresentando esso un principe austriaco, sentesi, ciò nonostante, così pressato dalla prepotenza degli augusti parenti, che in cambio, come vorrebbe, d'arrotondare lo Stato, rischia talvolta tornarsene a mani vuote, eppure coll'arguta e tenace bonarietà del gran signore fiorentino di vecchia stampa si trae dal mal passo abbastanza bene; e tante, e tante altre, dico, figure importanti, singolari, e caratteristiche in sommo grado, delle quali tutte metterebbe conto parlare.
Se non che neppur noi possiamo indugiarci, perchè mentre, dopo tante lentezze e lotte e discordie, il Congresso bene o male s'approssimava alla fine, ecco scoppiare, in mezzo a tutta quella gente, come uno schianto di fulmine, la notizia che l'Orco di Corsica era scappato dall'isola d'Elba.
– Dove credete voi, che si sia avviato? – chiese il Metternich al Talleyrand, per scoprire se il furbaccio ne sapeva qualcosa.
– Forse in Italia! – rispose il Talleyrand, per mettere una pulce nell'orecchio all'amico.
– No, va dritto a Parigi! – riprese il Metternich, guardando fisso il Talleyrand. Ma questi, che già aveva avuto tempo a riflettere, concluse: – può darsi! – come avrebbe detto: – buon pro gli faccia!
Val la pena seguir le mosse di questa vecchia volpe in tale frangente. In apparenza è tranquillo. Nelle sue Memorie non fiata; ma veder chiaro, risolver pronto, colpire a segno è la superiorità vera del Talleyrand sugli statisti del suo tempo (e su quelli anche d'altri tempi!); e sia pure che Napoleone sia fuggito dall'Elba, lo accolga pure l'esercito francese a braccia aperte, rivoli pure l'aquila imperiale di campanile in campanile sino alle torri di Nostra Donna di Parigi, sia pur costretto Luigi XVIII di rifugiarsi a Gand; il Talleyrand intuisce subito che un 18 brumaio non si rifà due volte, che questa ripresa d'armi non può essere nè il Consolato, nè l'Impero, bensì un romanzo d'avventuriere; che Napoleone può ben prometter pace e libertà alla Francia e Beniamino Constant ammannirgli un disegno di costituzione, che è un capolavoro, ma Napoleone è irremissibilmente condannato alla guerra immediata; e nella guerra non si troverà più a fronte generali da sbalordire di nuovo coi prodigii della sua tattica, bensì popoli e condottieri di popoli, il Wellington, il Blucher, lo Schwarzenberg, i quali, al pari del Kutusoff, il Fabio Massimo della resistenza russa del 12, e del Rostopkine, l'incendiario di Mosca, sono divenuti gli eroi delle vendette nazionali contro le sue prepotenze. Il Talleyrand quindi approfitta del primo sgomento degli alleati per strappar loro la dichiarazione del 13 marzo 1815, la quale pone Napoleone fuori della legge al pari d'un bandito, poi sta inerte aspettando l'esito della guerra, e si traccheggia anzi fino al giugno in Vienna, nè raggiunge il Re, se non quando Waterloo ha già messo fine al tempestoso romanzo dei Cento Giorni. Perchè così lento? Forse ha in fondo all'animo un residuo di dubbio? Chi lo sa? Fatto è che appena giunto a Parigi, il Talleyrand vede nettamente che gli alleati non vogliono più stare ai patti di prima, e che la reazione più dissennata prevale nei Consigli del Re. Si oppose finchè potè; non vinse che a mezzo, e si dimise. È il momento più nobile della sua vita, e lo sente tanto egli stesso nelle sue Memorie, che, quasi creda finita la sua carriera politica, vi si drappeggia dentro, come un grande attore al quint'atto d'una tragedia classica, e cala il sipario.
In realtà anche l'opera del Congresso di Vienna era finita fino dal giugno. Ma colla seconda pace di Parigi del 20 novembre 1815 la Francia pagò il fio dell'avventura napoleonica dei Cento Giorni e peggio ancora le sarebbe toccato, se non erano le rivalità di lord Wellington coi generali austriaci e prussiani e le fantasie mistico umanitarie di Alessandro I, delle quali anche questa volta la Francia s'approfittò. Queste fantasie toccano il colmo nella Dichiarazione della Santa Alleanza, un quid simile di Credo internazionale, che non ha da far nulla col trattato di Vienna, ma sta da sè, a guisa della Dichiarazione dei Diritti dell'uomo, messa in testa alle costituzioni repubblicane francesi del 1791 e 1793 e ricalcata alla sua volta, peggiorandola, su quella delle libere colonie inglesi d'America del 1776. Strani riscontri in verità! Ora il nuovo assetto europeo, deliberato a Vienna e reso definitivo colla seconda pace di Parigi, era, mercè della Santa Alleanza, posto sotto l'immediata ed alta sovranità di Gesù Cristo, una specie insomma di repubblica savonaroliana, slargata qui ad uno schema universale di Stati cristiani. La dichiarazione della Santa Alleanza reca originariamente le firme sole dei tre sovrani di Russia, Austria e Prussia, non quella d'alcun ministro, nè d'alcun plenipotenziario. Altri sovrani accedettero più tardi, quando cioè si furono persuasi che quello sproloquio non impegnava a nulla, come la Francia e la Sardegna; altri si ricusarono con un pretesto, come l'Inghilterra; il Papa vi subodorò dentro (e forse non a torto) qualcosa d'ereticale; il Gran Turco infine non s'acquetò, se non quando l'ebbero assicurato che la Santa Alleanza non era il principio d'una nuova crociata per la liberazione del Santo Sepolcro. «Ma che le pare, signor Turco?» (gli dissero i diplomatici veri), «non ci mancherebbe altro!!».
Quanto all'Italia in particolare, il Congresso di Vienna vi stabilì, come già dissi, il dominio dell'Austria; dominio diretto in gran parte, indiretto, ma non meno effettivo, su tutto il rimanente, salvo in Piemonte; e, restituito ai Borboni, schiavi dell'Austria, il regno di Napoli, cominciò a mostrarsi, a guisa di piccolo chiarore d'un'alba, la necessità storica, che se un giorno l'idea nazionale, uscendo fuori dagli eremi dei letterati e dai nascondigli dei cospiratori, potesse mai spiegare al sole la sua bandiera o troncare colla spada la fitta rete in cui il Metternich avea ravvolta l'Italia, questa bandiera si leverebbe in Piemonte e questa spada sarebbe in pugno ai Savoia.
Nel 15 siamo però ancora ben lontani da che l'idea nazionale inspiri la politica estera del Piemonte, e questa cerchi imperniarsi su una politica interna appena appena ragionevole. Ma già per parte del Piemonte i sospetti, le diffidenze, le resistenze alle mille insidie dell'Austria sono incessanti e sempre vigili, e, per parte dell'Austria, essa tradisce sempre più il suo segreto, che è di ridurre indifeso, impotente, se non addirittura soggetto, quest'unico Stato italiano, di cui non solo ha dovuto tollerar l'esistenza, ma lasciare che s'ingrossasse colla Liguria, ed ora, nella seconda pace di Parigi, anche con quella parte di Savoia, che nella prima era stata data alla Francia.
È bello vedere la concordia, la cooperazione, l'intesa di tutti i diplomatici piemontesi in questa lotta, ed è ancora più bello, pigliandoli per quel che sono in realtà, uomini chiaroveggenti, fedeli alla loro vecchia Monarchia, zelanti dell'onor suo, orgogliosi delle sue tradizionali ambizioni dinastiche, e non trasfigurandoli, per uno zelo malinteso, in avanguardie e, al solito, in apostoli e precursori d'indipendenza e d'unità italiana. Sono sparsi per tutto e sembrano una voce sola, il San Marzano ed il Rossi al Congresso di Vienna, il De Maistre e poi il Cotti di Brusasco a Pietroburgo, il San Martino d'Agliè a Londra, il Revel e poi l'Alfieri di Sostegno a Parigi, il D'Azeglio a Roma, il Pralormo a Vienna dopo il 20, il Valesia, il Balbo, il Saluzzo, ministri in Torino e tanti altri.
Tutti questi uomini, non sospettabili di certo di tendenze sovversive nè tampoco di velleità liberali, sentono profondamente le continue provocazioni austriache dal 15 in poi, e vigilano, dappertutto e sempre, le mene del Metternich. Lo stesso Pralormo, che Luigi Carlo Farini ha detto il meno avverso all'Austria, riassumeva con gran forza in un suo splendido dispaccio del 1821 tutti i torti dell'Austria verso il Piemonte, e caratterizzava con profonda sagacia il movimento del 21 per quello che era: non un pronunciamento alla spagnuola, nè una ribellione di nobili alla polacca, come ha preteso in uno dei suoi frequenti accessi di spleen Massimo d'Azeglio, bensì la conseguenza necessaria del contegno dell'Austria, che in Piemonte avea per di più mortalmente offesi nel loro onor militare una dinastia ed un popolo di soldati. Senza di questo, dice il Pralormo, non un soldato si sarebbe ribellato in Piemonte, e se Vittorio Emanuele I fosse corso su Milano, i Carbonari del 21 non avrebbero potuto nulla contro di lui.
Tutto militare e aristocratico fu dunque il movimento rivoluzionario del 1821 in Piemonte, ed è uno dei più importanti nella storia dei moti rivoluzionari italiani, appunto perchè crea nell'aristocrazia militare e diplomatica piemontese quella parte nuova, che poi prevarrà sempre più, la quale, senza ripudiar nulla del suo vecchio patrimonio morale e religioso, accetta quanto v'ha di giusto e di umano nelle idee sopravvissute alla Rivoluzione Francese e sente sempre più al vivo l'ufficio storico, che contro la intollerabile preponderanza austriaca spetta alla sola regione Italiana, che abbia armi proprie ed una dinastia nazionale.
Beneficio grande, di cui (poichè per sommo studio d'imparzialità si sogliono oggi vantare le candide intenzioni dell'Austria e del Metternich in particolare) io non ho, se si vuole, alcuna difficoltà di esserle riconoscente.
E per concludere circa il Congresso di Vienna, che è il mio tema, dirò che le successive riunioni di Aix nel 1818, di Troppau nel 20, di Lubiana nel 1821, di Verona nel 1822, le quali avrebbero dovuto essere l'applicazione del permanente e pacifico arbitrato internazionale, stabilito nel 1815, ebbero avviamento ed effetto contrario, vale a dire che trasmutandosi sempre più in un sistema d'intervento armato, di repressioni bestiali e di alta polizia politica nelle mani dell'Austria e scostandosi così sempre più dal concetto fondamentale del Congresso di Vienna, esse, in cambio di frenare i moti italiani, argomento prediletto di tutti i loro discorsi, li resero sempre più intensi, sempre più larghi e spianarono a questi moti la via del trionfo finale.
Ma così va il mondo, Signore! Guastare in pratica quello che in teorica era buono, proporsi un fine e riescire ad un altro sono i fatti, che più comunemente appariscono nella storia, e l'insegnamento di essa, se ne ha uno, si può quasi sempre compendiare così: «daccapo e ricominciamo!».