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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte III», sayfa 5

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Ed è, certo, in un'aureola di poesia che l'Italia ci appare nei libri di Enrico Beyle, anche quelli che vogliono parere i più matematici, i più assiomatici; è in un nimbo d'oro che il bel paese ci sorride, da quei libri: come egli lo ha visto, come lo ha sentito, come lo ha adorato, così esso vive e c'interessa e ci commuove, da quelle pagine. Noi, forse, ce ne meravigliamo un poco: non vogliamo dirlo, ma egli ci sembra eccessivo, nella sua adorazione. Ah come siamo stanchi, noi, di avere intorno troppo belle cose, come ci hanno esausti, questi cieli azzurri, come ci hanno sfinito e nauseato queste carezze dell'aria! Ah noi non abbiamo più occhi per vedere le immortali linee e i colori che ci lasciarono i nostri antichi e le nobilissime espressioni dei volti umani e divini; noi non abbiamo più orecchie per deliziarci dei suoni di una lingua soavissima, fatta per la poesia e per l'amore; noi siamo ciechi e sordi e ottusi, e gli entusiasmi di Stendhal ci stupiscono segretamente. Poveri, poveri noi, se non vediamo il paese nostro come egli lo ha visto, in mezzo alle vicende amare del principio del secolo, ma bello, ma giovane, ma lieto, ma amoroso, ma capace di vivere per un puro sogno e di morire per un nobile sogno: poveri noi, se l'Italia idolatrata da Stendhal, non è anche la nostra Italia! Vorrebbe dire che ogni vivo zampillo di poesia è inaridito in noi, che ogni trasporto del sentimento lascia inerte il nostro cuore, che ogni slancio della nostra fantasia è spento, nel torpore ultimo: vorrebbe dire che non meriteremmo più nè di vivere, nè di amare, nè di morire, qui: vorrebbe dire, che la nostra patria dobbiamo lasciarla adorare agli stranieri. L'Italia di Stendhal? Io ho detto male: dovevo dire l'Italia di tutti gli uomini di genio, di tutti gli artisti, di tutti i poeti, di tutti i sognatori, di tutti gli amanti! L'Italia di Stendhal? Doveva dire quella di Wolfango Goethe che, perseguitato dal fantasma sanguinante del giovane Werther, sotto l'incubo del suicidio, venne in Roma a guarirsi di quell'atroce malattia che è l'amore della Morte e ritornò più sereno, più forte, più olimpico al suo Weimar; dovrei dire quella di Giorgio Byron che fuggì il pallido suo paese nordico e i gelidi amori di Britannia, venendo in Italia a cercare fiamma al suo genio e alla sua passione; dovrei dire l'Italia di Percy Shelley che qui volle vivere, sulla spiaggia del Tirreno, sparendovi quale un antico Iddio, perendo sul rogo come un antico eroe; dovrei dire l'Italia del povero usignuolo ferito che fu Alfredo de Musset, che non potea sentir il nome del nostro paese, non potea pronunziarlo, senza che sgorgasse come un grido, la lirica dal suo cuore! Sempre, sempre, nel secolo scorso e in questo secolo, in tempo di tirannide e in tempo di libertà, nelle ore buie e nelle ore gioconde, questa Italia sarà amata così dagli uomini che hanno qualche cosa dietro la fronte, qualche cosa nel cuore. Questi pellegrini della tristezza o della felicità scenderanno sempre tra noi, ora, più tardi, molto più tardi, a cercare sollievo, beatitudine, estasi in questo paese nostro; e il loro pensiero si farà più alato nei cieli spirituali, e la loro anima proverà le ebbrezze supreme. Finchè vi sarà al mondo un poeta, egli verrà qui e i suoi occhi mortali vedranno il mirabile spettacolo come de Stendhal lo vide; finchè vi sarà al mondo un'anima innamorata, come la povera fanciulla di Wilhelm Meister, per amare e per morire; finchè le squisite gioie dello spirito e le alte vampe della passione alimenteranno e consumeranno l'anima umana!

VOLTA E LE SCOPERTE SCIENTIFICHE

CONFERENZA
DI
GIUSEPPE COLOMBO

L'alba del secolo XIX è stata segnalata da due avvenimenti che dovevano produrre nelle condizioni economiche e sociali del mondo civile la più grande rivoluzione che la storia abbia registrato finora: questi avvenimenti furono l'invenzione della macchina a vapore e la scoperta della pila.

Il giorno in cui un uomo di genio, rimasto sconosciuto, in un'età remota, alla quale non si può assegnare una data precisa, pensò di utilizzare la forza dell'acqua, e sostituendo per la prima volta una forza naturale a quella dell'uomo, costruì la prima mola da molino, nacque, si può dire, in germe l'industria moderna. Fu quindi con una chiara divinazione dell'avvenire che il poeta Antiparo, con quella geniale fantasia greca che popolava di divinità il cielo, le acque e le foreste, si rallegrava che Cerere avesse incaricato le Najadi di risparmiare il lavoro alle giovani schiave: «invano il gallo annuncierà l'alba; voi, fanciulle, non interrompete i vostri sonni. Cerere ha incaricato le Najadi di lavorare per voi. Vedete come folleggiano, come danzano agili e brillanti sulla ruota che gira.»

Pure, l'invenzione cantata da Antiparo, non ha risparmiato a Plauto il duro lavoro di girare la macina, per quanto fosse autore di commedie celebrate; poichè l'industria antica poco o nulla si valse di quell'invenzione e poco se ne valse anche quella dei secoli che vennero dopo. La forza dell'acqua, infatti, non è disponibile che in determinati luoghi, lungo le alte valli, spesso poco accessibili e lontane dai centri abitati; e non è suscettibile di essere trasportata a grande distanza per supplire alle necessità industriali delle grandi agglomerazioni umane. Molto meno quindi essa avrebbe potuto bastare al colossale organismo della manifattura moderna.

Per questo ci voleva un motore universale che potesse funzionare dovunque, in un opificio, o in mezzo ai campi, a bordo di una nave, o in testa a un convoglio, come la macchina a vapore; oppure una nuova forma di energia, che fosse capace di essere trasportata a grandi distanze, come l'energia elettrica. Or bene: e l'una e l'altra si annunciano precisamente al principio del secolo.

Veramente i primi studi di Watt sulla macchina a vapore datano dal 1765; ma ci vollero quasi 35 anni di tempo e dodici processi prima che i suoi brevetti fossero riconosciuti; si vede che la burocrazia d'allora non aveva nulla da invidiare a quella d'oggi. Fu dunque solo nel 1799 che egli e il suo socio Foulton furono messi nel legale possesso dell'invenzione, e fu nel 1800 che essi consegnarono ai loro figli la prima fabbrica di macchine a vapore. Ed è nel 20 marzo dello stesso anno che Volta scriveva da Como la sua celebre lettera a sir Joseph Banks, presidente della Royal Society di Londra, nella quale per la prima volta è descritta la pila; e il 6 novembre egli stesso presenta la sua pila a Parigi all'Istituto nazionale di Francia e la fa funzionare sotto gli occhi del primo Console.

La macchina a vapore era preconizzata da un secolo; ma l'invenzione della pila fu un avvenimento inatteso, che scompigliò tutte le idee accettate sino a quell'epoca nel mondo scientifico. E se la macchina a vapore può darsi il vanto di aver creato l'industria del secolo XIX, la pila di Volta rimarrà pur sempre, fra tutte le invenzioni di quel tempo e anche fra quelle che vennero poi, le più feconda e la più universale per la sfera quasi illimitata delle sue applicazioni.

Nessuno studio anteriore, neppur le celebri esperienze di Galvani, potevano far presagire la pila: ma l'ambiente scientifico era preparato, gli spiriti erano eccitati e quasi in attesa di una grande scoperta. Giammai, forse, la storia della scienza ha offerto un periodo così ricco di studii, di esperimenti e di scoperte, in cui fosse così ardente la ricerca del vero, come quello col quale si chiude il secolo XVIII.

In quel periodo nasce la chimica moderna con Priestley, che scopre l'ossigeno, e con Lavoisier, che spiega il fenomeno della combinazione dell'ossigeno cogli altri corpi della natura. Mongolfier tenta il dominio dell'aria e Tiberio Cavallo, proponendo l'idrogeno invece dell'aria scaldata delle mongolfiere, preconizza l'aeronautica moderna; il cavaliere Andreani a Milano fa il primo viaggio aereo in Italia, e l'italiano Lunardi fa a Londra la prima ascensione in Inghilterra. Volta col suo elettroforo desta la meraviglia ovunque lo porta, a Losanna, a Magonza, a Berlino, a Parigi; i dotti ne sono entusiasti, i principi lo applaudono. Franklin, mentre validamente coopera all'indipendenza dei nuovi Stati Uniti e corre da Filadelfia a Parigi, studia l'elettricità atmosferica e inventa il parafulmine, ispirando a Turgot il famoso verso:

 
Eripuit cœlo fulmen, sceptrumque tyrannis.
 

Il padre Beccaria di Torino corrisponde con lui e dà coi suoi esperimenti una base solida alla teoria dell'elettricità atmosferica, mentre Volta ne rintraccia la causa nell'evaporazione dell'acqua con esperienze fatte da lui a Parigi coi suoi apparecchi, presenti Lavoisier e Laplace.

Agli studi di Priestley sull'ossigeno seguono quelli di Volta sul gas delle paludi e sull'idrogeno, o come allora dicevasi, l'aria infiammabile. Il padre Campi lo aveva invitato a esaminare le fontane ardenti a Velleia e in altri posti dell'Appennino. Volta percorre i luoghi e sui risultati delle sue ricerche scrive al padre Campi sette lettere interessantissime nelle quali agli astrusi concetti della scienza alterna citazioni di Plinio, di Virgilio e di Lucrezio, e parlando del colle di San Colombano non sa trattenersi dal citare il Redi che lo vanta come un luogo famoso pei suoi vini:

 
Ove le viti in lascivetti intrichi
Sposate sono invece d'olmi ai fichi.
 

Eran tempi felici, nei quali gli spiriti più elevati si compiacevano di temperare la scienza colla letteratura: ma allora non si spegneva l'immaginazione nei giovinetti con studi scientifici prematuri. Si insegnavano i classici, e questi non impedivano a Volta di scoprire la pila; come l'aver scritto in gioventù un carme in onore della prima ascensione di Saussure al Monte Bianco non gli impediva d'inventare l'eudiometro, proclamato da Humboldt e da Gay-Lussac il migliore apparecchio d'analisi dell'aria, nè di precorrere di nove anni Dalton e Gay-Lussac scoprendo, con un apparecchio che tuttora si può vedere fra i suoi cimelii a Milano, la legge di dilatazione dell'aria pel calore, che ingiustamente porta il loro nome.

Nei cervelli degli scienziati di quella fine di secolo si elaboravano già, quasi inconsci presagi, le vaste sintesi e le grandi scoperte che dovevano illustrare il secolo attuale. Udite come Volta presenta l'invenzione della telegrafia elettrica, sessant'anni prima che Morse ne facesse il primo esperimento a Filadelfia: «Quante belle idee, scrive egli al prof. Barletti nel 1777, mi van ribollendo in testa, eseguibili con questo strattagemma di mandar la scintilla elettrica a far lo sparo della mia pistola a qualunque distanza. Sentite. Io non so a quante miglia un fil di ferro tirato sul suolo, che si ripiegasse indietro, o incontrasse un canale d'acqua di ritorno, condurrebbe la scintilla commovente. Preveggo che la terra bagnata devierebbe il corso del fuoco elettrico; ma se il filo fosse sostenuto da pali, per es. da Como a Milano, e venisse indietro al mio lago di Como pel naviglio, non credo impossibile di far lo sparo della pistola a Milano con una boccia di Leida scaricata a Como.»

Sostituite un tasto alla bottiglia di Leida e avrete il telegrafo di Morse. Se a quell'epoca non si fosse coltivata la scienza per la scienza senza preoccupazioni di interessi materiali, se allora avesse dominato l'utilitarismo moderno, credete voi che l'idea non avrebbe fatto strada, e non si sarebbe creata una specie di telegrafia sessant'anni prima?

Mentre studia il gas infiammabile, Volta presagisce pure il processo dell'illuminazione a gas: «Ho talvolta pensato, scrive al padre Campi, se vi fossero mezzi di fare un uso economico dell'aria infiammabile (l'idrogeno) sostituendolo all'olio. Basterebbe distillare o abbruciare in vasi chiusi i corpi che, venendo bruciati all'aperto, possono ardere con fiamma; e raccogliere in boccie piene d'acqua le emanazioni che se ne sprigionano.»

Si potrebbe descrivere più chiaramente il processo della fabbricazione del gas illuminante?

Nel campo delle astrazioni, egli accenna un istante ad uscire dalla teoria degli imponderabili e della emissione allora dominante.

Udite, infatti, come nella sua seconda memoria sul galvanismo, nel 1792, egli spiega l'azione dell'elettricità sui nervi della rana di Galvani: «Un fenomeno simile, che può servire d'esempio, lo abbiamo nella luce, la quale, benchè non abbia un momento meccanico bastevole a produrre la minima impulsione e muovere per es. una piuma, pure eccita vivamente il nervo ottico… Or dunque non fia meraviglia che una piccola e debole corrente di quest'altro fluido etereo sottilissimo, analogo si può dire, alla luce, qual è il fluido elettrico, investendo altri nervi forse del pari sensibili relativamente a lui, li stimoli ed ecciti, e che da questo eccitamento dei nervi ne provengano le contrazioni dei muscoli da quelli dipendenti.»

Non si potevano divinare più chiaramente le teorie moderne e quelle affinità fra elettricità e luce che avrò l'onore d'indicarvi più tardi. Anzi, elevandosi con un'audacia straordinaria per l'epoca sua, al grande concetto dell'identità delle forze fisiche, egli esprime già, sin dal 1769, l'idea che tutte le energie della natura derivino dallo stesso principio e non possano altrimenti consistere che in un incessante lavoro molecolare.

Ma veniamo alla pila.

Alla fine del secolo XVIII tutte le cognizioni sull'elettricità erano confinate nel ristretto campo dell'elettrostatica, d'onde non sarebbero mai più uscite senza l'invenzione della pila.

Dall'epoca in cui Talete, 600 anni prima di Cristo, segnalò il fenomeno dell'attrazione esercitata sui corpi leggeri dall'ambra, che i greci chiamavano electron e che diede così il nome alla scienza nuova, sino ai tempi di Volta, la scienza elettrica non era riuscita ad andare più in là della macchina elettrica e della bottiglia di Leida. Volta stesso non vi aveva contribuito, nei primi anni, che coll'elettroforo e col condensatore, apparecchi importanti senza dubbio, ma sempre nel dominio dell'elettrostatica. Nessuna applicazione seria era stata fatta, fuorchè nel campo dell'elettricità atmosferica coll'invenzione del parafulmine.

L'elettricità non era più che il tema di studi amabili, sempre in cerca di esperienze curiose. L'abate Nollet, che pure ne era un forte cultore, non trovava nulla di meglio che di servirsene per offrire a Luigi XV e alle dame della Corte di Francia lo spettacolo di 240 guardie francesi messe in fila nel cortile del palazzo di Versailles e fatte saltare tutte insieme colla scossa elettrica. Qualche giorno dopo erano i certosini di un convento che si prestavano alla loro volta a dare lo stesso spettacolo. Per Mesmer e Cagliostro l'elettricità era un aiuto prezioso per ciurmare il pubblico. Gli stessi fisici più illustri erano persuasi dell'inutilità delle loro ricerche: «Si l'on me demande, diceva Watson, quelle peut être l'utilité des effets électriques, je ne puis repondre autre chose sinon que nous ne sommes pas encore avancés au point de les rendre utiles au genre humain.» E lo stesso Franklin, prima di inventare il parafulmine, mortificato, come egli dice, di non aver potuto produr nulla in vantaggio della umanità, propone ai suoi amici una partita di piacere scientifica nella quale egli dice: «on tuera un dindon pour notre dîner par le choc électrique, et on le fera rôtir à la broche électrique, devant un feu allumé par une bouteille électrisée.»

Ma tutto cambia coll'invenzione della pila. Alla elettricità statica succede l'elettricità dinamica; una nuova sorgente di energia viene creata ad un tratto, stupisce il mondo coi suoi effetti, e schiude alla scienza orizzonti imprevisti e alla pratica un campo di applicazioni indefinito. La telegrafia e la telefonia, la galvanoplastica, l'illuminazione elettrica, la trasmissione della forza a distanza non si sarebbero neppur potute concepire senza la pila. E, cosa rara nella storia delle invenzioni, quella di Volta non è dovuta al caso, ma è la logica conseguenza d'una discussione scientifica, durata dieci anni, suscitata dalle esperienze di Galvani sulle rane.

Voi conoscete, o Signori, l'esperienza di Galvani. Fu un caso che condusse il celebre medico di Bologna alla sua altrettanto celebre esperienza. Nel 1780 Galvani stava occupandosi nel suo laboratorio di esperimenti sull'irritabilità nervosa delle rane e ne teneva preparata una sul tavolino di una macchina elettrica. Al contatto accidentale d'un bisturi, le coscie della rana si contrassero vivamente; ma la moglie di Galvani osservò che la contrazione non aveva luogo se non nell'istante in cui si cavava una scintilla dalla macchina elettrica. Le esperienze furono ripetute e variate e non fu che sei anni più tardi che un nuovo caso mostrò che le contrazioni si manifestavano anche senza la macchina elettrica e col solo contatto di un arco metallico. Di là Galvani dedusse l'esistenza di uno spirito vitale, di un fluido elettrico proprio degli animali.

Cominciò allora la storica controversia fra Galvani e Volta, alla quale presero parte, in Italia e all'estero, numerosi e illustri scienziati, alla cui testa si trovavano i due fratelli Aldini, nipoti di Galvani.

Volta non ammetteva il fluido animale, nè un'elettricità animale diversa dall'ordinaria. Le sue ragioni sono raccolte in una serie di lettere che vanno dal 1792 al 1800, dirette al Baronio, al Vassalli, al Giovanni Aldini, a Tiberio Cavallo a Londra e al prof. Gren di Halle, che sono un modello di logica e di metodo sperimentale.

Volta aveva preso le mosse dal fatto che due metalli diversi a contatto, per esempio stagno e argento, messi contemporaneamente sulla lingua, danno l'impressione di un sapore speciale che separatamente non danno. Egli stava ripetendo gli esperimenti di Galvani, quando gli venne in mente di tentare questa esperienza: «Heureusement, egli scriveva a Tiberio Cavallo a Londra, il me vînt dans le tête que nous avons dans la langue un muscle nu assez humide et très-mobile. Voilà donc, me disais-je, toutes les conditions requises pour pouvoir y exciter des mouvements.» Invece dei movimenti, egli trovò, colla stagnuola e un cucchiaio d'argento, un sapore acido inatteso; ma sulle lingue, tagliate di fresco, di diversi animali, egli osservò anche le contrazioni.

Queste esperienze, variate da lui in mille modi, anche con metalli eguali, purchè in condizioni diverse per struttura o per altre qualità, e ripetute pure con carbone e con altri conduttori, e lo stesso studio dell'elettricità delle torpedini, gli sembravano dare la più evidente spiegazione dei fenomeni osservati da Galvani, senza la necessità di ricorrere all'ipotesi degli spiriti animali. E da tutta la massa di fatti che andò raccogliendo con incessanti esperienze per tutto quel periodo d'anni, ne induceva che il combaciamento di corpi conduttori comunque dissimili, fra loro e con altri conduttori umidi, eccitano e mettono in moto il fluido elettrico. «Non mi domandate, scriveva al prof. Gren, come ciò segua: basti al presente che sia un fatto, e un fatto generale. Ed ecco, concludeva, in che consiste tutto il segreto, tutta la magia del galvanismo: è un'elettricità mossa dal contatto di conduttori diversi.»

Fu quella la teoria del contatto che Volta sostenne per anni con una vivacità singolare, ribattendo uno a uno gli argomenti che gli avversarii andavano opponendogli ad ogni sua nuova lettera: teoria che il celebre Mascheroni, matematico valente e ad un tempo gentile poeta, il cui nome fu reso popolare dalla Mascheroniana del Monti, illustrò nel poemetto l'Invito a Lesbia con questi versi:

 
… In preda allo stupor ti parve
Chiaro veder quella virtù che cieca
Passa per interposti umidi tratti
Dal vile stagno al ricco argento, e torna
Da questo a quello con perenne giro.
 

La lotta con Galvani e colla sua scuola durava ancora accanita, quando venne, come un colpo di folgore, la scoperta della pila che mise fine a un tratto alla discussione. Fu uno dei trionfi scientifici più clamorosi di cui gli annali della scienza conservino la memoria.

Così i fatti veduti da Galvani, benchè assai significanti per sè stessi dal punto di vista della fisiologia, hanno giovato alla scienza elettrica se non in quanto Volta prese da loro il punto di partenza per arrivare alla pila; cosicchè di Galvani si potè dire, non del tutto giustamente per altro, ch'ei fece

 
come quei che va di notte,
Che porta il lume dietro e a sè non giova,
Ma dopo sè fa le persone dotte.
 

Dal fatto della produzione di elettricità per effetto del contatto fra due dischetti di metalli diversi con un conduttore umido intermedio, alla scoperta della pila, non correva più che un breve passo. E il passo fu compiuto da Volta nel 1799, non per caso, ma col proposito ben determinato di moltiplicare, sovrapponendo parecchie coppie di dischi di metalli diversi, separati da un cartone umido, gli effetti ottenuti con una coppia sola. Fu nel tranquillo asilo del suo laboratorio di Como che egli compose la pila; e non appena l'ebbe composta, straordinariamente colpito egli stesso dall'intensità dei fenomeni elettrici ottenuti con essa, comprese l'immensa importanza della sua scoperta. «È come una batteria elettrica che agisca e si rinnovi continuamente da sè, senza bisogno di caricarla,» così egli si esprime nella sua lettera a Sir Joseph Banks del 20 marzo 1800.

La lettera non era ancora letta ufficialmente in seno alla Società reale, che già Carlisle e Nicholson, ai quali era stata comunicata col vincolo del segreto, riuscirono a decomporre l'acqua con una pila formata con monete d'argento da mezza corona alternate con dischi di zinco; qualche mese dopo Cruishank scopre colla pila il principio della galvanoplastica; contemporaneamente Vassalli-Eandi a Torino, e i fratelli Aldini a Bologna e a Londra esperimentano l'azione della pila sui cadaveri freschi dei giustiziati nella speranza di tornarli alla vita. Furono esperienze spaventevoli. Le contrazioni provocate dalla corrente, riproducendo i movimenti della vita, incutevano raccapriccio e terrore. Si chiamavano per nome le teste dei ghigliottinati, sotto l'azione della corrente, nell'attesa che rispondessero.

Volta presenta la sua pila, quella stessa che ancora oggi si conserva a Milano presso l'Istituto lombardo di scienze e lettere, insieme ad altri cimelii, all'Istituto di Francia che gli decreta una medaglia. Napoleone lo crea conte e senatore, ravvisa in lui solo il tipo del genio, non ha occhi che per lui quando interviene alle sedute dell'Istituto, non vuole che si ritiri dall'insegnamento: «Faccia, dice, anche una sola lezione all'anno; ma l'Università di Pavia sarebbe colpita al cuore se permettessi che si ritirasse; del resto, soggiunge, un bon général doit mourir au champ d'honneur

L'ammirazione per questa scoperta di Volta fu immediata, senza contestazioni. «Vous avez étonné le monde» gli scrisse Humboldt.

Galvani era già morto da due anni quando fu conosciuta la pila; ma la controversia durò ancora qualche tempo, specialmente per opera dei fratelli Aldini, finchè la spiegazione chimica degli effetti della pila, intravvista pel primo dal fiorentino Fabroni, spense l'ultima eco del dibattito, abbattendo pel momento le due teorie del fluido animale e del contatto. Ma il Matteucci da una parte ridonava più tardi nuova vita al galvanismo, mettendo in rilievo lo stato elettrico dei nervi e dei muscoli: dall'altra Peltier dapprima, poi Thompson e Helmholtz rimettono in onore la teoria del contatto, confermando i principii affermati da Volta.

Così la teoria voltiana dell'elettromozione, dopo una serie di vicende, ora trionfante, ora soccombente, eccita ed ispira gli studi dei più grandi elettricisti, ed esercita un'influenza decisiva sullo sviluppo e il progresso scientifico di tutto il secolo.

Mai il genio italiano rifulse nelle scienze fisiche come in quel principio di secolo che la scoperta della pila aveva inaugurato. Sventuratamente il movimento scientifico era tale in tutta Europa, che riesce difficile di attribuire ai loro veri autori le scoperte che continuamente si succedevano. Così il principio dell'elettro-magnetismo, per cui andarono celebri nel 1820 Oersted, Ampère e Arago, era già stato avvertito nel 1805 dal conte Morozzo, brigadiere dell'armata d'Italia e presidente dell'Accademia di Torino, quando notò che degli spilli d'acciaio, messi a galleggiare sull'acqua, prendevano, sotto l'azione della pila, la direzione del meridiano magnetico. Fu un nipote di Volta, il professore Alessandro Volta juniore, che rilevò pel primo questo fatto.

Zamboni di Verona inventa nel 1810, contemporaneamente al francese De-Luc, la pila a secco che diede per un istante l'illusione di aver trovato il moto perpetuo. Marianini di Venezia enuncia pel primo nel 1823 la legge fondamentale delle correnti elettriche che passa sotto il nome di Ohm. La stessa esperienza dell'arco voltaico che sorprese il mondo quando Davy riuscì ad eseguirla nel 1813 colla colossale pila di 2000 coppie regalatagli per sottoscrizione nazionale, era stata fatta già da Volta, insieme a Paradisi e Breislak, cogli scarsi mezzi dei quali poteva disporre.

Ma nulla avrebbe potuto più degnamente coronare quel glorioso periodo scientifico, quanto le splendide scoperte di Melloni sull'identità del calore e della luce.

Il grande principio dell'unità delle forze fisiche che ha preoccupato anche i fisici italiani da Nobili al Padre Secchi, è un faro verso cui la scienza tiene continuamente fissi gli occhi. Dapprima appariva a così remota distanza che pochi eletti appena lo discernevano, pur non disperando di raggiungerlo; ma a poco a poco quel faro divenne più luminoso e più vicino, sicchè oggi esso diffonde la sua luce su tutte le scienze fisiche, e non basterebbe neppure esser cieco per non esserne abbagliati. L'antica teoria degli imponderabili, sulla quale si imperniava la scienza del secolo passato, era un ostacolo che la teoria moderna delle ondulazioni ha rimosso; alle analogie di Melloni fra luce e calore sono succedute quelle di Hertz fra elettricità e luce; così ormai nessuno più dubita della completa dimostrazione d'un principio, il quale, insieme a quello della conservazione dell'energia, proclama l'unità e l'indistruttibilità dell'universo, o almeno di quell'universo che noi, abitanti impercettibili della terra, che è un atomo del mondo visibile, vediamo e crediamo di conoscere.

Voi sapete che Macedonio Melloni, valendosi di quello squisito rivelatore del calore che è la pila termo-elettrica, della quale Nobili aveva moltiplicato gli effetti, dimostrò che il calore oscuro si comporta esattamente come la luce. Quando noi scaldiamo un corpo, per esempio, un pezzo di ferro, le sue particelle, già in moto, vibrano più intensamente, tanto più quanto più è caldo: anzi l'azione stessa dello scaldare altro non vorrebbe dire che comunicare alle particelle un moto sempre più intenso. Quelle vibrazioni, trasmesse ad altri corpi, li scaldano pure; trasmesse al nostro senso del tatto, ci danno l'impressione del calore; e l'intermediario per trasmetterle si suppone che sia un fluido sottile chiamato etere, del quale si immaginano riempiti gli spazi intermolecolari e tutto l'universo.

Finchè il riscaldamento non è accompagnato da fenomeni luminosi, si tratta soltanto di quel calore che si chiama oscuro; ma se il corpo è suscettibile di arroventarsi, come, per esempio, il pezzo di ferro da me supposto, allora, continuando a scaldarlo, cioè continuando a eccitare un movimento sempre più vivo delle sue molecole, esso comincia a diventar rovente, emettendo una luce, prima rossa, poi aranciata, poi bianca abbagliante. Allora non è più il solo senso del tatto che percepisce le vibrazioni irradiate dal corpo, ma anche il senso della vista; e le percepisce, perchè quelle lente vibrazioni del calore oscuro hanno eccitato altre vibrazioni più rapide, cui l'occhio solo è sensibile. E colla luce altre vibrazioni ancora si irradiano dal corpo, che neppure l'occhio può percepire, ma a cui sono sensibili certe sostanze, come i preparati fotografici e le materie fluorescenti.

Ora tutte queste diverse radiazioni si propagano, si riflettono sulle superfici polite e si rifrangono attraverso certi corpi, opachi per talune radiazioni e trasparenti per altre, esattamente nello stesso modo, come Melloni dimostrò pel primo, dimostrando così nello stesso tempo l'identità loro. E siccome scaldare un oggetto col calore radiante, eccitare i nervi dell'occhio che percepiscono la luce, modificare lo stato della pellicola sensibile di una lastra fotografica in guisa da lasciarvi un'immagine, non sarebbero altro che comunicazioni di un moto dell'originario pezzo di ferro irradiante, così tutti questi fenomeni calorifici, luminosi e chimici non sarebbero che forme diverse di movimento. L'energia dei movimenti originarii si sarebbe trasformata, ma non diminuita, nè estinta: che è il principio della conservazione dell'energia.

Or bene: quel primo passo verso la dimostrazione dell'unità delle forze fisiche che faceva verso il primo terzo del secolo il fisico italiano, è stato seguìto da un altro quasi sessant'anni dopo, con esperienze che rimarranno celebri come quelle di Melloni.

Hertz ha provato che le oscillazioni elettromagnetiche si propagano nell'aria e nel vuoto come la luce, con velocità eguale a quella della luce, e come la luce si riflettono e si rifrangono; dunque onde elettriche e onde luminose sono probabilmente movimenti dello stesso medium, di quell'etere cosmico, cui domandiamo la spiegazione dei fenomeni che andiamo osservando, che, circondando le molecole di tutti i corpi, trasmetterebbe loro il moto ricevuto da altri corpi anche a distanze incommensurabili. Si ha anzi ragione di credere che le stesse vibrazioni luminose non sieno altro che oscillazioni elettro-magnetiche di un'enorme rapidità di alternazioni: e in questa supposizione concordano la teoria di Maxwell e gli esperimenti di Hertz e di Tesla.

Forze a distanza, come si supponevano una volta, non ce ne sono. Tutto il gran movimento della natura è l'effetto di una comunicazione di energia fra atomi contigui. E quando vediamo i fili telegrafici e telefonici trasmettere il pensiero e la parola, e altri fili portare a enormi distanze la luce, il calore e la forza, non è una volgare corrente quella che, come noi ci immaginiamo, percorre i fili: è una trasmissione di movimento da atomo ad atomo. E i fili stessi non conducono nulla dentro di sè, ma non fanno che offrire una più facile direzione a quella propagazione di moto. Tanto che si concepisce già la speranza di far senza dei fili per trasmettere l'energia elettrica sotto qualunque forma. Non avete udito parlare di quell'italiano Marconi che a Londra avrebbe trovato il modo di telegrafare senza fili?

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
22 ekim 2017
Hacim:
120 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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