Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte III», sayfa 6
Già il dalmata Nicola Tesla, studiando in America le correnti alternate ad altissima tensione e a enorme rapidità di oscillazioni, è venuto a risultati che hanno destato un profondo stupore. Correnti di tensione 10 o 20 volte maggiore di quelle capaci di ammazzare un uomo, diventano innocue, quando le alternazioni della corrente diventano centinaia di migliaia e anche di milioni, al minuto secondo. E con queste correnti Tesla è riuscito a creare dei veri ambienti elettrici, nei quali si può non solo accendere una lampada, ma produrre delle zone e dei fasci luminosi senza un vero circuito di fili.
Le vibrazioni luminose così prodotte non sono dunque che il risultato diretto di quelle rapidissime oscillazioni elettriche delle quali fu riempito l'ambiente.
Ma allora, se le analogie fra elettricità e luce sono così vere come quelle scoperte da Melloni fra calore e luce, e se vibrazioni luminose e oscillazioni elettriche sono la stessa cosa, perchè non si trasmetterebbe l'elettricità come il calore e la luce? Archimede ha potuto incendiare i vascelli nemici convergendovi il calore con uno specchio; anche la luce si trasmette a distanza con specchi e con lenti, come si fa nella telegrafia ottica e nei fari; perchè dunque non si porterebbe pure a distanza l'elettricità con specchi e con lenti?
Questo sarebbe forse, se così è lecito interpretare certi indizi, il segreto di Marconi.
Questi problemi entrano ora in un nuovo campo che prima era affatto inesplorato. Come arriviamo noi a produrre la luce? Noi portiamo un corpo all'incandescenza, sia facendolo combinare coll'ossigeno dell'aria, ossia bruciandolo, come facciamo colla cera, coll'olio o col gas, sia arroventandolo nell'aria o nel vuoto come si fa coi carboni delle lampade ad arco, e coi filamenti di carbone delle lampade elettriche a incandescenza. Il corpo, così, emette contemporaneamente radiazioni calorifiche e radiazioni luminose; ma per ciò la parte di energia che si manifesta come luce è la sola che si utilizza, e l'altra è perduta; e questa parte utilizzata è ben piccola, qualche volta neppure un cinque per cento dell'energia totale consumata.
Ben più economica è la natura: le lucciole sono piccoli fari, abbastanza potenti se si considerano in relazione alle loro proporzioni: or bene, la luce di questi fari è assolutamente fredda; qui non v'è nulla di sprecato.
L'ideale sarebbe dunque di produrre la luce senza essere contemporaneamente obbligati a produrre calore; cioè di produrre la luce a freddo, come quella delle lucciole.
Ora è appunto questo che si spera di ottenere coll'impiego delle correnti di alta tensione e di grande frequenza di alternazioni.
In un ambiente percorso da queste correnti vi ho già detto come si sia riuscito a produrre la luce negli esperimenti di Tesla. È ancora una luce pallida e debole come quella dei tubi di Geissler o delle lontane aurore boreali colle quali il fenomeno ha forse una stretta analogia; ma non c'è ragione di credere che non si possa ottenere una luce più viva con correnti più potenti e più rapide. E nessuno nemmeno può dire che attuando in altra forma una delle bizzarre previsioni del noto romanzo di Bellamy sulla società del secolo prossimo, l'audace schiatta umana non riesca un giorno a coprire intere regioni con strati d'aria elettrizzata nelle zone superiori dell'atmosfera, donde piova di notte una luce diffusa come la luce di un'aurora boreale o come quella che il sole ci manda in una giornata nebbiosa. E allora, colle notti illuminate a giorno, riscaldandoci col calore terrestre attinto nei più profondi strati del suolo, secondo la fantasia di Berthelot, nutrendoci di cibi chimici, composti con sostanze minerali, che sostituirebbero i cereali e gli altri alimenti e permetterebbero di coltivare a fiori e convertire in giardini i campi già destinati alla nostra nutrizione, cos'altro potrebbe desiderare la razza umana? Nulla; fuorchè la felicità che ci sfuggirà sempre, allora come adesso.
Quest'energia calorifera che complica e assorbe una così gran parte dell'energia che noi consumiamo per produrre la luce, complica e dà pure una gran perdita quando si tratta di produrre dell'energia elettrica in genere. Quando noi bruciamo del carbone per animare una macchina a vapore, e colla macchina a vapore mettiamo in moto una macchina dinamo-elettrica, e con questa produciamo una corrente che mandiamo nei fili, sia per illuminare le case e le vie, sia per muovere le carrozze di una tramvia, noi facciamo una serie di trasformazioni inutili, anzi dannose; prima di calore in forza, poi di forza in energia elettrica. Perchè non si salterebbero via caldaia, macchina a vapore e dinamo, e non si produrrebbe direttamente l'energia elettrica, o la corrente, col carbone, bruciandolo, per così dire, senza calore? Anche questo si sta tentando, e gli ultimi risultati, ottenuti soprattutto dall'americano Case con pile a carbone, sembrano legittimare le speranze concepite all'annuncio dei primi tentativi. Così, dopo un secolo si tornerebbe puramente e semplicemente alla pila di Volta, scartando tutte le macchine intermedie, convertendo direttamente in energia elettrica l'energia ritraibile dalla combinazione del carbone della pila coll'ossigeno, per mezzo di una vera combustione senza calore. E l'apparecchio di Volta, il quale, dopo aver creato l'elettrotecnica moderna, aveva dovuto cedere il campo alla dinamo, riprenderebbe, in altra forma, l'antico dominio, diventando la migliore e più economica sorgente dell'energia elettrica.
Ma il carbone stesso, sarà esso sempre a disposizione dell'uomo come è ora? Non si esauriranno un giorno gli immensi tesori di combustibile che i cataclismi terrestri hanno nascosto sotto terra, seppellendo le antiche foreste e quelle
… superbe
Tribù di felci che coprian le fredde
Pomici colle foglie arabescate
E d'altezza vincean le nasciture
Quercie…
cantate dall'Aleardi?
Noi distruggiamo spensieratamente le foreste, e altrettanto spensieratamente sfruttiamo le miniere di carbon fossile. Ormai se ne estrae per quasi mezzo miliardo di tonnellate all'anno. Forster-Brown osservava nel 1891 che fra 50 anni i migliori giacimenti conosciuti saranno sfruttati, e il carbone comincerà a scarseggiare e a rincarire. Rimangono, è vero, i giacimenti della China e di altri paesi ancora sconosciuti; ma un giorno anche queste risorse cominceranno a mancare.
Quando ho cominciato questa conferenza, che temo troverete ormai eccezionalmente lunga e noiosa, non a caso ho citato insieme i nomi di Volta e di Watt e lo sconosciuto inventore della prima ruota idraulica.
Esaurito il carbone, la macchina a vapore di Watt avrà compiuto il suo ciclo e sarà diventata un arnese inutile. Quale sarà dunque la sorgente di energia dell'avvenire?
Può darsi che l'avvenire ci riservi delle sorprese che ora non potremmo neppur concepire; ma oggigiorno l'unica sorgente di energia sulla quale possiamo contare è la forza dell'acqua; e lo potremo sempre, perchè quando il sole cesserà di mandare sulla terra energia sufficiente a sollevar l'acqua del mare in vapore, immagazzinarla nelle nubi, e precipitarla in pioggia e neve per farla tornare al mare, anche la vita, o almeno la vita come la vediamo e la comprendiamo noi ora, sarà cessata. E l'unico modo che ora conosciamo, di raccogliere e distribuire a distanza questa forza dell'acqua e di servirsene per tutti gli usi della vita moderna è la trasformazione sua in quella forma d'energia la cui esistenza Volta ha svelato pel primo 97 anni sono.
Dappertutto, fuorchè nelle steppe e nei deserti, la natura ci offre gratuitamente questa forza, e non è più un sogno la possibilità di portarla a distanza, trasformandola in energia elettrica. Il Niagara travolge, al posto della celebre cascata, una forza di sei milioni di cavalli, e già ora se ne sta utilizzando una piccola parte, che sarà, a progetto compiuto, di 150 mila cavalli, cioè da una metà a un terzo di tutta la forza idraulica utilizzata presentemente in Italia; e mentre vi parlo, una parte di questa forza è mandata a Buffalo, a 45 chilometri di distanza.
Dappertutto, in America come in Europa e nell'Africa stessa, si vanno progettando e compiendo opere colossali per raccogliere la forza delle cadute, trasformarla in energia elettrica e portarla sui luoghi di consumo, ove si riconverte in luce, calore e forza, secondo il bisogno. In questa gara l'Italia si è affrettata a prender posto; l'impianto fatto a Tivoli presso Roma e quello che si sta facendo a Paderno presso Milano, sono fra i più grandi che si sieno concepiti finora.
Circondata in gran parte dal mare che contiene la materia prima della forza, cioè l'acqua, con quei grandi condensatori per precipitarne i vapori, che sono le Alpi e l'Appennino, l'Italia è uno dei paesi del mondo più ricchi di questa energia fornita dalla natura. I nostri fiumi travolgono una forza di circa 45 milioni di cavalli fra i monti e i mari Adriatico e Tirreno; e, se anche se ne utilizzasse soltanto la decima parte, si avrà sempre una forza rappresentante un valore, al prezzo odierno del carbone, di 600 a 800 milioni, e più che doppia di quella che presentemente si impiega in Italia per le industrie tutte, per le ferrovie e per la marina. Il giorno in cui l'avessimo utilizzata, si inaugurerebbe in Italia un'èra di prosperità e di primato industriale e politico del quale non potremmo neppure farci un'idea.
Vedete dunque, o Signori, quale avvenire ha preparato al nostro paese quel semplice apparecchio che Volta congegnava nell'anno 1800 nel tranquillo asilo del suo laboratorio di Como. E a questo avvenire avranno contribuito più che tutti, dopo di lui, due altri italiani, il cui nome è scritto a caratteri d'oro nella storia delle scienze fisiche: Pacinotti, il quale costrusse a Pisa nel 1860 la prima macchina dinamo-elettrica, e non presago della straordinaria importanza della sua invenzione, si limitò a pubblicarne una descrizione nel 1867, tre anni prima che Gramme lanciasse nell'industria la macchina stessa che ora porta il suo nome; e Galileo Ferraris, che nel 1885 scopre il principio del campo magnetico rotante e ne pubblica la descrizione nel 1888, mentre Tesla, pochi mesi dopo, costruisce il primo motore elettrico fondato sullo stesso principio. Pacinotti è scomparso dal campo della scienza militante e Ferraris è scomparso immaturamente dalla scena del mondo, e sulla sua tomba, schiusa da meno di due mesi, l'Italia e la scienza piangono ancora; ma permettete, o Signori, che in questo giorno in cui ho avuto l'onore di parlarvi di Volta, chiuda la mia disadorna conferenza, rendendo omaggio a questi sommi che si sono dimostrati non indegni successori dell'inventore della pila.
MUSICA E BELLE ARTI
CONFERENZA
DI
CORRADO RICCI
Gli anni 1815 e 1831 (il primo con la caduta dell'impero napoleonico e l'ordinamento degli Stati italiani, e il secondo con la rivoluzione che, dalle Romagne, si estese per le Marche e per l'Umbria sino alle mura di Roma) possono in Italia considerarsi come limiti di un periodo politico, ma non di un periodo artistico. Certamente verso la fine di esso cominciano l'innovazione romantica e il preraffaellismo, e si svolge la prima grande fase del melodramma italiano; ma nè il '15 nè il '31 segnano certo l'esordio o la decadenza di nessun tipo speciale. Mentre infatti la ribellione contro il barocco e lo sviluppo del cosiddetto classicismo risalgono allo scorcio del secolo precedente, il romanticismo si produce per assai tempo ancora, sino, cioè, ad oltre la metà di questo secolo.
Quando dunque giunse il '15, l'arte si plasmava sulle formule classiche, calma, sicura, padrona del campo. Il periodo eroico della lotta era finito, può dirsi, dal giorno della morte di Gian Battista Tiepolo, l'ultimo dei grandi barocchi. Finch'ei visse, la vittoria agli apostoli del «ritorno all'antico» fu contesa. È noto che Raffaello Mengs, il primo forse e più animoso incitatore all'ammirazione dell'arte greca, nella Corte di Madrid, datosi a lavorare in concorrenza del celebre decoratore veneziano, n'ebbe la peggio e se ne sdegnò così, che i suoi sdegni furono creduti effetto di gelosia. Ma è chiaro che, convinto delle sue rigorose e corrette affermazioni estetiche, non poteva se non ribellarsi alle splendide bizzarrie e alle sfrenatezze del rivale, e legittimamente seccarsi di vederle ancora preferite alle serie e gravi sue prove, per riattaccarsi alle grandi tradizioni dell'arte antica.
Finito il Tiepolo, e slombate e decomposte nei deboli imitatori le strane ma luminose e popolose sue visioni, la falange dei classicisti, con la critica del Winckelmann, con l'arte del Batoni, del David, dell'Appiani e d'Antonio Canova, divenne esercito poderoso, dinanzi al quale i vecchi artisti fuggirono come sgominati, gettando le armi. Pochi anni dopo, i dipinti dello stesso Tiepolo erano trascurati come quelli di un pazzo, tantochè, mentre si levavano dalle chiese infiniti quadri d'ogni tempo e d'ogni scuola, per trasportarli in Francia, i suoi erano scartati senza misericordia, con palese dileggio.
* * *
Dunque alla caduta dell'impero di Napoleone le arti procedevano sulle formule del Canova, del David e dell'Appiani; ma questi tre campioni dello stile neo-classico non lavoravano oramai più. L'Appiani anzi moriva nel 1817, e il Canova appena cinque anni dopo. Il David, è vero, sopravvisse loro, sino alla fine del 1825, ma dagli avvenimenti politici sbalestrato lungi dal suo studio e dalla Francia, e già presso ai settant'anni, non ebbe più l'animo di darsi a nuove grandi opere, nè potè compierne alcune delle cominciate.
Parecchi degli artisti, che succedono immediatamente, non mancano di pregi e di fama; ma nessuno più presenta tali tratti e tali novità da costituire bell'argomento di uno studio sintetico, nel quale si possa, all'esame del genio innovatore, unir quello dei capolavori e di tutta la scuola e dello speciale tipo artistico, così come si può facilmente e brillantemente fare per Giotto, per Masaccio, per Leonardo, per Raffaello, per Michelangelo e per tanti altri.
Il fuoco vivo dell'arte si era ovunque oramai tramutato nella tiepida cenere dell'accademia. Non v'erano più giovani entusiasti che corressero a scaldarsi ed aprire la mente al calore d'un qualche artista potente, come già nel Rinascimento; ma folle, che dovevano seguire una massima, un corso, un insegnamento rigidamente prestabilito, perocchè le stesse accademie dei Caracci e le altre, sorte e fiorite fino ad oltre la metà del secolo XVIII, furono ben diverse da quelle fondate poi, come ogni altra scuola o seminario, sotto la tutela degli Stati, con norme burocratiche rigorose e con sistemi estetici definiti. I Caracci, ad esempio, allontanavano dalla loro accademia, come già i vecchi maestri dalle loro botteghe, quelli che non mostrassero una promettente tendenza artistica. I buoni, poi, divenuti esperti nel disegno, si spargevano nelle botteghe di quei maestri che loro maggiormente garbavano. Chi seguiva perciò la cupa ed energica arte del Guercino, chi la luminosa e delicata di Guido, chi la sobria e corretta del Domenichino.
Nelle accademie del periodo pseudo-classico, come purtroppo ancora nelle odierne, la scelta, da parte degli artisti e degli scolari, fu senz'altro esclusa. I maestri dovevano iniziare all'arte quei giovani, buoni o cattivi, che lo Stato ammetteva alla scuola, mentre gli scolari, per ottenere i diplomi, dovevano seguire inevitabilmente l'insegnamento di quei maestri, buoni o cattivi, che lo Stato dava loro.
Io non dirò quale e quanto numerosa schiera di mediocrità e di anime fredde pullulasse allora nel campo della pittura e della scultura. Fatti i primi studi nelle piccole accademie patrie, su modelli di teste o piedi o mani convenzionali punteggiate a matita con noiosa pazienza sino a che la sfumatura paresse dileguare con la gradazione dell'alito; copiate tondeggianti e levigate composizioni classiche da esemplari all'acquerello, dove ogni traccia del pennello doveva esser dissimulata, concorrevano con qualche mediocre lavoro ad una pensione, ed ottenutala si recavano dove fiorivano scuole migliori, come a Firenze e a Roma. V'erano, là, discreti artisti, e soprattutto v'erano le maraviglie dell'arte passata, lo splendore della natura e il fàscino di leggende e di storie immortali. Ebbene, che mandavano per saggio i pensionati? Forse qualche dipinto, in cui, dietro a una figura umanamente sentita, si vedesse un lembo delle colline o dei monumenti fiorentini, o la grandiosa solitudine della campagna romana o qualche lacero avanzo d'un tempio o d'un acquedotto? Nemmeno per sogno!
I magazzini di molte gallerie e di molti istituti di Belle Arti rigurgitano di quei saggi. Sono tutte composizioni senza spirito e senza colore, di figure solennemente atteggiate come i tragici di scuola vecchia, con fondi di monumenti disegnati o dipinti di maniera, e non variano mai dai soliti temi della Morte di Virginia o di Socrate, di Edipo cieco, del sacrificio di Polissena, di Filottete nell'isola di Nasso, di Lucio Albino che raccoglie le fuggenti vestali e simili. Per la figura, si direbbe che non un'anima di quei giovani ha letto nel pensiero di Giotto, nella gentilezza di Sandro Botticelli o del Perugino, nella forza di Luca da Cortona o di Michelangelo; pel paesaggio, si direbbe che non un occhio ha contemplato il Tevere e l'Arno, tra il declivio dei colli, e le rovine di Roma e le torri gloriose e le chiese e i palazzi.
Begl'ingegni allora non difettarono, nè difettò loro l'occasione di manifestarsi in grandi lavori, ma lo stile in voga e i preconcetti, che il bello emanasse più che dal vero, dai modelli classici, li incepparono. Riattaccatisi senz'altro a forme antiche, già concrete, già sfruttate, furono vecchi senz'essere stati giovani; cosicchè mancando dinanzi a loro uno di quei lunghi e nobili periodi di ricerca, di sforzi, di preparazione, mancò inevitabilmente tra di essi uno di quegli artisti che sembrano radunare tutti gli elementi concordi sviluppatisi pel corso di talora più secoli e pel lavorìo di molte anime e di fonderli insieme come fecero Raffaello e Leonardo rispetto all'arte umbra e toscana; Tiziano e il Correggio rispetto all'arte veneziana ed emiliana.
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A Roma, dove per lo studio delle statue antiche e per la fama della scuola, ma anche, e più forse, per abitudine, traevano molti, fiorivano allora Luigi Agricola, Gioacchino Serrangeli, Giovanni Silvagni, Luigi Rubbio e molti altri. Portava però il vanto su tutti Vincenzo Camuccini, natovi nel 1775. Egli come concetto non si distaccò dal David: ma curò anche lo studio dei maestri italiani del cinquecento e specialmente di Raffaello, con poco vantaggio del suo colorito. La fama straordinaria ch'ebbe a' suoi tempi è quasi del tutto dileguata: la facilità grande del disegno e dell'esecuzione non valse a mascherare la povertà dell'ispirazione e la poca originalità dei pensieri. Per questo, forse, i ritratti di lui sono da taluno apprezzati più delle grandi composizioni esprimenti episodi della storia romana (Orazio Coclite, Romolo e Remo, Partenza di Regolo per Cartagine, Morte di Virginia ec.) o del periodo eroico del cristianesimo. In queste si servì d'infinite reminiscenze, tolte a marmi classici ed a pittori della Rinascenza, male assimilate, e perciò anche male dissimulate, tanto che Pierre Guérin diceva di lui: «S'è nutrito di Raffaello e degli antichi, ma non li ha digeriti.»
Questi teneva lo scettro della pittura là dove concorrevano quasi tutti i giovani d'Italia e molti dall'estero! La scultura aveva però migliori rappresentanti, che se anche si ripeteva freddamente elegante, tornita e levigata con Carlo Finelli, che poi passò a Firenze, con Cincinnato Baruzzi, che presto se ne andò a Bologna, con Pompeo Marchesi e con Gaetano Monti, che poi si trasferirono a Milano, e con altri scolari del Canova, si sollevava però dall'ordinario per opera di Alberto Thorwaldsen e di Pietro Tenerani suo scolaro.
È però inutile ch'io dica che in tutti perdurava il concetto della bellezza antica, perchè se anche si ponevano talora dinanzi al vero, essi o lo correggevano o lo vedevano e trasformavano sotto l'influenza della scultura classica e quasi con un sistema geometrico. Questo fenomeno che può sulle prime sembrare assai strano, appare invece naturalissimo, quando si consideri che in tutti i secoli lo stesso vero tradotto in arte si è sempre diversamente atteggiato a seconda, dirò così, dei temperamenti o dei sentimenti del tempo. Le cifre singolari dei trecentisti non si trasformavano di fronte a un ritratto, come non si trasformavano quelle dei barocchi, i quali, anche quando erano costretti a copiare monumenti bizantini od ogivali, incurvando un po' una linea, ingrossando lievemente una modanatura, movendo con maggiore larghezza le foglie d'un capitello, finivano per fare una specie di parafrasi barocca.
I temi d'altra parte cambiavano di poco. Il Finelli si compiaceva di scolpire un Discobolo, una Venere, le Grazie, e se il Marchesi talora lasciava interrotta un'Urania, una Tersicore, per lavorare di scalpello intorno alle statue di Carlo Emanuele, del Beccaria, del Bellini, guardava come meglio si potesse ingentilire il vero e talora non resisteva a cingere d'un classico paludamento uomini moderni, come fece appunto ritraendo Wolfango Goethe.
Alberto Thorwaldsen danese venuto a Roma, di ventisei anni nel 1796, finì per rimanervi più di quarant'anni. Nessuno era allora più di lui fanatico sostenitore delle teorie del Mengs, del Winckelmann e del David. Gli pareva anzi che fosse perfettamente inutile e ad un tempo pericoloso cercare nella realtà le leggi e i principii dell'arte, quando già si erano concretati nella statuaria greca dalla quale conveniva derivarli. – Come mai con tali idee gli riuscì d'avvantaggiarsi sui contemporanei?
Procedendo nella riflessione e nello studio s'accorse che le forme classiche passate per lo spirito dei canoviani erano divenute fiacche, meschine, si erano immiserite nella pretesa di una leggiadria ottenuta a tutto scapito della gravità. Questa sola giusta preoccupazione valse a migliorare la sua scultura. In conclusione, avendo fatta bene la diagnosi, gli fu abbastanza agevole di procedere alla cura e di restituire all'ammalata una certa salute.
D'allora, anche modellando figure come Amore e Psiche, Ganimede, Adone, Ebe, seppe evitare l'effeminatezza e la mollezza, e dare alla gioventù una più vigorosa e valida espressione. Col Giasone e col grande bassorilievo del Trionfo d'Alessandro potè ottenere una maggiore larghezza, come potè evitare ogni oscurità e ogni esagerazione simbolica ed allegorica nella Notte che porta sulle braccia la Morte e il Sonno in sembianza di due bambini. Un eminente francese scrisse di lui: «Egli ha subìto nella concezione della bellezza l'influenza del Winckelmann, al pari del Canova che rivestì pure d'una grazia tutta moderna la forma antica che effeminò… Thorwaldsen ha studiato profondamente l'antico, se n'è imbevuto, ha veduto la natura con gli occhi d'uno scolaro di Fidia: semplificandola, spogliandola dei particolari inutili, conducendola verso un bello ideale. Come un greco del buon tempo antico, egli evita i gesti violenti, le espressioni sforzate, tutto ciò che può danneggiare l'armoniosa severità della linea. Il suo Mercurio che si prepara ad uccidere Argo è un capolavoro che può sopportare il confronto delle più belle statue greche. Nella sua Venere c'è in qualche modo presentita la nobile e vittoriosa bellezza della Venere di Milo. Thorwaldsen era un classico puro, e non si potrà mai trovare in lui il romantico. Eccelleva nel bassorilievo, che richiedeva tanto equilibrio di ponderazione e di sapienti sacrifici. Il suo fregio trionfale d'Alessandro è una delle più belle cose che la scultura abbia prodotto dai secoli di Pericle, e potrebbe incastrarsi nel frontone d'un tempio greco. La Notte che regge la Morte e il Sonno è una composizione che non si cessa mai d'ammirare. Le tre Grazie hanno un'ingenuità pudica, cui gli antichi avrebbero applaudito.» Così Teofilo Gauthier, il quale, senza dubbio, oggi di fronte ai nuovi e più gravi problemi imposti all'arte, sarebbe più temperato nella lode. Questo è certo però che il Thorwaldsen è il solo artista del periodo neo-classico che possa competere col Canova, col Canova, bene inteso, ligio alla tradizione antica, poichè nei pochi momenti in ch'egli ardì di chiedere ispirazione e forma al vero, assurse ad un'altezza difficilmente raggiungibile, come nella statua di papa Rezzonico.
Il Gauthier si limita con ragione a ricordare le opere del Thorwaldsen ancora giovine. I successi e le ordinazioni gli fecero perdere più tardi la prima serenità. Non scegliendo più spontaneamente i temi, ma eseguendo quelli che gli erano commessi, cessò dal trattare quanto conveniva meglio al suo sentimento, al suo genio. Inoltre, operando in fretta, abbandonò lavori d'un'esecuzione molto superficiale pur di riempire di statue, di busti, di rilievi, mezza Europa.
Molti giovani, specialmente in quel periodo in cui, per corrispondere a tutte le ricerche, aveva bisogno di aiuto, appresero sotto di lui; ma non emerse veramente che Pietro Tenerani, al quale, il Thorwaldsen, partendo da Roma, lasciò un indiscutibile primato sugli altri scultori. Il Tenerani ingegnoso, accurato nelle forme, e devoto pur sempre agl'insegnamenti de' suoi grandi maestri (aveva studiato un poco anche sotto il Canova) ebbe una certa versatilità, rispetto agli argomenti, che gli valse di poter mantenersi in un posto considerevole anche quando l'arte accennò a prendere un'altra strada. Dalle Psichi, dalle Veneri, dai Cupidi seppe alzarsi a un certo sentimento col suo Crocifisso e con la Deposizione e ad una certa solennità nei monumenti del Conte Orloff e di Ferdinando II in Napoli e di Ferdinando III in Pisa.
Dirò infine che si fermarono in Roma Giuseppe Fabris, che acquistò rinomanza col Milone da Crotone assalito dal leone, e Camillo Pacetti, che, per consiglio del Canova, fu poi chiamato a dirigere la scuola di scultura a Milano.
* * *
Nella scuola pittorica fiorentina, allora in fama d'una grande correzione di disegno, primeggiavano (sopra una notevole schiera di minori) Pietro Benvenuti e Luigi Sabatelli; il primo nato ad Arezzo nel 1769 e il secondo, tre anni dopo, a Firenze.
Il Benvenuti abile, coscienzioso, corretto disegnatore e talvolta efficace coloritore, fu, fino da' suoi tempi, giudicato un artista freddo, ossia di poco sentimento. Certo anche agl'intendenti d'allora l'individualità sua, si palesava più pel metodo e per la tecnica, che per l'anima. I suoi nudi hanno forme distinte, ma sistematicamente tracciate e squadrate. Le sue composizioni sono abbondanti e chiare ad un tempo, ma poco originali. Lavorò moltissimo, dipinse ritratti, grandi quadri d'altare e vasti affreschi, questi ultimi con una speciale compiacenza, come ne fanno fede quelli della Sala d'Ercole nel Palazzo Pitti e la cupola della Cappella Medicea in San Lorenzo, dove, operando per sette anni continui, espresse otto soggetti dei due Testamenti.
Molti perciò lo dissero il maggiore fra i pittori toscani del suo tempo, ma molti ancora gli tolsero tale vanto per darlo al Sabatelli. «Abbiamo la ferma convinzione – scriveva il Rovani – avvalorata dal giudizio de' più esperti e dei più appassionati, ch'egli più di tutti i nominati abbia sortito originale e potente l'ingegno dell'arte.» Era infatti, il Sabatelli, una natura focosa, rivelatasi con un entusiasmo non comune a Roma, dove, giovanissimo ancora, sbalordiva per la rapidità onde produceva popolosi disegni. Di là passò a Venezia spintovi dal suo benefattore Pier Roberto Capponi, intimorito che l'influenza della plastica di Roma spegnesse in lui l'ardimento del colore. Tornato in Toscana, fu tosto sopraccaricato di lavoro e, com'è naturale, messo a confronto del Benvenuti. Nel Duomo d'Arezzo, alla grande Giuditta di quest'ultimo s'oppose la sua Abigaille che cerca di stornare l'ira di Davide dall'improvvido Naballo, e parve ad alcuni che «risultasse quanto fosse più spontanea la facoltà inventiva del Sabatelli e più energico il disegno e più vera l'espressione e meno convenzionale la composizione geniale del quadro; laddove il quadro del Benvenuti, di gran lunga meno fecondo, riuscisse, più che una composizione di getto, una combinazione compassata ed artificiale di figure prese da ogni dove e costrette poi dall'artista a rendere un'espressione diversa da quella a cui erano state atteggiate dagli artefici che le avevano primamente trovate.» Forse in queste parole del critico lombardo è l'esagerazione che inevitabilmente accompagna la polemica. Per quanto il Sabatelli s'avvantaggiasse per ispontaneità sul Benvenuti, non riuscì nullameno a svincolarsi dal convenzionale, e n'è testimonio il grande affresco dell'Olimpo che orna una vòlta del Palazzo Pitti, in cui il manierismo si palesa, su per giù, come negli altri lavori dei contemporanei. Questo è sicuro però, che la ricca fantasia e la perizia di disegnatore, gli valsero d'essere ammirato e lodato anche quando l'arte, indirizzata diversamente, rese malvisi i pittori pseudo-classici.
Il Sabatelli visse pure a lungo in Milano e v'insegnò nell'Accademia di Brera. Ma là, col Rossi, con lo Zanoia, col Palagi, col Pacetti l'arte pittorica non batteva diversa strada, come non la batteva a Venezia col Matteini, col Fabris, col Lipparini; a Torino col vecchio Biscarra; con Gaspare Landi a Piacenza; col Martini e col Borghesi a Parma; con lo Zatti a Modena; col Calvi e coi Basoli in Bologna, una delle città allora più decadute di tutta Italia: nè (è ovvio dire) procedevano diversamente gli scultori, tenaci a ripetere senz'altro e a indebolire e a rendere sempre più glaciali le formule del Canova.
Migliore indirizzo tenevano soltanto le scuole d'incisione con Giuseppe Longhi a Milano, con Paolo Toschi a Parma, col Rosaspina a Bologna, col Morghen a Firenze; ma per essere costrette a riprodurre, oltre che opere del periodo neo-classico, anche i capolavori delle nostre Gallerie, si trattenevano spesso nella contemplazione di pitture e sculture del Rinascimento, dalle quali potevano attingere ad ora ad ora energia e vitalità, virtù in genere mancanti all'architettura, che da parte sua si svolse parimenti nell'imitazione delle forme e delle proporzioni greche e romane. Ad ogni modo, seppero pure da quell'imitazione trarre lavori corretti ed eleganti il Vanvitelli, il Carasale, il Paternò-Castello, l'Antolini, il Calderari, il Visentini, il Temanza e diversi altri. Ma, perchè il lungo tema mi spinge,