Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte II», sayfa 6
LA POESIA PATRIOTTICA
E GIOVANNI BERCHET
CONFERENZA
DI
GUIDO MAZZONI
Signore e Signori,
Qualche anno fa, nel chiudere una di queste letture fiorentine nelle quali vo ormai militando da veterano, ebbi a citare tra le poche liriche vivaci del secolo XVI la Canzone in laude dei Venzonesi. Concedetemi che di quella chiusa io faccia il principio alla lettura d'oggi.
Nel 1509 i Tedeschi sboccano dalla Pontebba in Italia: i nobili veneziani abbandonano il varco che loro è stato commesso per le difese; ma vi accorre un dottore di Venzone con quaranta de' suoi concittadini; e costoro sorreggono le scorate milizie di San Marco, per tre giorni combattono, aiutati di munizioni da una gentildonna che fonde a ciò le scodelle di stagno e con rischio di vita le reca ella stessa nella battaglia, e ricacciano gl'invasori.
Eran gionti al stretto passo
Nove milia e più Germani:
Avean preso il monte i cani!:
Ma cacciati fôro al basso
Da quaranta di Venzone.
Su su su, Venzon, Venzone!
Tale il canto allora subito levatosi ad esaltare l'eroica prova fatta dalla virtù italiana che in «tanto piccol bastione» aveva «spinta e esclusa la gente cruda e atroce fuori d'Italia.» Par di sentire il ritornello dell'inno garibaldino. Ed io, qualche anno fa, lette alcune strofe, dicevo: «Un popolo che opera così e canta le sue glorie così, meritava lirici d'arte migliori di quelli del secolo XVI: e perchè li meritava, mutati i criterii dell'arte, li ebbe.»
E proprio a me tocca l'onore di parlarvi oggi di lirici ben più degni che non furono, in genere, que' petrarchisti, que' classicheggianti, e poi que' francesizzanti, più o meno eleganti e ingegnosi, ma senza anima. Subito che il popolo d'Italia fu scosso e sussultò là dentro il secolare sepolcro, e ne risorse con la spada in pugno, se non ancora con l'alloro alle chiome, altri canti ascoltò di speranza e d'incitamento; e li imparò e fe' suoi per le congiure, pe' martirii, per le battaglie. Certo, anche innanzi, dal Cinquecento in giù, si era molto parlato in rima dell'Italia: basti rammentare il Filicaia: «Italia, Italia, o tu cui feo la sorte – Dono infelice di bellezza,» «Dov'è, Italia, il tuo braccio?»; e così via via. Ma che avrebbero mai che fare que' sospiri, anche se fossero tutti sinceri, que' sospiri di cortigiani o di buoni eruditi, con l'enorme voce e co' lapilli ardenti che eruppero dall'Italia, fatta tutta un vulcano? Morivano innocui i sospiri entro una tazza di cioccolata o sulla polvere d'un in-folio; i boati e la lava cacciaron via dalla terra, che gli ondeggiava sotto i piè, lo straniero. Sonetti e canzoni dilettavano, è vero, gli orecchi colti e le fantasie addottrinate co' suoni e con le immagini d'una romanità accademica: ma i canti nuovi confortarono l'esule e il prigioniero, suscitarono nel giovane la bramosia delle congiure o della guerra, mossero e ringagliardirono i muscoli nelle marce, si levarono di tra il fumo delle mischie quasi a guidare «Arcangeli della nuova età» (come il Carducci disse della Marsigliese) le baionette italiane contro gli oppressori.
Non tutti codesti effetti dovremo vedere oggi, perchè il giro prefisso quest'anno alle letture ci rattiene di qua dalle battaglie per l'indipendenza, di qua dal Poerio, dal Mameli, dal Prati, dal Mercantini; ma di tutti sarà facile vedere almeno il germe, nell'esame, sia pur necessariamente rapido, della nostra poesia patriottica nel risorgimento fino al 1846.
I
La poesia del risorgimento italiano nacque indubbiamente con l'Alfieri; il quale, dopo aver convertito in politico il sentimento civile del Parini, dopo aver mosso su le scene guerra a' tiranni, e aver cantato l'abbattimento della Bastiglia, e averne baciate le rovine con labbro di fervido ammiratore della Rivoluzione, sbigottì degli eccessi, e odiò i Francesi calati e rimasti in Italia non tanto da redentori quanto da spadroneggiatori. Pare che su gli estremi della vita si pentisse, almeno un po', di aver confuso i rancori suoi privati e il disdegno de' fatti brutali con la grande idealità, la grande opera, la grande efficacia, che erano state ad ogni modo e duravano ne' rivolgimenti dal 1789 in poi: ma se quel sentimento lo fe' dubitare, forse, di essere riuscito, nel Misogallo, ostile a torto o troppo; perchè mai avrebbe dovuto rinnegare la dedica del Bruto II al futuro popolo italiano, e il sonetto in cui aveva vaticinato che quel popolo, educato anche da lui medesimo nella coscienza nazionale, sarebbe poi sceso in campo contro i Francesi? Potè rimpiangere di avere scagliato qualche freccia avvelenata, non già di avere ridesti gli animi e poste egli in mano le armi ai soldati dell'Italia sua.
Se non che, mentre l'Alfieri da quella solitudine sdegnosa, e direi misantropica per amor di patria, guardava bieco gli eventi, questi suscitavano intanto per ogni parte della penisola, e più specialmente a Torino, a Milano, a Venezia, a Bologna, le voci de' verseggiatori in due cori discordi, d'ammirazione e amore, di scherno e abominazione. Non mette il conto d'aggiungere che le vittorie del Bonaparte fecero presto tacere quest'ultimo coro, nè, finchè il primo console e l'imperatore durò, più che qualche sommesso borbottìo o qualche maliziosa risata fecero agli orecchi bene attenti la parte commessa un tempo da' Romani agli schiavi ne' trionfi. Fatto sta che avemmo subito, nel 1796, la Marsigliese:
Cittadini, a noi tornati
Son di gloria i fausti giorni;
De' Tiranni insanguinati
La memoria già perì;
e tutto un Parnaso democratico ossia Raccolta di poesie repubblicane de' più celebri autori viventi uscì in luce nel 1801, vantandosi de' nomi (per dir solo i principalissimi) del Gianni, del Fantoni, del Mascheroni, del Foscolo, del Monti. Ne' due volumetti del Parnaso è manifesto, non pure il fatto storico, essere ormai in molti eletti pieno e cosciente il desiderio d'un'Italia unita tutta quanta e indipendente e libera, perfino con Roma capitale, ma anche la tendenza estetica verso espressioni nuove della vita nuova nazionale. Certo vi perdurano i metri consueti alla lirica patriottica de' secoli innanzi, il sonetto meditato, la grave canzone; e non vi mancano le immagini e i nomi della mitologia e della storia greco-romana, cui anzi davano un certo rincalzo gli avvenimenti stessi; ma si fa innanzi ardita e snella ne' settenarii e negli ottonarii la canzonetta, e l'inno vi romoreggia d'incalzanti decasillabi.
Onde ecco scendere sulla Lombardia due nuove Dee, la Fede e la Libertà, sorelle:
Ecco l'aere d'Insubria, e la terra
D'una luce novella risplende;
È la coppia divina che scende
Dai natali soggiorni del Ciel.
L'una Diva sostien la grand'asta
Colla mano ai tiranni funesta;
L'altra copre le membra e la testa
E i bei lumi d'un candido vel…
Ecco giungonsi amiche le destre,
L'una e l'altra concorde si abbraccia.
Sembra un inno del 1848 per Pio IX. Sapete chi, nel 1796, cantava così? Un seminarista, infervoratosi nel piantare l'albero della Libertà in mezzo al cortile del suo Seminario; e quel seminarista era Giovanni Torti; l'amico del Berchet e del Manzoni; l'autore de' versi che il Manzoni dirà pochi ma valenti; il patriotta che da vecchio esulterà ammirando e cantando in Milano, ben altro che l'albero della Libertà!, le barricate de' cinque giorni gloriosi.
Basti un tale esempio per tutti. E voi mi concederete, a vantaggio vostro, di saltar più anelli della catena che lega strettamente, più assai che non veggano di solito i critici della nostra letteratura, la poesia di quegli anni fortunosi a quella che fu poi detta romantica. Ma di tal saldatura ecco subito una conferma e una riprova: proprio quel Parnaso democratico del 1801 fu ristampato a Bologna da' liberali rivoluzionarii nel marzo 1831, come libro di propaganda, sotto il titolo nuovo d'Antologia repubblicana: e in fine, senza alcuna avvertenza, come normale e giusta continuazione, vi si trovano rime di Gabriele Rossetti e di Giovanni Berchet. Chè il grido gioioso del poeta abruzzese per la rivoluzione napoletana del '20, e il grido incitatore del poeta milanese pe' moti del '30 nell'Emilia e in Romagna, dovevano apparire infatti, quali erano, la risposta che tutto un popolo faceva ormai, unanime e ad una voce sola, a ciò che pochi eletti, su la fine del secolo scorso e su' primi di questo, avevano cantato volgendosi a lui.
Ma se a intendere come Napoli e l'Italia ebbero dal '20 in poi l'arte del Rossetti non occorre quasi altro che tener d'occhio lo svolgersi della lirica dal Metastasio nel Monti, e dal Monti ne' suoi immediati prosecutori, per l'applicazione ai fatti e ai sentimenti politici; mal s'intenderebbe l'arte del Berchet trascurando a questo punto colui che gli fu amico e maestro, Alessandro Manzoni.
Oh come ho goduto, mercoledì scorso, a sentirne in questa medesima sala le lodi, dalla voce eloquente del Panzacchi, a proposito de' Promessi Sposi! Nè per la strettezza dell'ora potè l'amico mio aggiungere alle altre questa lode, che il libro, nel '27, quando uscì, era altamente benefico anche perchè animato di nobile patriottismo. Non sono un'allegoria, come affermarlo sul serio?, i Promessi Sposi: gli Spagnuoli che vi son descritti nostri padroni nel secolo XVII, son essi gli Spagnuoli, e non i Tedeschi del XIX; Renzo è un povero contadino lombardo, non il popolo italiano angariato; e le sue nozze con Lucia, avversate da don Rodrigo e aiutate da fra Cristoforo, non simboleggiano per nulla le nozze del popolo italiano con l'Italia, a dispetto della Santa Alleanza, sotto la protezione del pontefice. No; mettiamo da parte queste chimere. Ma appunto perchè la macchina fantastica del romanzo s'incardina così saldamente nella verità storica, e la Lombardia sotto il mal governo straniero è rappresentata quale veramente fu, miseranda; quanti seppero leggere e ripensarono (che che ne pensasse sulle prime anche il Berchet) si accorsero la lezione del passato valere pel presente e dover valere per l'avvenire: un popolo non può essere felice quando è amministrato dallo straniero. Così i Promessi Sposi apparvero fecondi di bene morale e politico anche al Sismondi e al Giordani; quegli protestante, questi classicheggiante: e contro ciò cui poteva indurli la loro fede religiosa ed estetica verso un'opera d'intendimenti cattolici e di fattura romantica, que' due valentuomini le plaudirono. L'Italia, dissero, di tali libri ha bisogno. E libri tali che neppur la cruda censura austriaca poteva proibire, erano anche per ciò meglio desiderabili ed efficaci; come efficaci, voi lo sapete, riuscirono per la loro semplice verità Le mie prigioni del Pellico. Più d'un censore austriaco de' furbi, io mi credo avrebbe preferito di gran lunga si diffondessero i canti della maledizione anzi che sì fatte pagine innocue della così detta rassegnazione.
II
Ma tutto il Manzoni, per grande che egli quivi apparisca, non sta entro i Promessi Sposi; nè tutto il pensiero suo politico sta in un consiglio indiretto. Quando nel '27 diè in luce il romanzo, già da un pezzo aveva scritte le liriche e le tragedie, e tutti già lo acclamavano o biasimavano capo di quella scuola romantica che era ormai sinonimo di congiura liberalesca, come scuola classica voleva ormai dire congrega di reazionarii e di spie: tanto fra noi la questione letteraria si era rapidamente snaturata e confusa nella grande questione nazionale. E già allora i prigionieri dello Spielberg si canticchiavano l'un l'altro a consolazione certi versi del Trionfo della Libertà del Manzoni giovinetto; già i nostri giovani imparavano a mente i cori del Carmagnola e dell'Adelchi; già gli amici del poeta sapevano la canzone pel Proclama di Rimini del '14 e l'ode pe' moti del '21.
Al Manzoni, che nel '14 firmò la protesta contro il Senato perchè gli sembrava non doversi invocare dagli stranieri il re, ma adunare i comizi che deliberassero: nel '48 firmò, durante le Cinque giornate, per la strada, sul cappello d'un amico, la petizione a Carlo Alberto perchè occupasse Milano, e s'addolorava poi che la firma, riuscitagli necessariamente tremula in quel disagio, potesse esser creduta tremula per altra ragione; accolse in sua casa il Mazzini, e gli disse: – Noi due siamo forse i più antichi unitarii che conti fra i vivi l'Italia! – : accolse il Garibaldi, e, andandogli incontro, esclamò: – Se mi sento un nulla dinanzi a qualsiasi de' vostri Mille, che sarà dinanzi al loro capitano? – ; accettò di esser fatto senatore del Regno d'Italia, e le due volte che si recò a votare furono per la proclamazione del Regno e pel trasferimento della capitale da Torino a Firenze, verso Roma; di Roma libera accettò la cittadinanza onestamente vantandosi delle aspirazioni costanti della lunga sua vita all'indipendenza e unità d'Italia; scrisse parole di reverente encomio per Anita Garibaldi; rifiutò di dettare l'iscrizione pel monumento milanese a Napoleone III, reo di Villafranca e Mentana; al Manzoni, tale e storicamente sì fatto, nessuno può ormai, nè deve, negare un alto sentimento patriottico, non scemato mai dalla fede cattolica altamente sentita, e serbato incolume e puro, sempre, da ogni indegna mistura.
Bene ha narrato Giambattista Giorgini il dialogo tra il Manzoni e il Cavour quando, proclamata la costituzione del Regno, uscirono que' due insieme dal palazzo Madama, e la folla ammirata li applaudì. «Due grandi forze avevano fatto insieme l'Italia. Prima il sentimento a cui s'era inspirata tutta la nostra letteratura, quando, da palestra di verseggiatori eruditi, che era divenuta dopo il Petrarca, tornò a essere nazionale e civile. Secondo, la politica di Casa Savoia. Queste due forze avevano camminato per secoli verso la stessa mèta, ma senza conoscersi, senza sapere l'una dell'altra: anzi l'una dell'altra sospettose e nemiche. I due più grandi rappresentanti di queste due forze che s'eran finalmente incontrate, qui per la prima volta si mostravano insieme, e si stringevano in quel momento la mano.» Il Manzoni, agli applausi, non resse; e nella sua invitta modestia, per istornarli da sè, si volse anche lui al Cavour e si diè a picchiar le mani più forte degli altri. Poi, usciti dalla calca, là ne' Portici, un battibecco: a chi andavano veramente quegli applausi? nessun de' due li voleva per sè.
– Insomma, disse il Manzoni, Ella vorrebbe ch'io dessi ragione al campanaro che, sentendo levare a cielo la predica, si meravigliava che tutti lodassero quello che l'aveva fatta, e nessuno parlasse di lui, che l'aveva sonata. – Sicuro, rispose il Cavour; se il campanaro non l'avesse sonata, nessuno ci sarebbe andato, e il predicatore avrebbe parlato alle panche! —
Già, una buona parte di questa Italia si deve ai poeti! esclamò poi Garibaldi, il poeta che poco innanzi di morire salutava sul davanzale della finestra le capinere, riconoscendo in esse le anime delle sue bambine. Il Cavour e Garibaldi ebbero piena ragione. Fu l'arte che in Italia diffuse e scaldò l'amore alla patria; l'arte in tutte le sue forme, plastiche, figurative, melodiche, letterarie; fin là dove meno si addiceva, nella espressione cattedratica della scienza. Ma di esse forme vi si prestò una più direttamente, la poesia; nel melodramma, nel dramma, nel romanzo (che fu allora più che mai opera di poesia), nella lirica, nella satira. Nè voi crederete che io possa in tempo sì corto parlarvi a fondo di tanto; e vi attenderete da un altro lettore almeno la figura di Giuseppe Giusti e l'esame dell'arte di lui, del quale così nel 1846 scriveva il Berchet ad una ammiratrice di tutt'e due: «Uno sguardo acuto e malizioso sulle magagne del secolo, una forma nuova data alla satira, e un'assenza di tutte le reminiscenze della scuola, uno stile vividissimo, un accozzamento di imagini originali, una lingua tutta fresca; che vuol di più?»
La musica. «Veramente per amare la musica italiana d'oggi e comprenderla con intelletto d'amore (scriveva nel 1828-29 Arrigo Heine) bisogna aver dinanzi agli occhi il popolo stesso, i suoi dolori, le sue gioie… Alla povera Italia schiava è vietato di parlare, ed ella non può esprimere i sentimenti del cuor suo che per mezzo della musica. Tutto il suo odio contro la dominazione straniera, il suo entusiasmo per la libertà, il tormento della propria impotenza, il mesto ricordo dell'antica grandezza, e poi la debole sua speranza, l'ansioso attendere, la bramosia di soccorso; tutto ciò si nasconde in quelle melodie che dalla più grottesca ebbrezza della vita trascorrono in elegiaca tenerezza e in quelle pantomime che da lusinghevoli carezze prorompono in minaccioso sdegno.» Nè le melodie avevano in sè tale anima, senza che le parole del libretto non si sentissero talvolta sospinte a incauti sospiri, a gridi pericolosi. Si alza fin dall'Italiana in Algeri, già nel 1813, d'accanto a Mustafà che sta per essere nominato Pappataci, la cabaletta patriottica:
… Ah se pietà ti desta
Il mio periglio, il mio tenero amore,
Se parlano al tuo cuore
Patria, dovere, onor, dagli altri apprendi
A mostrarti Italiano, e alle vicende
Della volubil sorte
Una donna t'insegni ad esser forte.
Pensa alla Patria e intrepido
Il tuo dovere adempi;
Vedi per tutta Italia
Rinascere gli esempi
D'ardire e di valor!
Se questo fu nel melodramma buffo, voi sapete quanto più nel serio: e anche là dove nè il maestro nè il librettista ci avevan pensato, musica e versi divampavano di patriottismo per la volontà sovrana del pubblico, che non pur coglieva a volo ogni allusione, ma occasioni e pretesti inventava da sè. Più ancora, ben s'intende, nel dramma, dove cercata e voluta fu da tanti la diretta o indiretta commozione del sentimento liberale; dallo slancio, fuor di luogo, di Paolo nella Francesca del Pellico:
Per te, per te che cittadini hai prodi,
Italia mia, combatterò se oltraggio
Ti moverà la invidia. E il più gentile
Terren non sei di quanti scalda il sole?
D'ogni bell'arte non sei madre, o Italia?
Polve d'eroi non è la polve tua?
Agli avi miei tu valor desti e seggio,
E tutto quanto ho di più caro alberghi!
alla profezia di Giovanni da Procida nella tragedia del Niccolini, profezia che il vecchio poeta potè rammentare con nobile orgoglio a Vittorio Emanuele II in Firenze nel 1860:
Qui necessario estimo un re possente;
Sia di quel re scettro la spada e l'elmo
La sua corona. Le divise voglie
A concordia riduca; a Italia sani
Le servili ferite e la ricrei;
E più non sia, cui fu provincia il mondo,
Provincia a tutti, e di straniere genti
Preda e ludibrio. Cesseran le guerre
Che hanno trionfi infami; e quel possente
Sarà simile al sol mentre con dense
Tenebre ei pugna, ove fra lor combattono
Ciechi fratelli; e quando alfine è vinta
Quella notte crudel, si riconoscono
E si abbraccian piangendo!
alla sentenza che divenne proverbiale, nel Giovanni da Procida stesso,
… Il Franco
Ripassi l'Alpi e tornerà fratello!
a tutto quanto l'Arnaldo da Brescia, dove l'argomento non porge soltanto occasioni ma è esso stesso concepito dal poeta come una macchina di guerra, contro le idee che a lui sembravano dannose, e per la libertà degli ordinamenti e delle coscienze.
Affine al dramma storico fu allora pensato ed eseguito, con la mistura del racconto e del dialogo, quel genere di romanzo di cui il germe spiccatosi da un dramma del Goethe si era svolto così mirabilmente sotto il caldo alito avvivatore dello Scott.
Dianzi ho richiamata per un momento la vostra attenzione a considerare il valore de' Promessi Sposi, anche rispetto al sentimento patriottico; ma come sfuggirei meritata censura di grave dimenticanza se non rammentassi qui i libri del Guerrazzi? La Battaglia di Benevento e L'Assedio di Firenze, ne' quali ei volle di proposito, fondendo insieme il romanzo storico dello Scott co' poemetti epico-lirici del Byron, combattere una battaglia, ebbero su la gioventù l'ardente sapore e i rapidi e convulsi effetti dell'alcool. E dopo di essi piace rammentare i libri del Grossi, del Cantù, del D'Azeglio, di tutt'altro intendimento e di tutt'altra esecuzione: perchè appunto, in tanta varietà di temperamento e di propositi estetici, stupenda riesce la concordia universale a conseguire un fine comune.
III
Siamo giunti alla lirica. Delle voci che essa ebbe ne' primi decennii del secolo nostro, due furono le solenni: quella del Manzoni e quella del Leopardi. Ora, se difficilmente si potrebbe immaginare tanta differenza tra due scrittori quanta veramente fu tra l'uno e l'altro di loro; da una parte il romantico, dall'altra il classico; dall'una il credente cattolico, dall'altra il filosofo scettico; un amore ebbero comune, e lo espressero tutt'e due liricamente.
… L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio!
esclamava romanamente il povero contino di Recanati, dopo aver da poco dismesso l'abito di seminarista. Poi disperò di tutto e di tutti; o forse credè disperare? Quel dolore mondiale bene il Mazzini vide che celava la ferita profonda d'un dolore personale, ferita esulcerata dalle sorti della patria. Alla quale a ogni modo diede il Leopardi anche i canti pel monumento a Dante, per Angelo Mai, per le nozze della sorella Paolina, per un vincitore nel pallone: augurandole uomini e donne forti, e animatori al bene gli esempii de' grandi nel passato, i conforti de' migliori nel presente. Fin quando, esausto dal male, si diè a deridere nell'allegoria de' Paralipomeni la rivoluzione napoletana del 1820-21, nel narrare la morte eroica di Rubatocchi, dinanzi a quel topolino che si sacrificava alla patria ei fu vinto dal fantasma della virtù che aveva fatto sconfessare da Bruto, e a lei si volse con l'apostrofe fervida: – Santa Virtù! – dove Virtù val quanto Amore di patria. Onde Alessandro Poerio, che doveva morire di piombo austriaco, difendendo egli napoletano Venezia, nel piangere la morte del Leopardi, bene a ragione lo esaltava poeta della patria comune e magnanimo consigliere de' futuri soldati d'Italia; e bene a ragione le polizie proibivano que' canti ribelli e perseguitavano chi li possedesse.
Dal canto suo il Manzoni, con modi e intenti, in tutto il resto, diversi; e già accennai ad alcune delle sue poesie dal Trionfo della Libertà in poi. Chi tanto ammirava l'Alfieri da sdegnarsi, pure amando il Monti, che altri osasse metterli a pari, s'era nel 1814 levato su, in una canzone, contro la memoria delle guerre di Napoleone che aveva tratti fuor d'Italia, per una causa non loro, gli Italiani; e aveva detto, egli il Manzoni, ciò che poco dopo dirà con simile pensiero il Leopardi:
Oh giorni! oh campi che nomar non oso!
Deh! per chi mai scorrea
Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?
O madri orbate, o spose, a chi crescea
Nel sen custode ogni viril portato?
Era tristezza esser feconde e rea
Novella il dirvi: un pargoletto è nato.
E al proclama del Murat, l'anno dopo, quel proclama in cui si suscitava dalle Alpi allo stretto di Scilla l'Italia tutta alla indipendenza, aveva dato la canzone, che pur gli rimase interrotta dagli eventi, in cui affermava:
… Eran le forze sparse
E non le voglie; e quasi in ogni petto
Vivea questo concetto:
Liberi non sarem se non siamo uni;
Ai men forti di noi gregge dispetto,
Fin che non sorga un uom che ci raduni.
L'impresa del Murat fallì; l'Italia cadde tutta, volente o nolente, sotto le unghie dell'Austria, fredde e aguzze. Ma non per nulla i soldati nostri avean combattuto accanto ai Francesi più anni eroicamente; non per nulla quanto la penisola aveva di menti e di cuori aveva meditato e scritto e cantato su la libertà e l'indipendenza nostra. Napoli e il Piemonte insorgono, vogliono la costituzione, la ottengono: i Lombardi sperano che le milizie costituzionali scendano in campo a liberare anche loro, e, affrettandosi incontro, varcano il Ticino.
Soffermati sull'arida sponda
Volti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel nuovo destino,
Certi in cor dell'antica virtù,
Han giurato: Non fia che quest'onda
Scorra più tra due rive straniere;
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l'Italia e l'Italia, mai più!
L'han giurato: altri forti a quel giuro
Rispondean da fraterne contrade,
Affilando nell'ombre le spade
Che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno stretto le destre;
Già le sacre parole son porte:
O compagni sul letto di morte
O fratelli sul libero suol.
Il metro, e un qualche accenno, vi han subito rammentato l'inno del Torti seminarista; ma non mi curavo di farvi osservare ciò (che ha mai che fare, quanto alla forza lirica, l'inno di lui con questo del Manzoni?), e il raffronto, se mai, tende a un'osservazione che dovrem fare più oltre. Qui importa soltanto riconoscere, che il Manzoni, come già per la lirica sacra, nel coro La battaglia di Maclodio, e in questi versi, accettava i metri e le intonazioni de' predecessori suoi, che furon molti tra piccoli e minimi nella poesia della seconda metà del secolo scorso e ne' primi anni del presente: se non che, infondendovi per entro l'anima e l'arte sua superiori, veniva a effetti originali e spesso sublimi.
Sublime è infatti la chiusa, come di rado fu la lirica antica e la moderna:
Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
Che da lunge, dal labbro d'altrui,
Come un uomo straniero, le udrà!
Che a' suoi figli narrandole un giorno,
Dovrà dir sospirando: io non c'era;
Che la santa vittrice bandiera
Salutata quel dì non avrà.
Sorrideva poi, da vecchio, il Manzoni quando gli chiedevano se proprio allora, nel '21, avesse composto questi versi profetici, o non piuttosto nel '48 dopo le Cinque giornate; sorrideva, e confessò ch'era stato profeta.