Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1831-1846), parte II», sayfa 7
IV
I moti del 1820-21 mandarono allo Spielberg il Pellico: e Giunio Bazzoni ne pianse la morte, di cui s'era a torto sparsa la voce, in un'ode allora famosa: là anche mandarono il Maroncelli; ed egli, mentre aspettava l'amputazione della gamba, inviava canticchiando alle aure d'Italia una sua improvvisata canzonetta. Que' moti stessi fecero passare in Inghilterra, tra altri molti, Gabriele Rossetti e Giovanni Berchet.
Scoppiata la rivoluzione, il Rossetti, tra il popolo che glielo chiedeva, aveva improvvisato a Napoli un canto che era divenuto subito popolare. – Oh finalmente siam liberi! – e il facile improvvisatore e librettista eccolo tessere rime in ghirlanda attorno al ritornello tolto dalla canzone del Metastasio a Nice:
Non sogno questa volta,
Non sogno libertà!
Poi un altro canto, del pari improvvisato, per l'alba del 9 luglio 1820, quando il re giurò la costituzione per farsi, come poi si vide, spergiuro:
Sei pur bella cogli astri sul crine!
Ma di lì a pochi mesi, minacciato di morte come carbonaro, si salvò travestito da officiale inglese e andò a Malta. Dal vascello inglese che lo recava nell'esilio malediva «il re fellone». Poi, a Londra, rabbrividendo sotto la nebbia eterna, rimpiangeva il sole del suo Mezzogiorno; ma quando gli veniva in mente a qual caro prezzo di libertà e umana dignità i suoi concittadini se ne godessero i raggi, preferiva durare a soffrire:
O Britannia venturosa,
Trista nebbia, è ver, t'ingombra,
Ma quest'ombra orror non ha.
Sii di luce ancor più priva
Pur ch'io viva in libertà!
Là a Londra andava, dopo la carcere austriaca, Giovita Scalvini bresciano, che a quel clima non resse, e ne riparò in Francia. Meditava sull'amara lezione, si accorgeva che le congiure non basterebbero a suscitare la nazione tutta, e al poemetto L'Esule affidava così i suoi dolori come gli ammonimenti: – No, l'Italia non leverà l'infermo fianco da terra senza il poderoso braccio della sua plebe. —
E là a Londra, del pari, il modenese Pietro Giannone, che carcerato due volte non aspettò la terza; improvvisatore come il Rossetti, esule come lui. Da Londra, nel '27, è datato il suo Esule, romanzo storico in versi, sui carbonari emiliani, in cui confessava d'aver troppo sovente sacrificato al cittadino il poeta; santo sacrificio, quando l'arte voleva e doveva riuscire arma di guerra. Dopo aver tanti anni tribolato senza casa e senza tetto, senza refrigerio, ostinato nel peccato dell'amore di patria, come bene cantò di lui il Giusti, morì, voi lo sapete (e forse tra voi mi ascolta chi gli fu gentile consolatrice) qui a Firenze, tra noi, nel '72.
E là anche a Londra, Giovanni Berchet. Nato a Milano il 23 dicembre 1783, aveva cominciato la sua vita di poeta, a venti anni, traducendo nel 1807 dall'inglese del Gray le maledizioni e le tremende profezie scagliate dal bardo gallese, superstite a tutti i trucidati compagni, su Odoardo I invasore e carnefice, innanzi di precipitarsi dalla rupe ne' flutti, subito dopo compiuto quel suo canto postremo. Si direbbe un simbolo profetico della Musa dello stesso Berchet. E intanto satireggiava con eleganza su' funerali e sull'amore, secondo la tradizione pariniana, rinnovata allora dallo Zanoia e dal Manzoni medesimo ne' sermoni: ma più gli era giovamento, e nella vita, per gli offici, e nell'arte, per l'avanzamento del gusto, tradurre ancora dagli stranieri, il Visionario dello Schiller, il Vicario di Wakefield del Goldsmith, rimpiangendo nella prefazione di questo libro, che tanto bene potrebbero fare i romanzi, e nol facessero, e che il buffone alle spese della virtù avesse più fortuna che il moralista. Così nel 1809 invocava (e qui l'augurio profetico va sul Manzoni) che l'Italia imitasse pe' romanzi buoni l'Inghilterra. Ora, nel Vicario è una ballata che il Berchet tradusse in polimetro; d'un pellegrino che chiede ricovero a un eremita; e questi, impietosito dal dolore di lui, lo ricetta, lo ascolta, finisce con l'accorgersi che è una fanciulla; ed ella gli narra allora come già derise Edevino che l'amava; onde Edevino disperato andò a morir nel deserto, ed ella ne cerca la tomba a morirvi sopra: naturalmente si riconoscono, e fan pace. Chi pensasse ad alcun che di mezzo tra il Bardo del Gray e l'Edevino del Goldsmith, un poemetto cioè in cui lo spirito del canto politico fosse infuso nella forma d'una ballata affettiva, avrebbe ciò che riuscirono le romanze patriottiche del Berchet.
Nel novembre del '21 si trovava questi una sera in casa di amici, quando eccovi un commissario di polizia, che trae da parte una signora nota per le opinioni liberali, e l'avverte secretamente, qualsiasi ne fosse la ragione, che il conte Confalonieri sta per essere arrestato. Il Berchet ode l'avviso; sa di che ha da temere anche per sè; corre a casa; fugge, mentre la sorella gli arde tutte le carte; e quando la polizia arriva a perquisire e sequestrare, egli è di là dal confine, in salvo. Quali colpe temeva lo facessero impiccare o dannare al carcere duro? Era stato col Pellico l'anima del Conciliatore, il giornale romantico; aveva aiutato con mille lire dell'Arrivabene a comprare un cavallo per un aiutante di campo di Carlo Alberto!; era de' liberali sospetti già innanzi i moti del '21, sì che il governo gli aveva negato un officio di traduttore. E che d'essere sospetto si meritasse, mostrò indi a poco ne' fatti.
A Londra, impiegato in una casa commerciale di milanesi, sentì subito profondamente ciò che gli esuli italiani fossero allora; e potrebbero essere sue le parole che indi a poco scriveva di là Santorre Santarosa al Panizzi: «L'emigrazione italiana prende, a' miei occhi, un carattere di permanenza; comunque sia, è certo che ha un carattere storico: e siamo tutti debitori all'infelice nazione di cui siamo la parte sagrificata, di ogni nostra opera, di ogni nostro pensiero nell'esilio non meno che se noi fossimo nel fôro di Roma o nei comizi di Modena o di Torino. Possiamo onorare il nome italiano nella Gran Brettagna coll'intierezza della vita, coll'utilità dei lavori, colla dignità dei discorsi e dei costumi, e col sopportare, anzi vincere, la povertà colla costanza e col lavoro.» Ed egli, il poeta, mentre teneva la corrispondenza mercantile, dando più lavoro di quanto il principale benefico volesse, e sfuggendo alla tentazione di farsi troppo amico del Foscolo, che non godeva piena stima per poca dignità di vita, scriveva a conforto suo e a vantaggio della causa italiana I profughi di Parga, cominciati a Milano, e scriveva e pubblicava a più riprese le romanze sotto l'emblema di una lampada in cui una mano versa nuovo olio, col motto alere flammam, e l'altro motto in epigrafe «Adieu, my native land, adieu» (doloroso compendio di dolori e speranze); Clarina, Il romito del Cenisio, Il rimorso, Matilde, Il trovatore, Giulia. Quindi, nel '29, Le Fantasie.
V
Ciò che, sotto le apparenze di Grisostomo, il Berchet aveva detto nella Lettera semiseria sul Cacciatore feroce e sulla Eleonora del Bürger, che fu nel 1816 l'esplicito programma della scuola romantica in Italia, la poesia dover essere popolare di caratteri e propositi, e tale di modi da riuscire accetta ed efficace ai più, fuor dalla strettezza delle regole viete e della vieta mitologia, in argomento da suscitare gli affetti vivi a scopo di bene; egli stesso cercò di ottenere con que' poemetti e nelle romanze.
Parga, sulla costa dell'Albania di contro a Corfù, per salvarsi dai Turchi si era data agli Inglesi protettori: e questi nel '19 la rivenderono ai Turchi. Il fatto pietoso mosse tutta l'Europa cristiana: il Goethe lo consigliava al Manzoni come argomento adatto a suscitare di per sè quella commozione che sembrava anche a lui potersi desiderare più intensa ne' drammi mirabili del poeta italiano; il Leopardi voleva introdurlo come episodio in una sua canzone alla Grecia; anche il Byron vi pensava su per qualche lirica; e una gentildonna italiana, saputo di tale intendimento dell'inglese, si affrettava a novellarne in prosa.
Avevano que' di Parga dissotterrate le ossa de' morti loro, che non fossero profanate da' Mussulmani; e sopra un rogo di fronde d'olivo le avevano arse; poi, compiuta la sacra cerimonia, s'erano imbarcati per Corfù. Il Berchet esule fa narrar la scena pietosa alla moglie d'un eroe di Parga, che dal rogo ha sottratte le ossa di due fratelli suoi, uccisi dal Turco, e seco le ha recate, e vi spasima su, rammentando la patria perduta: sì che tenta d'uccidersi. Ed è quello il punto più alto esteticamente del poemetto:
Quando il rogo funereo fu spento
Noi partimmo: – e chi dir ti potria
La miseria del nostro lamento?
Là piangeva una madre, e s'udia
Maledire il fecondo suo letto,
Mentre i figli di baci copria.
Qui toglievasi un'altra dal petto
Il lattante, e fermando il cammino,
Con istrano delirio d'affetto
Si calava al ruscello vicino,
Vi bagnava per l'ultima volta
Nelle patrie fontane il bambino.
E chi un ramo, un cespuglio, chi svolta
Dalle patrie campagne traea
Una zolla nel pugno raccolta.
Noi salpammo: – e la queta marea
Si coverse di lunghi ululati,
Sicchè il dì del naufragio parea.
Ma non è quivi l'intendimento vero del poeta: la scena non è per lui che un mezzo onde cattivare agli esuli tutta la commiserazione de' lettori: a lui importa, quando la commiserazione sia piena, mostrarci a che debba condurre l'amor della patria. L'uomo di Parga è stato salvato, fuor dalle onde in cui si gettò, da un officiale inglese; e da questo ha l'offerta di soccorsi; ed ha l'affermazione del biasimo che ogni onesto inglese diè al governo della turpe vendita di Parga. Ebbene, quell'esule miserrimo respinge l'aiuto. Oh, è ormai guarito l'esule, nè cercherà più sottrarsi al doloroso dovere della vita; piegherà a' lavori più umili de' campi la mano avvezza alla spada; ma non sarà che avvilisca sè e la patria accettando l'oro di chi è d'una patria che ha tradita e venduta la sua!
Forse il dì non è lunge in cui tutti
Chiameremci fratelli, allorquando
Sopra i lutti espiati dai lutti
Il perdono e l'oblio scorrerà.
Ora gli odii son verdi: – e nefando
Un spergiuro gli intima al cor mio;
Però, s'anco a te il viver degg'io,
Sappi ch'io non ti rendo amistà.
C'è soltanto lo sdegno contro la politica de' reazionarii, contro il Castelreagh, per Parga tradita? c'è soltanto la miseria dell'esule che ne' primi tempi là a Londra si trovava in una brutta casa, tra quattro donne brutte da far paura al demonio, come scrisse a un amico, senza conoscenze, senza amicizie, da maledirne l'isola che gli fu poi tanto cara perchè l'uomo v'era più simpatico che altrove e l'unica sede era quella in Europa della cordiale dignitosa ospitalità? Sarebbe, io credo, diminuire l'animo di lui e il peso del suo poemetto, che in un momento d'ira chiamava inezia e avrebbe volentieri venduto a chiunque per quattrocento franchi. Come ne' Promessi Sposi la giusta sentenza su gli Spagnuoli fu giusto avvertimento verso gli Austriaci, così ne' Profughi di Parga il disdegnoso rifiuto del ramingo suona un consiglio di non venir mai a patti col nemico. Può darsi che il Berchet pensasse anche alle promesse fatte e non mantenute da Lord Bentinck quando i collegati ci volevano indurre a sollevarci contro Napoleone; ma, certo, il pensiero suo non va contro l'Inghilterra, va acuto contro l'Austria.
L'Austria feriscono dritte le altre romanze. Uno straniero volenteroso d'ammirare l'Italia è fermato sul Cenisio da un eremita che gli grida: – Maledetto chi s'accosta senza piangere alla terra del dolore! – , e gli descrive la penisola, non lieta ma pensosa, non in plauso ma in silenzio, non in pace ma in terrore, e gli parla del suo Silvio (e voi supplite, Pellico) che langue ne' ceppi del carcere duro; onde
A' bei soli, a' bei vigneti,
Contristati dalle lagrime
Che i tiranni fan versar,
Ei preferse i tetri abeti,
Le sue nebbie, ed i perpetui
Aquiloni del suo mar
come vedemmo che faceva il buon Rossetti, che pure era oppresso dalla nostalgia. Una italiana (e intenderemo Maria Elisabetta, sorella di Carlo Alberto), che ha sposato (nel 1820) un ufficiale austriaco (l'Arciduca Ranieri d'Austria), e ne ha avuto un figlio, piange sopra sè stessa e su lui, vilipesi. Matilde sogna che il padre le voglia dare per forza a marito un altro ufficiale austriaco, e ansa e si sveglia piangendo dal dolore:
… L'altare,
L'anello è sparito
Ma innanzi le appare
Quel ceffo tuttor;
Ha bianco il vestito,
Ha il mirto al cimiero,
I fianchi gli fasciano
Il giallo ed il nero,
Colori esecrabili
A un Italo cor.
Il trovatore è cacciato via dal castello dove troppo, ma d'amor puro, amò la dama, e sulle soglie si sente scoppiare il cuore: trasparente allegoria dell'esilio. Giulia si vede partire coscritto dell'Austria il secondo suo figlio; e il primo fuggì esule: chi sa che i due fratelli non si abbian poi a trovare l'un contro l'altro! Le Fantasie poi, rappresentando in quadri simmetrici i sogni d'un esule che gli raffrontano i gloriosi fatti del giuramento di Pontida, della battaglia di Legnano, della pace di Costanza, con le veglie giulive, lo scoramento, l'obbrobrio degli Italiani odierni, mirarono a farli vergognare e a suscitarli; e anche in drammi storici ne risonarono con lunga eco i versi possenti.
Federigo? egli è un uom come voi.
Come il vostro è di ferro il suo brando.
Questi scesi con esso predando,
Come voi veston carne mortal. —
Ma son mille! più mila! – Che monta?
Forse madri qui tante non sono?
Forse il braccio onde ai figli fer dono,
Quanto il braccio di questi non val?
Su! nell'irto, increscioso Alemanno,
Su! Lombardi, puntate la spada:
Fate vostra la vostra contrada,
Questa bella che il ciel vi sortì…
Presto all'armi! Chi ha un ferro l'affili,
Chi un sopruso patì, sel ricordi,
Via da noi questo branco d'ingordi!
Giù l'orgoglio del fulvo lor sir!
Una sola di queste poesie, Clarina, può sembrare che abbia altrove la mira: e l'ha. Vuol colpire infatti Carlo Alberto, reputato fedifrago dai liberali del '21. Ma la freccia volava contro lui perchè egli era mancato al cimento nel dì, che pareva fatale, della liberazione.
Perfino ne' giuochi il Berchet aguzzava la punta de' versi contro gli Austriaci: si racconta che una volta, presenti parecchi Tedeschi, improvvisò questa sciarada:
Pongo il primo sul secondo,
Pongo il tutto sotto i piè. [Te-desco].
Nel '18 il Manzoni, mentre ardeva la polemica suscitata dal Berchet con la Lettera semiseria di Grisostomo, aveva immaginato in una scherzosa canzone che Apollo per punire l'audace romantico lo scomunicasse per sempre dal sinedrio de' ricantatori delle formule solite: non più il plettro aurato, non più l'eburnea lira, non più il corridore alato; tutto avrebbe d'allora in poi dovuto ricavare dal suo proprio sentimento. Un gelo, diceva il Manzoni,
Un gel me prese alla feral sentenza;
E sbigottito e pallido
Esclamai: Santi Numi, egli è spacciato!
E come vuoi che senza queste cose
Ei se la cavi? Come può, rispose.
Da ciò che abbiam visto pare che, sommato tutto, non se la cavasse troppo male.
VI
Nella dedicatoria delle Fantasie il Berchet, come anche accadde al Giannone, si è confessato da sè medesimo in colpa di lesa estetica. Mi son trovato, egli dice, nel conflitto di due sorti di doveri, quelli verso l'arte, quelli verso la patria; e ho creduto fosse onesta cosa la sottomissione dell'amor proprio all'amor della patria. Scuse magre! risponde il critico: se avesse saputo far meglio, certo ch'e' l'avrebbe fatto! Ed è vero. Nè si ha il capolavoro se non quando il poeta e l'uomo si stringano in una sola virtù etica ed estetica insieme. Ma che il Berchet, d'altra parte, fosse nelle sue scuse sincero dimostra almeno una osservazione che quivi aggiunge ad esempio. Ed è che, nel descrivere la battaglia di Legnano, ha fatto parlare a lungo un moribondo, fuor della verisimiglianza. «Lo scoprirmi in fallo per questa parlata sarebbe la cosa del mondo più facile a farsi, se un'altra non ve ne fosse più facile ancora, quella per me di pigliare le cesoie, e tagliar via il corpo del delitto, o d'accorciarlo almeno. E sia lode al vero, due volte ho portate le mani per eseguirlo il taglio, e due volte – lo dirò con una frase tutta di filigrana, rubata al Creso di tali frasi, – due volte caddero le paterne mani. E perchè? Perchè quelle poche ammonizioni contenute nella parlata erano le cose appunto che a me più importava di dire; perchè quelle ammonizioni possono essere come un tocco di campana che svegli altre riflessioni nell'animo de' miei concittadini.» L'Arlecchino dalle cento disgrazie, come sorridendo ei si chiamava, l'uomo che si consolava pensando d'essere stimato almeno un galantuomo, fu dunque galantuomo anche in ciò.
Comunque sia, i difetti dell'arte del Berchet, diseguale spesso nello stile, poco chiaro e poco sottile psicologo ne' Profughi, troppo simmetrico nei sogni delle Fantasie, e via dicendo, son di quelli che appaiono a chiunque legga. E minore artista è nelle sue, del resto utili e opportune, versioni delle Vecchie romanze spagnuole, pubblicate a Bruxelles nel 1837; minore sarebbe riuscito in quel curioso poemetto, rimasto incompiuto, Il Castello di Monforte, donde traspira vivace l'idea anticlericale.
Ma provatevi a leggere ad alta voce, con animo ben disposto, que' versi patriottici, e come vi crescerà via via nella lettura il respiro, come forse vi si veleranno qua e là gli occhi per una lacrima! Tanta è la corrispondenza, e così diretta, tra il sentimento italiano e gli accenti che ne furono inspirati all'esule lombardo. Al quale fu premio il poter dare nell'inno ai moti emiliani e romagnoli del '30 quel saluto alla nostra bandiera che le è rimasto quasi direi consacrato:
Dall'Alpi allo stretto fratelli siam tutti!
Su i limiti schiusi, su i troni distrutti
Piantiamo i comuni tre nostri color!
Il verde, la speme tant'anni pasciuta;
Il rosso, la gioia d'averla compiuta;
Il bianco, la fede fraterna d'amor.
Premio maggiore, dopo il lungo pellegrinare in Inghilterra, nel Belgio, in Germania, in Francia, veder sventolare quella sua bandiera dai tre colori, per la guerra del 1848-49, nell'Italia sua; vederla sventolare per opera e merito del Piemonte divenuto asilo degli esuli italiani (ed egli vi fu deputato), e delle speranze di tutta l'Italia che ormai ciascun sentiva non poter tardare ad avverarsi, poi che là a Torino la Rivoluzione raccoglieva tante delle sue forze attorno alla Casa di Savoia.
Chi aveva bollato a fuoco nella Clarina Carlo Alberto, subito che lo vide risoluto ormai a capitanare le forze della rivoluzione e a rischiare tutto pur di redimere l'Italia, non titubò. «L'unità assoluta dell'Italia verrà col tempo… Intanto qui, nella vallata del Po, da Alpi ad Alpi, noi vogliamo uno Stato (e di' pure un Regno) costituzionale, forte, compatto, di un dodici milioni almeno di abitanti, il quale ci salvi adesso e in futuro da qualunque irruzione straniera, sia ch'ella venga da Germania, sia ch'ella venga da Francia… Fatto una volta questo muro, da Torino a Venezia, nasca quello che vuol nascere in Europa, l'Italia potrà tenersi tranquilla; e se col tempo questa gran base dell'unità dovrà ingrandirsi ancor più, ci penseranno i figli nostri; chè a noi basta di assicurarci il presente e il prossimo avvenire, e di assicurarlo in modo che non impedisca menomamente i più brillanti destini che possano toccare all'Italia nel futuro… Dunque è Carlo Alberto che noi vogliamo a Re dell'Italia superiore: e che sia io che predico su questo, tu che sai quello che io mi sia, puoi ben credere che la necessità imperiosa e l'amor disinteressato della mia patria me lo consigliano, e non altro.» Così scriveva nell'aprile del 1848.
Tutte le lettere di lui sono insigne documento del suo acume politico, della drittura dell'animo suo: v'è indicata la opportunità, anzi necessità, per l'Italia nuova di comporsi a monarchia se vuol vivere entro l'Europa monarchica; v'è predicata l'alleanza con gl'Inglesi, utile a noi e a loro; v'è perfino predetta, nel giugno 1848, la cessione della Savoia alla Francia: «Pensa un poco se a far tacere quella maledetta Francia non vi sarebbe un mezzo, quello di cedere a lei la Savoia.» Cercavano metterlo su contro Carlo Alberto? rispondeva: «Non tocca a me di fare il panegirico al Re; ma come galantuomo che adora sopra tutto il vero, ti dico che, lasciato stare il passato, del quale siamo rei tutti, e veduto con occhio scrutatore il solo presente, dal cominciare dell'opposizione sua all'Austria fino adesso, Carlo Alberto si conduce davvero in modo schietto, onesto, lodevolissimo. Avresti mai creduto che io dovessi dire di queste parole? Ma a ciascun secondo l'opere sue.» Cercavano, invece, fargli cantare la palinodia della Clarina? rispondeva essere stato il poeta del dolore, non poteva essere quel dell'amore, ma fare per Carlo Alberto ormai assai più e meglio che lodi in versi; aiutarlo in ogni modo a divenire re d'Italia.
Per ciò parve a molti, anche a Giorgio Pallavicino, o codino o rimbambito!
A Firenze era stato nel 1811, e l'aveva trovata quale la celebra la fama; e tutto qui gli piaceva «se ne levi gli abitanti parolai oltremodo, e in generale poco amici dei forestieri, perchè economi, e pieni di tema che le cortesie debbano costar loro due crazie.» Nell'autunno '47 tornò in Toscana ad aiutare i moti liberali, ma nel tempo stesso a frenarli: egli, il poeta de' tre colori, temeva ora non compromettessero, inalberati a dispetto del Granduca, l'avvenire. I tre colori, diceva, sono un anacronismo, e non rappresentano che un'ipotesi: «Lasciamo all'ipotesi la cura di tradurre sè in atto; e allora troverà essa il suo simbolo che le convenga.» Che se l'ipotesi avverata scelse per simbolo proprio il tricolore, non per ciò, chi giudichi spassionato riferendosi a quella data, aveva tutti i torti il Berchet. Ma i fati trassero presto anche lui ad acclamare la bandiera dell'Italia nuova, dell'Italia unita, e qui a Firenze, il 27 marzo dell'anno dopo, sulla piazza di Palazzo Vecchio, dovè arringare i Toscani che festeggiavano le Cinque giornate della sua Milano, e si rallegrò che al mirabile risorgimento ciascuno de' popoli d'Italia avesse apportata la parte sua: Roma l'amnistia e l'onnipossente parola d'amore, Toscana le riforme, Sicilia e Napoli la costituzione, Piemonte il forte esercito tutelare, Milano l'indipendenza senza della quale nè riforme nè costituzioni possono aver vita intera. «Artefici tutti del pari di questo superbo edificio, spetta a voi, o Toscani, il compierlo e il consolidarlo per sempre. Contenti delle nostre libertà che sono pienissime, se saprete virilmente giovarvene.» Dunque, tutti, popoli e principi, stringetevi (proseguiva) in concordia di istituzioni, di voleri, di sentimenti, e correte in armi ad aiutare Carlo Alberto.
Carlo Alberto aveva ormai spiegata al vento la bandiera del verde, del rosso, del bianco, speranza, gioia, fede fraterna d'amore, come il Berchet l'aveva cantata. E nobilmente perdonato dell'offesa, nobilmente da lui stesso rinnegata, il poeta del '21, dopo aver avuta parte nel governo provvisorio della Lombardia, fu deputato due volte al Parlamento subalpino. Raccomandò sempre la concordia intorno allo Statuto, e che non si diminuisse l'esercito: «I rossi per deliberato proposito, i neri per gretta avarizia lo vorrebbero disfatto… Del resto poi, purchè lo Statuto duri, bene o male non importa, v'è speranza per tutta l'Italia ancora. Duri lo Statuto, si consolidi, e il tempo, o migliore occasione, farà il resto.» Altrove: «Non parlo dell'Italia: chi non ne vede la intera rovina nella ruina dello Statuto piemontese?»
Morì a Torino, divenuta patria sua, di lui lombardo che nel Piemonte già vedeva tutta l'Italia, libera e indipendente, dell'avvenire, il 23 dicembre 1851.