Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte II», sayfa 2
Dove si fece il maggior fuoco fu però a Porta Tosa, dove gli Austriaci con cannoni e battaglioni ben armati, difendevano una delle più forti posizioni, fulminando la città. Il Corso che conduceva alla porta era troppo largo, perchè vi si potessero piantare barricate forti e solide, che potessero difendere gli assalitori e resistere alle artiglierie.
I Milanesi pensarono di fare delle barricate mobili e le ho viste anch'io e le ammirai come un'altra improvvisazione della strategia rivoluzionaria.
Eran fatte di grosse fascine legate in forma cilindrica, lunghe due o tre metri e grosse un metro che si facevano rotolare a forza di spalle, e i nostri tiratori dietro ad esse ben difesi poterono sloggiare gli Austriaci e prender la Porta, che a buon diritto fu battezzata da quel giorno col nome di Porta Vittoria.
Mi par di vederle ancora quelle barricate mobili, che frantumate dalle palle nemiche lasciavano escire da cento ferite le loro viscere lacerate. Ma accanto a quel ricordo, che potrei tradurre in un quadro, se fossi pittore, ce n'è ancora un altro, quello delle acque, che corrono in quei dintorni e che vidi rosse, come se fossero state tinte col carminio. E mi parve a quel tragico colore, che in quell'onda quasi ferma vi dovesse esser più sangue che acqua.
Di quel sangue però nessuna goccia era mia… e leggendo oggi il mio vecchio giornale di ora è mezzo secolo, vi leggo con stile infantile queste parole:
Io invidio i miei fratelli, che hanno combattuto per la patria e hanno posto il nome dei Milanesi fra gli eroi i più generosi e robusti…
Se non sono stato fra i combattenti, fui però di sentinella alle barricate, e anche di notte e con nessun altr'arme che una gran scimitarra turca, che avevo chiesto a mio padre. Come ero fiero di passeggiare in su e in giù davanti alle barricate, colla mia scimitarra appoggiata alla spalle e gridando il Chi va là? ai passeggeri, ai quali chiedevo la parola d'ordine. Mi pareva d'essere la sentinella perduta di un vero accampamento di guerra…
Con quella scimitarra e naturalmente colla mia coccarda tricolore, andavo a far le provviste di cucina colla serva, quasi a difenderla, e in quei giorni non era davvero facile il percorrere anche un piccolo tratto di cammino, essendo quasi ogni via interrotta dalle barricate, che furono calcolate a circa 2000.
La nostra serva si credeva difesa da quel giovane guerriero e da quella scimitarra turca! Povera difesa! – Io ero così gracile, così sottile in quell'epoca, che un croato, incontrandomi, mi avrebbe con un pugno gettato a terra e disarmato.
Da sentinella di barricate passai dopo le cinque giornate a guardia nazionale, e ricordo le notti passate sul tavolaccio nel Palazzo Trivulzio e nel Palazzo Marino. Allora, però, invece della gran sciabola avevo un fucile.
Un mattino alle 5 dovetti con altri militi della guardia civica condurre al Castello cinque soldati austriaci nostri prigionieri, e lì ebbi la gioia di vedere la prima cavalleria piemontese che partiva per il campo.
Ricordo ancora che un altro giorno tutti i Civici di Sant'Alessandro furono riuniti sulla piazza dello stesso nome, e di là ci avviammo al Broletto, al suono allegro del tamburo e seguendo la grande bandiera tricolore, che si amava come una fanciulla, come una mamma; come la poesia incarnata della patria.
Giunti al gran cortile del Broletto ci schierammo per eleggere i nostri capi e per acclamazione si nominò nostro capitano il marchese Trivulzi, che era però a letto con una palla in una coscia. Con lui furono eletti i tenenti e poi si ritornò al palazzo Trivulzi, dove sotto le sue finestre si gridarono evviva fragorosi al nostro Duce. La signora marchesa, commossa, scese a salutarci, e ci promise che ella stessa ci avrebbe ricamata una bandiera.
Se mi lasciassi andare alla voluttà dei lontani ricordi, non la finirei più. Lasciatemi solo richiamarne uno di poca importanza, ma che vi mostrerà in qual'aria di idealismo generoso si respirasse a Milano in quei giorni.
Mentre si trattava l'armistizio proposto dal Radetzki, io escii col mio solito sciabolone e mi avviai verso il teatro della Scala. Tacevano le campane, che erano il tormento indicibile dell'esercito austriaco, tacevano le fucilate, tacevano i cannoni.
Giunto nella via di Santa Margherita, dove era l'Ufficio della Polizia e che era tutta barricata, vidi che le finestre erano occupate da cittadini, che gettavan giù a cento a cento cartoni pieni di carte, fascicoli, libri, tutta la triste biblioteca di quella casa, che era in una volta sola covo di spie, fucina di tirannide e carcere di tante vittime.
Quel pandemonio era stato abbandonato dai tiranni, ed ora era in mano delle vittime, che prendevano la loro vendetta sulle carte.
Io raccolsi parecchi fogli timbrati dall'aquila grifagna, e mentre li stava per leggere, un colpo di mitraglia venne a colpire una barricata assai vicina a quella in cui mi trovavo, facendo un rumore strano, come di cento latte che fossero lacerate in una volta sola. Tutti i presenti si addossarono al muro, ed io visto che il colpo non si ripeteva più, corsi in mezzo alla via e raccolsi due o tre pallottole di ferro, ancora fumanti. Facevan parte di quella rozza mitraglia d'allora ed eran piene di chiodi e perfino di pezzi infranti di ferri di cavallo.
A quel tiro, però, tennero dietro dopo un piccolo silenzio altri tiri, ed essi ci dicevano ad alta voce che l'armistizio era stato respinto e che la lotta ripigliava il suo andare.
Portai a casa i miei fogli e li diedi a vedere alla mamma, colla quale stava per leggerli con viva curiosità. Ma la mamma mi disse, impallidendo e inorridita: Sono rapporti segreti di spie italiane… ahimè! e sono firmati. Non voglio leggere quei nomi… bruciamo questi fogli, subito subito.
E quei fogli furon bruciati con mio grande dolore, non per la curiosità delusa delle firme infami; ma perchè in me nasceva già il futuro psicologo, che doveva finire sulla cattedra d'antropologia di Firenze. Quei fogli eran per me documenti umani, che oggi figurerebbero nel mio Museo psicologico.
Li ho rammentati, perchè il sentimento generoso che aveva ispirato mia madre a distruggerli, era in quei giorni l'ambiente in cui si viveva, era l'aria che si respirava noi tutti.
Se entrava un cittadino armato in un caffè, chiedendo un rinfresco, quando stava per pagarlo, gli si rispondeva con un gesto di grande meraviglia: Ma ghe par? oppure O giust!
I feriti eran raccolti subito e alloggiati dove cadevano. In tutte le case signore e signorine vegliavano le notti, fabbricando filaccia o cucendo bandiere tricolori e ho veduto strappare pezzuole di tela battista d'immenso valore, quando per far filaccie si era dato fondo a tutti i cenci vecchi della casa.
Uno dei nostri tiranni poliziotti più odiato era il Bolza. Sapendosi aborrito, nelle cinque giornate si era nascosto in un fienile, ma fu scoperto e preso. A furia di popolo, più trascinato che condotto, fu portato non so a qual Comitato davanti a Carlo Cattaneo, chiedendogli che genere di supplizio doveva essere inflitto a quel boia. Il Bolza era già più morto che vivo, più pallido di un cadavere e coperto di fieno, che lo rendeva grottescamente orrendo.
Il Cattaneo sereno e tranquillo rispose:
Se lo uccideste, fareste cosa giusta, ma se lo lasciate in libertà, farete cosa santa e degna di un popolo vittorioso, e che aspira alla libertà.
E il Bolza fu lasciato libero.
Quarantottate, diranno alcuni, ma a questa bestemmia ritornerò fra poco.
I popoli vivono tutti in un dato clima fisico, che è l'aria per i polmoni e che respiran tutti, ricchi e poveri, contadini nel campo, operai nelle vie, principi nei palazzi. È un clima che li avvicina e li affratella.
Ma vi è un clima più efficace, più tirannico, e che è, per il cervello e per il cuore, ciò che è l'aria per il polmone. È l'ambiente morale, che diffonde la sua influenza sottile, penetrante, irresistibile in ogni vena della vita pubblica; che fa battere ogni polso di uomo che pensa e sente. Nessuno può sfuggirvi, nessuno resistervi.
Quell'ambiente ora è salubre ed ora è mefitico, ora è inebriante ed ora è deprimente ed è fatto dai sentimenti umani che fanno palpitare il cuore di una nazione. Se l'orgoglio nazionale è alto, e legittimamente alto, quell'ambiente vuol dire gioia, entusiasmo, carità, idealismo. Se l'orgoglio è depresso, quell'ambiente vuol dire tristezza, sentimento, scetticismo, fors'anche cinismo.
Se quell'ambiente è fatto di gloria e di ricchezza vuol dire salute morale, energia, generosità, eroismo. Se invece è fatto di paure e di pentimenti, vuol dire affarismo, viltà collettive, vuol dire marasmo delle anime.
In quei cinque giorni Milano respirava bene, respirava a pieni polmoni l'aria della vittoria e della libertà ed era perciò nobile, generosa, idealista.
* * *
E dacchè vi ho intrattenuto sempre del 48, permettetemi che nel chiudere la mia conferenza getti un grido di sdegno contro la brutta parola di quarantottate, che pur si ripete più di una volta, e soprattutto dai giovani serii, che non hanno potuto battersi e dai vecchi serissimi, che non si son battuti mai.
Per questi signori, quarantottata vuol dire una dimostrazione un po' chiassosa, un entusiasmo collettivo espresso forse con uno scampanio troppo rumoroso; è insomma ogni espressione patriottica, che si presenti sotto forma troppo arcadica o troppo ingenua.
Si cancelli dalla lingua parlata, dal frasario politico questa parola, che è una barbarie.
Bestemmia contro tutto ciò che nell'uomo si ha di divino; cioè l'idealità, l'eroismo, l'amor di patria.
Il 48 fu un sogno, un'illusione, un disinganno. Si credette che il cuore bastasse senza il cervello. Lo credettero i milanesi, lo credette anche Carlo Alberto, quando affrontò l'armata austriaca col piccolo esercito del piccolo Piemonte.
Ma sogni, ma illusioni, ma disinganni che ci portarono al 59, al 66, al 70; e il quarantotto con le sue quarantottate fu un delirio di amor di patria, fu un trasporto che lasciò il cielo pieno di luce, e che fecondò la terra nostra col sangue dei primi martiri.
Anche i vecchi deridono le follie della giovinezza, ma più spesso che per saviezza, per invidia di non esserne più capaci.
E quando ascolto i giovani, che nel 48 non erano ancor nati, deridere le quarantottate, esclamo:
«Ecco dei giovani vecchi, che deridono dei vecchi giovani!»
Le barricate, spero, non si innalzeranno più in Italia e forse anche non avremo più bisogno di rivoluzioni; ma ai giovani che bestemmiano, pronunziando in tuono di scherno, la parola di quarantottate, io che li amo, auguro loro che nella lor vita provino anch'essi la suprema voluttà degli entusiasmi patriottici, delle idealità sovrumane, ci vengano poi dal cielo o dalla terra.
Il divino nell'umano è l'entusiasmo, e chi muore senza averlo goduto, non ha vissuto mai!
VENEZIA NEL 1848-49
CONFERENZA
DI
POMPEO MOLMENTI
Signore e Signori,
Nell'ampia sala magnifica del Palazzo dei Dogi – forse la più bella del mondo – convenivano taciti, avviliti, confusi i veneti patrizî. Era il 12 maggio 1797. Gravi pericoli minacciavano l'esistenza della vecchia Repubblica. Alle offese del Bonaparte l'imbelle doge Lodovico Manin rispondeva con vile rassegnazione, e i patrizi degeneri, convocati a consiglio, con non minore codardia decretarono la fine della repubblica e l'abolizione dell'ordine aristocratico. Poi uscirono tutti a precipizio. Erano cinquecento e trentasette; paurosi i più, alcuni illusi della nuova libertà, parecchi traditori, pochi fieri, risoluti, sdegnosi. Venti soli votarono contro il sacrifizio della patria, cinque si astennero. Così finiva la città dei Dandolo, dei Pisani, dei Veniero, dei Morosini! Un solo giorno faceva dimenticare tutta la sua forza, tutta la sua maestà, tutta la sua grandezza!
Il 17 ottobre 1797, il Bonaparte, con l'infame mercato di Campoformio, vendeva Venezia agli austriaci. E allorchè il giorno moriva e i rintocchi delle campane si spandevano sull'ampia laguna, e le acque erano solcate da splendori fosforescenti, sotto il Palazzo pieno di misteri, dinanzi alle pietre fatte brune dai secoli, fra il popolo muto ed oppresso, un uomo con l'anima in delirio e i nervi agitati, esciva in una imprecazione che, in quell'avvilimento, risuonò alta e fiera protesta, e fu seme di riscossa nelle età future. «L'Italia è terra prostituita» esclamava Ugo Foscolo «premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi agli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti e non piangere d'ira?»
Così, con questo alto lamento angoscioso, finisce l'un secolo e comincia l'altro. Nei misteriosi palazzi s'aprono le porte, si spalancano le finestre, vi entra una improvvisa folata di vento, un turbine impetuoso.
Fuggono spaventate le belle donnine tutte frange, fronzoli e cernecchi, i cavalierini dall'anima di stoppa e dallo spadino inoffensivo; e un silenzio come di morte piomba nelle stanze fiorite di stucchi e d'oro, discrete confidenti di colloqui amorosi, dove sorridevano tutte le eleganze e tutte le letizie della festosa arte del veneto tramonto.
Ed oggi, quando i ricordi del passato si ridestano in quelle vecchie dimore, in cui i dipinti e le stoffe si stingono in un color d'ombra diffuso, e tutto ha un dolcissimo profumo di vecchio, e ad ogni oggetto si accompagna una leggenda amorosa; oggi, quando nella penombra di quelle stanze sembra di veder salire e vanire entro cirri di nubi profili femminili, figure eleganti di cavalieri, fantasmi voluttuosi, ci si domanda in qual modo quei Florindi e quelle Rosaure, tutti ben mio, vita mia, vissare mia, poterono, dopo appena cinquant'anni, trasformarsi negli ardimentosi difensori di Venezia.
Come mai il doge Manin, che mentre crollava la longeva repubblica lamentavasi di non poter esser sicuro nemmen nel suo letto, potè, dopo mezzo secolo, trovare il più magnanimo contrapposto in un altro Manin (la storia ha di questi strani riscontri anche di nomi), il quale, benchè plebeo, seppe vendicare l'antica macchia inflitta al nome patrizio? E per che modo l'anima gracile della città dai morbidi amori, dopo una lunga e molle inerzia si destò con tanta possanza? E che cosa ha veramente prodotto la immensa esplosione del '48?
Vediamo.
* * *
La città dominatrice, che avea avuto tutte le grandezze, dovea provare tutte le miserie.
Quando, dopo essere stati cacciati dai francesi nel 1806, gli austriaci entrarono nel 1814 per la seconda volta a Venezia, il podestà Gradenigo – un discendente di quel Doge che avea ordinato e rafforzato il dominio dell'aristocrazia – andava a prosternarsi a Vienna dinnanzi all'Imperatore, mentre un arciduca austriaco sulla piazza di San Marco gettava manciate di denaro al popolo plaudente.
Venezia perdeva a brani il suo manto di regina. Le gondole parevano bare galleggianti, gli uomini attraversanti gli alti ponti ombre del passato – i monumenti rovinavano, e più di dugento palazzi venivano demoliti per non pagare le imposte e per vendere i materiali. Nei cittadini era fiacco lo spirito, nullo il pensiero.
Il governo straniero, senza moderazione e senza giustizia – i balzelli eccessivi – il commercio inaridito e sacrificato alle altre parti dell'Impero, specie a Trieste – le spie e gli sbirri, véritables forçats – secondo la energica frase di Anatole de la Forge – auxquels l'Autriche donnait Venise pour bague – la mancanza infine d'ogni libertà politica e civile non valevano a ridestare gli spiriti, immersi come in uno stupor doloroso. Perfino la religione legittimava la tirannide e faceva sacro il dispotismo.
Ah! se dagli abissi del passato, le anime delle antiche generazioni avessero potuto riveder quei luoghi consacrati dalle loro rimembranze! Se le anime dei dogi, dei senatori, dei guerrieri avessero potuto rivisitare la loro città, ravvolta come in un funebre sudario, e vedere invaso da una volgar turba d'impiegati tedeschi il palazzo dogale, dove gli acuti e gravi magistrati erano stati custodi vigilanti delle libertà più antiche del mondo e sulle antenne della Piazza la bandiera gialla e nera in luogo del temuto vessillo, che s'era inalzato sulle torri imperiali di Bisanzio e s'era agitato ai venti della vittoria sulle acque di Lepanto; se quelle inclite anime avessero potuto veder tutto ciò, tra i gemiti di un immenso dolore si sarebbe udito risuonar per l'aere la lamentazione dell'antico profeta: Quomodo sedet sola civitas plena populo: facta est quasi vidua domina gentium?
Senza palpito e senza respiro veramente sembrava la Gerusalemme dell'Adriatico.
* * *
Dopo la rivoluzione e dopo il fulmineo cruento passaggio di Napoleone, parve fatale e necessaria la reazione politica, che col trattato del 1815 e con la Santa Alleanza, stese un'ombra mortifera su tutta l'Europa.
Ma non poteva durar lungamente; e già dopo alcuni anni in Francia, in Ispagna, nel Portogallo i legittimisti erano vinti; la Grecia e il Belgio si rivendicavano a libertà, e contro la Santa Alleanza si stringeva la lega occidentale tra l'Inghilterra, la Francia, la Spagna e il Portogallo.
Anche in Italia il germe vitale non era spento. La coscienza patriottica si andava lentamente formando, e sorde indignazioni covavano in alcune anime generose, alle quali fu corona di grandezza il martirio.
Il 24 dicembre 1821 sulla piazza di San Marco, dal poggiuolo del palazzo dei Dogi, veniva letta una terribile sentenza ad alcuni imputati di Carboneria, che stavano sovra un palco d'infamia, esposti alla curiosità di una folla ammutolita.
Fra gli altri veniva commutata la pena di morte in venti anni di duro carcere nello Spielberg a Villa, Bacchiega, Fortini, Oroboni, Munari e Foresti – sante figure di martiri, che vediamo passare per mezzo alle pagine di quel libro, in cui il dolore ha accenti di semplicità sublime, le Prigioni del Pellico.
Dopo il processo dei Carbonari, s'addensò più cupa la maledetta tenebra della tirannide, e sembrò che Venezia di quella silente e paurosa servitù non sentisse vergogna.
I re che ha sul collo son quei che mertò,
si sarebbe potuto dir col poeta.
I veneziani rassegnati o gaudenti senza odio verso il dispotismo, senza amore per la libertà, traevano i giorni inutili e oziosi nei caffè, tra le chiacchiere, nei teatri. Venezia era divenuta la città della musica e della danza. Bellini e Verdi, la Ungher e la Grisi, la Essler e la Taglioni occupavano gli animi di quella gente immemore, assidua consigliatrice di tranquillo vivere.
Silvio Pellico, che a questo tempo si trovava a Venezia, scriveva:
«Qui mi annoio. I veneziani sono troppo chiacchierini; la loro vita di piazza e di caffè è molto scioperata; non pensano, non sentono. Io erro le intere giornate nelle gallerie di quadri, nelle chiese, nei palazzi crollanti, dappertutto mi colpisce lo spettacolo della passata forza e ricchezza veneziana e della presente miseria. Come mai non vedo in ciascun volto il dignitoso sentimento del dolore? Ad ogni sghignazzare pantalonesco io fremo.»
La sventura incodardisce le anime deboli. Con onorificenze e pensioni erano ricompensate le servili umiliazioni al monarca austriaco: e le famiglie patrizie decadute – servitù decorata! – strisciando inchini pitoccavano sussidî.
Movimento di pensieri e di studî, andava, è vero, timidamente manifestandosi, ma fuori della vita reale. Il Carrer, il Betteloni, il Capparozzo, il Cabianca erano gentili poeti. Il Romanin, il Cappelletti, il Cicogna ricercavano e studiavano i vecchi documenti – ritorno non del tutto infruttuoso alla civile sapienza repubblicana. Non erano spenti il brio grazioso e la vivacità acuta, che aveano dato gli ultimi guizzi nelle conversazioni di Giustina Renier Michiel morta nel '32 e di Isabella Teotochi Albrizzi morta nel '36. E a quando a quando scoppiava la poesia di Pietro Buratti caustica, personale, locale, in cui abbondava la ciarla maligna dei vecchi poeti giocosi, non mai il fremito cocente della satira politica.
La coscienza era vuota d'ogni alto volere, d'ogni intento patriottico, e anche la letteratura, sbiadita e muliebre letteratura da strenne, s'abbandonava a un tenerume, cui davasi il nome di sentimentalità.
La poesia o era lagrimosa ed elegiaca, nuova Arcadia al lume di luna con le castellane e i menestrelli, in luogo delle dee e dei numi dell'olimpo, o finiva nelle canzonette per chitarra, nelle strofette fluenti di quel dialetto molle e carezzevole, che la Signora di Staēl si meravigliava fosse parlato da coloro che resistettero alla lega di Cambray.
E nel sereno armonioso delle notti veneziane, dalla gondola solinga, s'alzava il canto del Lamberti:
La biondina in gondoleta
L'altra sera go menà,
Dal piacer la povareta,
La s'a in bota indormenzà.
La dormiva su sto brazzo,
Mi ogni tanto la svegiava,
Ma la barca che ninava,
La tornava a indormenzar.
Nell'umido alito profumato della muta laguna l'amore persuadeva le anime effemminate ai morbidi sonni.
A un tratto un grido di rivolta rompe il letargo dei giacenti.
Nel '44 tre ufficiali veneziani della marina austriaca, i fratelli Bandiera e Domenico Moro, disertavano, e il loro eroico disegno d'insurrezione era spento, nel vallon di Rovito, dal piombo borbonico, che troncava su quelle giovani labbra il grido: Viva l'Italia!
Dopo tre anni, il pontificato di Pio IX annunziava la giustizia e la pace. La religione benediceva alla patria, gravata sotto la pressura straniera, e Cristo ridiveniva la speranza degli oppressi.
Dovunque aspettazioni inquiete, palpiti indefiniti, indistinti presagi, un desiderio insomma di rivivere. Le questioni economiche e giuridiche, le discussioni scientifiche, le nuove vie ferrate, le riforme edilizie davano modo ai patriotti di avvicinarsi, d'intendersi, di concitare l'animo ad un solo, altissimo intento: rialzare le energie e ritemprare i caratteri, aspettando che gli eventi sorgessero propizi. Anche le lettere e le arti, ravvivate dalle fiamme del Mazzini, del Berchet, del Guerrazzi, incominciavano, ad acuire la spada, che doveva affrancare la patria.
Quando, il 13 settembre del '47 s'apriva a Venezia il Congresso dei dotti, il nome del novello Pontefice era salutato con un fremito di gratitudine e di speranza, con clamori d'entusiasmo.
Nell'ora novissima Daniele Manin e Nicolò Tommaseo, che ad incarnare il pensiero patrio tentavano tutte le vie e tutte le forme, con gli scritti e con la parola arditamente chiedevano agli oppressori il risarcimento del diritto troppe volte violato. I due generosi cittadini, rammentando all'Austria le non mai adempite promesse, erano affratellati da un solo ardentissimo affetto, uniti in uno stesso pensiero.
Eppure quanta diversità d'indole fra essi!
Daniele Manin, austero di coscienza come di vita, animo incapace d'odi, ma sensibilissimo agli affetti, aveva mente lucida e comprensiva. Conoscitore profondo degli uomini e delle cose, energico e prudente, riflessivo ed entusiasta, umano e giusto, le più disparate doti trovavano in lui un mirabile contemperamento. Il Tommaseo se imponeva come il Manin il rispetto, non si conciliava come l'amico suo la simpatia. C'era del crudo e dell'eccessivo in quella sua ispida modestia, in quella sua ritrosia diffidente e scontrosa. Egli stesso si dichiarava non d'altro ambizioso che di solitudine, cupido che di povertà, superbo che di voler nulla potere. Ma in entrambi uguali la probità, la lealtà, il disinteresse, il sacrifizio di sè stessi alla patria.
Crescevano insieme con le ire degli oppressi, le vendette del dispotismo. Il Manin e il Tommaseo furono tratti in carcere; ma la ingiusta prigionia, inaspriva non domava il popolo, nelle cui vene fluiva nuovo sangue.
I fati eran pieni, e la rampogna dei forti era finalmente udita dall'orecchio dei neghittosi. Gli uomini insensibili e inerti si mutavano a un tratto in una gente fervida, animosa, concorde. Uomini donne, vecchi e fanciulli s'infervoravano nell'odio alla mala signoria. Non c'era più casa in cui si ricevessero austriaci; molte signore vestivano a lutto, gli uomini portavano cappelli alla Ernani come segno di riconoscimento, e si astenevano dal fumare per non pagare allo straniero una tassa involontaria, mentre la umile musa popolare cantava scriveva su pei canti:
Chi fuma per la via
Xe un tedesco o xe una spia.
La rivoluzione era nell'aria e si sentiva nei nervi; si leggeva in tutti i volti l'odio allo straniero. Dalle vicine città giungevano notizie di risse sanguinose tra cittadini e soldati. Per quietare a suo modo le agitazioni, l'i. e r. governo annunziava ai sudditi che Sua Maestà s'era degnata (la parola è testuale) di mettere le province italiane sotto l'imperio della spada.
Ma gli avvenimenti doveano svolgersi nella loro solenne pienezza.
La Francia s'ordina a forma democratica; sulle vie di Berlino sorgono le barricate; a Vienna dirompe l'ira popolare e vince; e alcuni principi, o per amore o per paura, temperano gli ordini dello stato.
In particolar modo la sommossa di Vienna cresce baldanza alle dimostrazioni patriottiche e a determinare i propositi più risoluti.
Il popolo veneziano che vuol rivendicare patria, esistenza, libertà, come una larga onda furiosa corre alle carceri, ne rompe le sbarre, libera il Manin e il Tommaseo e li porta in trionfo.
Sulle antenne della Piazza s'inalza la bandiera dei tre colori, e come a promessa di vita novella tutti le si stringono intorno; i nobili quasi sentissero più solenne l'orgoglio della gloria vetusta, il ceto mezzano che alla patria dava affidamento di un felice presente e segnava le vie per l'avvenire, il popolo che obliava gli antichi e i recenti servaggi brandendo le armi nel nome della libertà.
E i raggi del sole, riflettendosi sulle ampie vetrate di San Marco, si spargevano intorno come un'aureola gloriosa; e il palazzo dogale pareva irradiarsi di quella luce, che dovea risplendere un istante sulla meravigliosa epifania italiana.
Donde venne, mi ridomando, a quel fiacco popolo veneziano l'audacia della ribellione?
Chi avrebbe potuto sospettare che nel silenzio della laguna si celasse tanta gagliardia?
Gli è, signori, che nelle rivoluzioni del popolo come nelle manifestazioni del genio, vi sono forme ed aspetti diversi. Come v'è la mente che svolge ciò che altri prepararono e v'è il genio che appare solitario e improvviso, così v'è la insurrezione apparecchiata con ordinamento preconcetto e voluto, e v'è la ribellione repentina e impulsiva, che nulla continua, che rifà tutto.
Sono queste, di solito, le rivoluzioni dei popoli miti, tanto più terribili quanto più lunga e pecorile fu la pazienza; come più tremenda scoppia a un dato momento la collera nelle indoli tranquille, riposate, serene, che nelle nature per abito risentite, violenti, subitanee.
Sono queste le rivoluzioni che, anche se vinte e domate, preparano e maturano l'avvenire e rigenerano i popoli neghittosi, togliendoli a una torpida pace. Così il navigante fra le bonacce insidiose dell'Oceano invoca qualche volta la bufera che potrà sospingerlo ad un porto.
La palude morta avea infuso nelle vene di Venezia la febbre violenta della libertà, e al popolo insorto i dominatori sgomenti non seppero rifiutare la istituzione della milizia cittadina.
Era la fiamma antica che riaccendeva il popolo di Lepanto e di Candia? O il soffio del disinganno non avrebbe tardato a sterilire le vive speranze? A chi manifestava il dubbio che il popolo veneziano fosse incapace d'ogni nuova grandezza, il Manin rispondeva:
– Voi no 'l conoscete: io lo conosco; è il mio solo merito: vedrete. —
Ne s'ingannò.
II Manin diede impulso e direzione al movimento disordinato dapprima, come in tutte le insurrezioni.
Contrastare alle rivolte di popolo è temerario e vano, ma ad un'anima gagliarda spetta di solito provvedere, affinchè procedano ordinate ed utili e non sieno macchiate da delitti e da vergogne.
Anche gl'inizi della veneta rivolta furono contaminati da un delitto, ma le passioni popolari trascorrenti agli eccessi, furono subito contenute e frenate da un uomo, che avea tutte le doti per reggere onestamente ed utilmente il potere.
Il mattino del 22 marzo giunge a casa del Manin la notizia che gli operai dell'Arsenale avevano ucciso un colonnello ai servigi dell'Austria, detestato per l'acerbità dei modi e per la eccessiva durezza.
L'energia del concepire era nel Manin vinta dalla speditezza dell'esecuzione. Nel politico lampeggiava l'eroe.
S'alza egli impetuoso, e rivolto a suo figlio Giorgio quasi fanciullo:
– Vieni con me all'Arsenale – gli dice.
– A farvi ammazzare – ribatte inquieta la moglie.
– Anche, se occorresse – risponde freddamente il Manin.
E senza indugio corre all'Arsenale, seguito dalle guardie civiche; intima al contrammiraglio austriaco di rimettergli le chiavi, e al rifiuto, traendosi l'orologio di tasca, dice con energica calma:
– Vi accordo sette minuti di tempo a consegnarmi quelle chiavi. —
Il contrammiraglio cede, e l'Arsenale, potente arnese di guerra, dove si custodivano armi e munizioni in gran copia, e dove l'Austria avea tutto disposto e ordinato per bombardare la città, cade in potere del Manin.
Mentre questo avvocato creatore di rivoluzioni usciva dall'Arsenale, e con la spada sguainata salutava il gran leone scolpito sulla porta, gridando Viva San Marco, i governatori austriaci cedevano i loro poteri al Municipio.
Proclamata la Repubblica, il Manin fu eletto presidente. Il sogno superbo diveniva realtà, e dalle acque tranquille della laguna saliva la speranza, la visione, l'amore, il pensiero di poeti e di martiri, la nobile, la bella, la grande Italia.
Le città venete erano poco dopo sgombrate dagli austriaci, che, protetti dal terribile quadrilatero, chiuso dalle fortezze di Verona, Mantova, Peschiera e Legnago, si ritirarono nella regione compresa tra l'Adige e il Mincio, ove rimessi dalle prime sorprese stettero aspettando l'esercito di Nugent, che adunavasi sull'Isonzo e si apprestava ad invadere il Veneto. Italiani d'ogni parte della sacra penisola correvano intanto alle lagune. Drappellando bandiere, vestiti teatralmente, con divise dai colori sfoggiati, con cappelli piumati ed elmi dalla lunga criniera, con molti uffiziali che il grado eransi conferito da sè, inebriati da sonore ed enfatiche parole e dai canti patriottici sciatti di forma, ma esuberanti di colorito, quei volontari, senza disciplina militare, novissimi al combattere, si mostravano pronti ad affrontare con slancio ardimentoso la morte.