Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte II», sayfa 4
VOLONTARI E REGOLARI
ALLA PRIMA GUERRA DELL'INDIPENDENZA ITALIANA
CONFERENZA
DI
FORTUNATO MARAZZI
I
ESORDIO
Per isvolgere il tema, che mi fu esibito da questa chiarissima Società di pubbliche letture, io ho dovuto consultare libri e riprendere studi quasi messi da parte nell'affrettato viver dell'oggi.
Ma voi – toscani – avete una speciale ragione di illustrare il periodo storico del 1846-49, perchè siete gli Ateniesi d'Italia, ed anche allora insegnaste come la gentilezza del vivere, l'arte, gli studi, mirabilmente si accoppiano alle armi, quando lo vuole la mente, quando l'esige la Patria.
Seguendo dappresso la vita de' nostri padri, nell'immortale periodo ora ricordato, si impara a comprenderli, ad amarli, anche nelle loro utopie, anche nei loro traviamenti.
Dicesi che un felice errore di calcolo abbia indotto Cristoforo Colombo ad affrontare il «Mar tenebroso», e così a scoprire l'America, e fu per certo una moltitudine di sante illusioni, fu l'ingenua ignoranza delle forze austriache, la fede, che intrecciava in un serto patria e religione, che indusse a considerar conciliabili tendenze forzatamente opposte, che spinse le genti italiane sui campi di Peschiera, di Pastrengo, di Santa Lucia, del Cadore, di Vicenza, di Governolo, di Curtatone, di Montanara, di Goito, di Custoza, di Milano, di Novara, e che insieme le fuse – maravigliando, scuotendo l'egoismo degli stranieri – nei memorabili assedi di Roma e di Venezia.
II
ARMI E POLITICA
Le istituzioni militari si adagiano sulle istituzioni politiche, ed allorchè queste subitamente cambiano natura ed obbiettivi, quelle non hanno l'elasticità necessaria per corrispondere alle nuove esigenze.
Questa ragione risponde da sè sola al perchè tutti gli eserciti regolari dei vari stati d'Italia esistenti nel '48, non corrisposero in modo perfetto alle nuovissime necessità della guerra, in un attimo apparsa inevitabile.
Come nebulosa subitamente radiante, la massa popolare capì che dovevasi fondare una Patria: in qual modo? per qual via? ciò era confuso. L'armi, ovunque reclamate, a che tendevano? Alla sola cacciata dello straniero? Alla sola difesa locale? A porre in freno i regnanti, e le loro milizie assoldate?
L'Italia sarebbe stata federale, od unitaria? Nel consesso europeo chi l'avrebbe rappresentata? Quali rapporti si sarebbero fra stato e stato, fra il Piemonte, la Lombardia, ed il Veneto; fra queste regioni e tutte le altre terre italiane? Nessuno soffermavasi a queste domande; appariva l'armarsi un bisogno istintivo, e la guerra, che era nel sangue, indicava la via per tutto risolvere.
Questa era la coscienza delle moltitudini ma la disparità fra statuto e statuto, fra repubblica e monarchia, il contrasto fra gli intenti segreti ed i palesi, dovevano fatalmente influire sulla condotta dei singoli eserciti in guerra, e rendere dubbiosa l'azione del comando.
Guai se un generale è travolto nel gorgo di opposte correnti, se lo tormentano tendenze, che si possono creder doveri inconciliabili, proprio quando uno solo dovrebbe essere il suo pensiero: vincere!
In tali contingenze, la storia di tutti i popoli registra sempre una disfatta.
Ove, nel '48 il più semplice concetto militare avesse potuto prevalere sulla politica, noi avremmo avuto un solo esercito italiano, reclutato per regioni di nascita, e distinto in tanti corpi quanti erano gli Stati d'allora. Tale esercito sarebbesi dato un capo effettivo unico, avrebbe seguito un piano concertato in tempo ed imposto a tutti i comandanti: la sua prima linea sarebbesi costituita con tutti i soldati regolari; i volontari, accorsi ai depositi de' reggimenti ed ivi ordinati, ammaestrati, armati, avrebbero poi composto la seconda, da inviarsi a suo tempo in rinforzo della primiera.
Si sarebbe così raccolto, verso i 10 di maggio un esercito razionale di 100,000 soldati, riuniti nella più conveniente delle località, ed in condizione di ricevere potenti rinforzi, contro il quale gli austriaci non avrebbero potuto opporre che 44,000 uomini nel quadrilatero, e 14 o 15,000 nel Friuli.
In queste condizioni come non vincere?
Ma poichè all'unità d'Italia volevasi giungere per vie diverse e per diversi fini politici, così noi vediamo gli eserciti di uno stesso paese agire semplicemente come alleati momentanei, e non scevri di mutui sospetti; vediamo, sotto uno scopo reso dalla sua stessa grandiosità quasi romantico, agitarsi la politica minuscola degli staterelli, de' potentati, in diffidenza fra di loro.
Mentre le milizie regolari sembrano la rappresentanza del passato, o per lo meno del principio conservatore, le milizie volontarie, abbandonate al proprio impulso, si credono l'unica emanazione armata del popolo e mirano all'avvenire, che per loro suona repubblica!
Ed a guisa di cuneo, fra questi due organismi, si sviluppa la Civica, controaltare al primo, freno al secondo.
Così tre forze, che dovrebbero essere concomitanti diventano divergenti, ed agli immani sacrifici d'energia e di sangue, non corrispondono i risultati guerreschi.
Tempo è però che le forze in parola sieno rapidamente passate in rassegna.
III
FORZE DEL PIEMONTE
L'esercito piemontese avrebbe dovuto avere in pace 53,000 soldati, con 6000 cavalli, ed in guerra 170,000 soldati con 12,000 cavalli; ma è noto come in ogni tempo la logismografia cartacea sia una cosa e la realtà dei fatti un'altra.
Il suo reclutamento era regionale, le ferme sotto le armi brevissime, e da queste due istituzioni era uscita una truppa ottima, e quale io mi augurerei di dover comandare in guerra.
Le uniformi, e starei per dire, il pensiero de' soldati piemontesi traluce mirabilmente da quelle quattro statue, che attorniano il monumento di Carlo Alberto in Torino.
Erano uomini a forti tratti, di ferrea disciplina, devoti al re, schiavi del dovere: un Napoleone li avrebbe condotti in colonne serrate alla conquista d'Europa. Emergevano per la precisione de' movimenti: già popolari erano i bersaglieri, famosa l'artiglieria, buona la cavalleria, ed audace, ma non sempre adatta alle ricognizioni ed al combattere nelle rotte campagne del Veronese.
La scienza concentravasi nelle armi dotte, la carriera degli ufficiali era costretta nelle rigide parallele dell'anzianità, lo che distoglieva i giovani dagli studî militari.
Era vanto ed orgoglio delle famiglie aristocratiche dedicare i figli all'esercito, che era l'idolo del paese.
I capi esigevano, imponevano, quell'assoluta obbedienza che si piega e non discute: quasi tutti avevano idee ultraconservatrici, e miravano con sospetto i tempi nuovi.
La guerra li trovò impreparati alle grandi concezioni, ad avvalersi di molte truppe e dei Corpi di volontari.
Faceva difetto il servizio logistico, l'arte cioè di far muovere tutto l'esercito, di mantenerlo in buon assetto, di nutrirlo, di condurlo in favorevoli condizioni fisiche e morali sul campo della lotta. I grossi appalti coi fornitori fecero pessima prova: alla vigilia del combattimento di Goito una divisione non mangiò, ai primi rovesci gli impiegati delle sussistenze disertarono.
I piani di guerra non potevano, per quanto abbiam detto, erompere dalla mente dei generali, e maturavano con lentezza, più per imposizione degli eventi, che per volontà del comando. – Ciò spiega perchè nel Quadrilatero si ebbero tante battaglie sanguinose e nessuna decisiva, essendo solo attributo de' grandi capitani riconoscere il nemico con numerose scaramuccie ed annientarlo in pochi urti risolutivi.
In complesso, nel magnifico esercito piemontese del 1848-49, si riscontrano quelle virtù guerresche che rendono i battaglioni caparbi nel volere, resistenti alla sventura, tetragoni sotto le raffiche della mitraglia: ma in esso non iscocca quella scintilla del genio avida di iniziativa, di responsabilità personale, che attraverso alle tempeste di sangue crea non solo gli eroi, ma altresì i vincitori.
Comunque, esso fu il più possente argomento dell'indipendenza italiana, e noi alla sua memoria ci inchiniamo riverenti; se ebbe difetti, questi più che essere intrinseci furono attribuibili ai tempi, all'indirizzo educativo, alla secolare politica piemontese, per cui fu credenza che in qualsiasi evento l'esercito avrebbe combattuto al fianco di un altro più numeroso e più forte, ed al quale sarebbe naturalmente spettata la condotta strategica della guerra.
IV
FORZE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE
Quanto faceva difetto nelle sfere del comando delle truppe piemontesi non sarebbe forse stato impossibile ritrovarlo nell'esercito napoletano, se, pari all'ingegno, alla spigliatezza naturale, fossero state in esso tutte le altre virtù militari.
La parte migliore dell'esercito napoletano (che per numero avrebbe dovuto essere il più ragguardevole della Penisola) era costituita dagli ufficiali uscenti dalla Scuola dell'Annunziatella. Ivi in un col sapere vi avevano assorbite le idee liberali, in contrasto colle idee egoistiche e ristrette del Principe.
La truppa usciva in gran parte da famiglie facenti un sol tutto coll'esercito, abituate ai favori, ai sussidi governativi: vivevano tali famiglie appartate dalla nazione, e solitamente in locali prossimi alle caserme.
I soldati erano adunque come accampati in mezzo ad una popolazione buona, ma facilmente infiammabile, erano ligi al padrone, ed insolenti coi liberali. Il Principe se ne serviva, ma tenevali in poca considerazione, e prediligeva i quattro reggimenti svizzeri, assoldati a guisa di pretoriani.
Malgrado tutto ciò, è fuor di dubbio che le forze stanziali del napoletano avrebbero potuto esercitare un'influenza decisiva sui campi del Lombardo-Veneto: nella marcia attraverso l'Italia si comportarono bene, ed i capi, valorosi ed intelligenti, le avrebbero ben presto agguerrite ove gli eventi si fossero svolti a seconda.
Le reclute del mezzogiorno assorbono con facilità l'ambiente che le circonda, son facili all'entusiasmo, e noi dobbiamo certamente concludere che più funesto dell'enciclica papale fu, per la causa italiana, il richiamo nel Regno di Napoli delle truppe del generale Pepe, sebbene una cosa sia stata conseguenza dell'altra.
La nobile condotta del Pepe e di moltissimi ufficiali suoi, la bella difesa di Venezia, rafforzano a tal riguardo i nostri convincimenti.
V
FORZE DELLO STATO ROMANO
Gli Stati della Chiesa avevano una forza militare di 17,000 uomini, di cui ¾ indigeni (così almeno si chiamavano) ed il resto svizzeri.
Era una truppa screditata più che non lo meritasse: buoni i reggimenti svizzeri, privilegiati di paga e di vestimenta, buoni alcuni ufficiali provenienti da eserciti forestieri.
Il contrasto fra preti e guerrieri faceva sì che dir soldato del papa suonasse ingiuria, e che alcune circostanze tipiche contribuissero a menomare il prestigio dell'esercito pontificio.
Qual concetto potevasi, ad esempio, avere di certe batterie di cannoni entranti in Bologna ricche più di trombettieri che di artiglieri, quasichè non le mura di Verona, ma quelle di Gerico, si fosser dovute espugnare?
Come aver fiducia in colonnelli che preferivano e vollero il fucile a pietra focaia, anzichè quello a percussione, con tante difficoltà fatto arrivare dalla Francia?
Le forze romane furono ripartite in due schiere divisioni. Il generale Durando avoca le truppe regolari, il Ferrari le volontarie: così perpetuavasi l'errore di non fondere insieme elementi dei quali l'uno avrebbe servito di correttivo all'altro.
Il Durando ed il Ferrari avevano buone qualità come soldati, ma questi, sottoposto a quello, mal ne soffriva la dipendenza; e la politica, che già impediva un razionale ordinamento disciplinare, non tardò a perturbare ogni concetto di tattica e di strategia.
VI
FORZE DELLA TOSCANA E DEGLI STATI MINORI
Usa a blando governo, la Toscana sino dal 1790 scioglieva il proprio esercito.
Parve in Firenze che il sapere, le lettere, l'opulenza, i commerci, bastassero alla sicurezza dello Stato, e che, avuta una gendarmeria, ogni altra forza armata fosse superflua.
Sì; fu l'Austria (oh degli eventi antiveder bugiardo!) che impose alla Casa di Lorena di tenere 6000 ausiliari, perchè non fosse turbato l'equilibrio italico.
L'Austria mirava con ciò a costituirsi una specie di avanguardia nella Penisola, avanguardia che la Toscana seppe ridurre a 4000 nomini, tratti da clementi spuri e dal discolato.
Avevansi armi a pietra focaia ed a percussione. Eppure, da così misera matrice, il soffio d'una potente idealità trasse parte di quei soldati, che dovevano nobilmente morire per la patria.
Ai primi sintomi della guerra, mentre il Granduca vi scorgeva una buona occasione per arrotondare i suoi domini a spese del Parmigiano e del Modenese, ed adunava a tale intento le sue truppe, nella gioventù toscana facevasi manifesta la necessità di ricorrere alle armi, per uno scopo ben più vasto e più degno.
Da ciò la costituzione di quei battaglioni volontari che immortalarono i campi di Curtatone e Montanara, malgrado tutte le moine fatte dal Governo per indurre i giovani a più miti consigli, e a non abbandonare gli studi e le comodità della vita cittadina.
Il primo duce delle schiere toscane fu il generale D'Arco Ferrari, opportunamente sostituito in seguito dal De Laugier. Sul principio del '48 l'esercito Estense, era in ragione dei tempi e dell'ampiezza del modenese, molto forte: componevasi di 2400 uomini, soldati di professione, privilegiati e sostegno principale del Duca.
Cambiato governo, sciolto l'esercito, il modenese inviò un battaglione di volontari sul Po, sotto il comando del maggior Ludovico Fontana, che si diportò assai bene a Governolo.
Da Parma e Piacenza partì un battaglione di circa 1000 uomini, comandato da Francesco Pettinati, che in unione all'esercito piemontese combattè con molta lode verso Verona.
VII
LA GUARDIA CIVICA
La guardia civica, portato dell'epoca, rispondeva all'eco lontana della rivoluzione francese: parea in essa rivivesse l'antico comune italiano uso a sorgere in armi, coronando di guerrieri gli spalti cittadini, al primo apparire dell'oste nemica.
Cosicchè gli statuti la reclamarono come il palladio delle libertà cittadine, come un contrapposto delle truppe stanziali che, devote al principe, poco affidavano in caso di meditati conflitti.
Ma il medio evo era passato, l'assetto abituale dei popoli non era più la guerra, nè l'odio perenne pel vicino. Le battaglie non erano più lotte fra città e città, ma fra nazione e nazione, ed una milizia legata al patrio focolare, usa alle lusinghe cittadine, non poteva essere truppa da grossa guerra.
Ne di ciò fu tardo ad avvedersi il popolo, che nelle satire lepide e pungenti, nelle umoristiche illustrazioni dell'epoca, lasciò traccia del suo pensiero e della sua limitata fiducia nella guardia civica: gli stessi poeti ne trassero argomento di facezie rimate.
Vi furono episodi onorevolissimi e pugne nelle quali la Civica lasciò bella fama, ma nel complesso mancò la proporzione tra l'enorme suo sviluppo ed 1 risultati che se ne ottennero, e sarebbe stato ottimo provvedimento concentrare le armi ed il denaro, per essa prodigato, nelle schiere realmente combattenti e di prima linea.
VIII
I VOLONTARI
Il volontariato personifica il movimento civico-guerresco del 48-49.
In esso si rispecchiano tutte le idee dell'epoca, tutta la poesia popolare: in esso si concentrano ed armonizzano le più disparate esigenze. Si giunge così ad una istituzione militare, che risponde perfettamente al novo ambiente politico, ma che è manchevole di quelle doti che formano il soldato delle battaglie formali e di pianura. Se si fossero fuse le schiere volontarie colle regolari, sarebbesi ottenuto quanto occorreva nel '48.
Il volontario di quel tempo ha una fiducia illimitata nella bontà della propria causa, nella potenza de' suoi mezzi, ne' suoi principi infallibili, ed ai quali non intende minimamente di rinunziare.
E poichè le masse uniformemente pensanti si fanno colle oneste transazioni e non col puntiglio; poichè la desiderata fusione non potevasi ottenere, invece di una sola schiera compatta si hanno le legioni, i corpi franchi, le guerriglie, le crociate, le compagnie, le colonne mobili, distinte per nomi, per tendenze politiche e religiose, per regioni, per studi, per armi. Si vuole persino che la foggia del vestire appalesi il movente di chi l'adotta: i repubblicani, i federali, hanno cappelli a larghe falde, e pellegrine a pieghe esuberanti; i più temperati imitano le uniformi delle truppe regolari, i neo-guelfi hanno per segno esteriore la croce.
Vedete, – a riprova del nostro asserto primitivo – divisioni e suddivisioni politiche che s'infiltrano e corrompono, anche nei più minuti particolari, l'unità semplice e precisa del concetto militare?
Caratteristica dei Corpi volontari, di questa improvvisazione di guerra, è la sproporzione fra la grandezza del fine e la povertà del mezzo.
Ritornavamo ai tempi di Pier l'Eremita e di Giovanna d'Arco! Non solo i giovani lasciavan la casa nativa, ma quanti uomini, avessero o no famiglia, e sentissero nel cuore la patria. Si accorreva al campo uscendo dal teatro, dopo un festino, in seguito ad un convegno galante, e senza previdenza alcuna; uno stocco, un ferro arrugginito sembrava arma più che bastevole per la guerra santa, voluta da Dio… E d'altronde dov'è lo straniero? Esso fugge… deve fuggire ovunque! Ogni scontro è naturalmente una vittoria italiana, tuoni il cannone di Mantova e noi risponderemo: «viva Pio IX!» Questo era il '48.
I sacerdoti si addestrano all'armi sugli spianati, gli studenti formano i battaglioni, i maestri si fan condottieri, le gentildonne arruolano armati.
Ovunque è fanatismo e delirio, rullo di tamburo e squillo di campane; ovunque è una massa proteiforme di colori, di forze, d'intenti, di voleri; ma se dal tutto erompe il carme della indipendenza, manca il preciso concetto dell'unità manca il genio pensoso, che impugni una bandiera, che, piuma al vento, trascini la moltitudine serrata, estasiata, volente, sui campi della morte e della vittoria… No, – erriamo – quel genio poteva essere Carlo Alberto: gli eventi non lo consentirono.
Per la maggior parte de' volontari battersi voleva dire appostarsi ad un albero e far fuoco contro i croati, necessariamente obbligati a porsi in salvo: essi accorrendo alla guerra si eran votati più all'immediato sacrificio della vita, che ai disagi di una lunga campagna: volevano esser soldati, ma disconoscevano la disciplina, le afe della pianura veneta, le inerzie forzate del campo li sfibravano e ne inasprivano il carattere. Ognuno di essi ha un piano proprio, infallibile, per debellare Verona, per salvare Treviso e Vicenza, per sorprendere Radetzky, e gridano contro il proprio generale che nulla sa, nulla comprende di così semplici concetti.
Le truppe volontarie riescono quindi truppe di slancio, non di resistenza; una mente superiore avrebbe a loro assegnato i più colti ed arditi ufficiali, i migliori sergenti e caporali, invece furono abbandonati a loro stessi miseramente od a capi molte volte strambi, inetti, millantatori, e fu ancora ventura emergessero, fra tante ragioni di sfacimento, splendide individualità, quali un Calvi ed un Manara.
IX
IL NEMICO
Verso i 15 di marzo '48, erano in Italia 70,000 soldati dell'impero divisi in due corpi d'armata, il primo col comando a Milano, il secondo a Padova.
Duce di questo esercito solido, ma disseminato nelle varie città del Lombardo-Veneto, oltre il Po e sulla frontiera del Ticino, era il Radetzky, maresciallo energico, buon comandante di truppe, feroce repressore di rivolte popolari. Aveva 81 anni.
Un terzo de' soldati imperiali erano italiani, e 20,000 di questi, cioè quasi tutti, si allontanarono a tempo opportuno dalle insegne imperiali in un con 200 ufficiali de' nostri.
Era questa una massa organica di veri soldati, che avrebbe potuto inquadrare le nuove reclute nazionali; necessitava perciò rapidità e mano di ferro, invece le continue incertezze, sia de' governi locali, sia della repubblica veneta, mutarono quella forza in elemento di disordine, che fu mestieri sopprimere, sciogliendo d'ogni obbligo militare gli Italiani, già soldati dell'Austria.
I generali austriaci non avevano una esatta idea della tempesta che sorda ruggiva. Il moto popolare era già iniziato in tutte le città italiane, ed essi credevano d'essere ai giorni in cui Silvio Pellico passeggiava per le vie di Milano, credevano cioè che non fossero se non pochi congiurati delle classi alte, che tramassero a' danni di Casa d'Austria. Le forche, e le mude dello Spielberg, avevano invece compiuta la loro silente propaganda nell'intelletto delle moltitudini.