Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte II», sayfa 5
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LE CINQUE GIORNATE DI MILANO
Nei primi mesi del '48 l'urto fra Milanesi ed Austriaci era latente.
La guerra al lotto, ai sigari, le zuffe che da ciò trassero pretesto, dettero vampa agli spiriti, e separarono sempre più i cittadini dall'elemento militare.
La rivoluzione di Vienna – 15 marzo – precipitò gli eventi, ed il 18 marzo fu il primo delle cinque gloriose giornate.
Il comando militare, pessimamente servito dalla polizia, immaginavasi che la ribellione fosse appena concepita quando era già in armi; teneva d'occhio certi presunti capi, e non si accorgeva che l'intesa fra ribelli e ribelli era originata, senza bisogno di intermediari, dalla comunanza degli intenti, e dall'odio verso lo straniero. La debolezza del Governatore, il suo disaccordo col Maresciallo, l'eroismo del popolo, fecero il resto.
L'insorgere di una grande città ha questo di speciale: per esser terribile non ha bisogno di una complicata direzione centrale, basta sia contemporaneo. Quando in un dato momento tutte le strade si sbarrano, tutte le case si chiudono e dalle finestre, dai terrazzi, dai tetti, precipita ogni oggetto che capita sotto le mani, una truppa o vi rimane inerte e come prigioniera, od è costretta a ritirarsi.
Milano prestatasi egregiamente alla ribellione nelle circostanze del '48, e colle armi da fuoco allora in uso. Fra un fucile da soldato ed un fucile da caccia la differenza, in quanto a micidialità, era in quel tempo infinitamente minore di quanto oggi non sia.
Le vie anguste e tortuose annullavano il vantaggio delle lunghe gittate, ed una grandine di sassi e di tegole aveva lo stesso effetto d'una salva di fucileria. Le artiglierie da campo erano pressochè impotenti contro i muri delle case: la mitraglia non aveva campo per istendersi a ventaglio.
I «bastioni» erti una diecina di metri sul piano della città si riunivano al Castello, vasta e potente costruzione militare.
Interposto, fra i bastioni e la parte centrale della città, correva il Naviglio, di guisa che per giungere dalla cinta al Duomo, al Broletto, a Monte Napoleone ecc., occorreva attraversare i ponti, oltre i quali le vie anguste e tortuose eran proprie ad energiche difese locali.
Radetzky, stabilito al Castello e padrone de' bastioni, era nella situazione d'un assediante alla sua volta assediato dalle insorte campagne. Per tenere in rispetto la città aveva 13,000 fanti, 1000 cavalieri, 30 cannoni, ed a mala pena Milano vi poteva opporre un migliaio di fucili, la maggior parte da caccia. Basta l'accennare a queste cifre, per capire come la lotta sarebbe stata impossibile senza le sopra accennate circostanze.
In pochi giorni il popolo eresse 1651 barricate; così il centro della città fu tosto separato dai bastioni, le caserme e gli edifizi pubblici circuiti dagl'insorti.
Radetzky suppone che nel Broletto si annidi il Comitato dirigente de' rivoltosi, e fa bersaglio ai cannoni il Broletto: opera vana, i congiurati non sono in un punto, sono ovunque, e la rivolta agisce di proprio impulso, senza direzione.
Le truppe come avanzare? Le barricate otturano tutte le vie, più se ne atterrano e più ne risorgono; tutto un popolo furente fa arma d'ogni oggetto, fa proiettili d'ogni materia. I rivoltosi cominciano ad avvedersi che gli austriaci sono paralizzati, la loro fiducia cresce a mille doppi, e dopo la bella resistenza ai Voltoni di Porta Nuova, dovuta principalmente al gentile e valoroso Manara, tutti confidano nella vittoria.
Parte degli austriaci era rimasta bloccata nelle caserme: il maresciallo la chiamò al Castello colle relative famiglie e cogli impiegati. Ciò ebbe l'aspetto di una ritirata, e rilevò le sorti della rivoluzione, le cui forze cominciavano ad avere forme organiche e capi effettivi, mentre un embrione di governo formavasi nel palazzo Borromeo.
Una delle ragioni del richiamo delle truppe austriache dal centro della città alla periferia si era il disegno di bombardarla, disegno sbollito poi per molte considerazioni, e specie per l'esiguità dei mezzi.
Ormai il popolo di Milano, al quale il Conte Martini di Crema aveva riportato le parole di Carlo Alberto, passa all'offensiva, attacca la caserma del Genio, apre le porte ai soccorsi della provincia.
Così il maresciallo, malgrado i tenui soccorsi pervenutigli, si decide alla ritirata oltre l'Adda. Tal ritirata, che somigliò ad una fuga, sarebbe forse stata consigliata egualmente da altri eventi esteriori, quali il sollevamento del Veneto ed i fatti di Vienna, ma essa fu resa improrogabile, fu imposta dall'invitto popolo di Milano.
Le perdite de' milanesi salirono a 1000 uomini tra morti e feriti; 600 soldati perdettero gli imperiali, che nel frettoloso abbandono del Castello dovettero rinunziare al trasporto d'armi, di munizioni, e a parte del tesoro di guerra.
XI
IL PRIMO ERRORE
Ed ora dobbiam registrare gli errori nostri. Una città poteva per lo passato, come Firenze ai tempi di Pier Capponi, come Palermo ai tempi dei Vespri, come Genova ai tempi del Balilla, e può forse ancora al presente, in particolarissimi casi, cacciare una truppa fuori delle proprie mura, ma non può improvvisare gli arti necessari per compiere coll'inseguimento la rotta del nemico.
A chi spettava questo cómpito? All'esercito piemontese! Perchè non lo eseguì? Perchè si erano create diffidenze funeste, perchè oltre il Ticino non si intuì la situazione, e non si poteva intuire: perchè la politica interna, le elezioni, il cambiamento del ministero assorbivano le menti.
Il 23 marzo Radetzky versava in critica situazione, fuggito da Milano procedeva taciturno verso il Veneto in mezzo a soldati, ad impiegati civili, a feriti stanchi ed esausti; nella sua ira impotente aveva incendiato Melegnano. – Bergamo, Como, Brescia, Cremona insorgono.
Il 22 marzo Venezia proclamavasi indipendente; Udine, Treviso, tutto il Veneto orientale comprese le fortezze di Osoppo e Palmanova ne seguono l'esempio.
Per poco che s'attenda, anche Verona, anche Mantova si scuote, e la rivoluzione avvolge nel suo turbinío il debole corpo austriaco. E Carlo Alberto, che ciò prevedeva sino dal 20 marzo, voleva «volare» in soccorso de' milanesi, proprio quando il nuovo ministro della guerra chiedeva dieci giorni di tempo per completare gli armamenti.
Era effettuabile il desiderio del Re? Sì! Già dal 3 febbraio stavano sotto le armi tutti i nati del 1825, 1826 e 1827 ed in parte quelli del 1823 e del 1824: 40,000 soldati erano così ai reggimenti e la forza di una Divisione di guerra trovavasi in gran parte sul Ticino.
Un ardito capitano avrebbe subito compreso che per assicurare e compiere la vittoria dei milanesi non bisognava rafforzare l'esercito, ma muoverlo immediatamente: pochi battaglioni piemontesi congiunti ai ribelli della Lombardia, ai soldati che avevano abbandonate le insegne austriache potevano raggiungere e distruggere l'esercito di Radetzky, il cui nucleo principale sino ai primi di aprile, condusse al di qua del Mincio vita randagia e perigliosa.
XII
SITUAZIONE DEGLI ESERCITI NELLA SECONDA QUINDICINA DI APRILE
Fallita la possibilità di schiacciare l'esercito austriaco scarso di combattenti ed in piena fuga, innanzi alle popolazioni italiane, noi troviamo al 20 aprile le forze belligeranti così situate:
Nel quadrilatero sta Radetzky con 44,000 soldati: lungo il Mincio ed il Po si stendono 68,000 italiani ai quali si possono immediatamente aggiungere circa 12,000 volontari, ed avere con ciò in linea 80,000 uomini.
Gli austriaci sono nella situazione morale di un esercito battuto, sono uniti all'Impero per la sola via dei monti, hanno viveri limitati, a loro d'intorno stanno popolazioni ostili: gli italiani, forti per numero e per buoni successi, vivono tuttora nel periodo dell'entusiasmo e della fiducia.
Le forze alleate sono così disposte: 53,000 piemontesi, con pochi volontari parmensi e napoletani e con 88 cannoni, fra Goito e Peschiera: 7000 regolari e volontari toscani, con pochi napoletani, tra Castellucchio, Curtatone e Montanara; 1100 modenesi a Governolo; 6500 pontifici regolari con 12 cannoni ad Ostiglia (generale Durando), 9000 a Bologna.
Dietro questa prima linea stanno 2 o 3000 volontari a Bergamo e a Brescia, in tutte le città italiane si costituisce la Civica.
In Piemonte si completa l'esercito di prima linea, i quarti ed i quinti battaglioni: verso Ancona 15,000 napoletani sono in marcia, ma su di loro si può fare assegnamento soltanto dopo il 20 maggio. Tutte le città del Veneto, dal bacino del Brenta a quello del Tagliamento, sono ingombre di crociati, di bande armate, di comitati di difesa, non aventi fra loro nesso veruno, ma che nel loro complesso non possono non preoccupare il Nugent, generale austriaco, che dall'Isonzo mira a congiungersi col Radetzky. Se quindi fosse bastata la forza del numero, la sorte doveva sorridere all'Italia; sventuratamente mancavano ai nostri ben altri fattori di vittoria.
Da ogni parte sorgeva chi voleva comandare: dai vecchi avanzi napoleonici agli imberbi universitari tutti avevano il recipe per vincere.
I primi successi, aventi del miracoloso, esaltavano le menti, nessuno credeva possibile una riscossa del nemico, ferito nei suoi stessi domini dalla rivoluzione, e quindi provvedevasi alla guerra, scontando tra feste patriottiche le future vittorie.
I servizi amministrativi erano manchevoli e difettosi, le armi scarse e di vario modello, pessima la impresa dei viveri, nulle le previdenze in fatto d'ospedali, di rifornimenti ecc., ecc.
Bisognava scegliere fra battere il Radetzky nel quadrilatero ed il Nugent, che dall'Isonzo muoveva verso l'Adige. Nel primo caso tutti gli eserciti confederati nostri dovevano concentrarsi fra Goito e Peschiera e poi puntare sopra Verona; nel secondo tutte le forze italiane radunate fra Governolo e Ferrara avrebbero «girato il quadrilatero» e fatto massa verso il Brenta.
In quest'ultima ipotesi Venezia e le marine confederate del Piemonte e di Napoli avrebbero rifornito l'esercito nazionale, le fortezze venivan così prese di rovescio, e Radetzky disgiunto dall'esercito di soccorso.
Come spiegare l'essere le forze italiane disseminate su tanta vastità di territorio e la loro azione slegata, se non collo spettro d'una politica obliqua che inquinava le operazioni militari? Re Carlo Alberto era duce di nome e non di fatto, a Milano ed a Venezia si temeva l'annessione al Piemonte e volevasi la Repubblica; ogni staterello comprendeva la cacciata dell'Austria, come ora si comprende la cacciata del Turco, e cioè all'intento di arrotondare i propri domini: ogni esercito faceva quindi casa a se, non voleva abbandonare il legame politico ed amministrativo colla propria regione, dalla quale riceveva ordini diretti. Per far massa bisognava amalgamare i volontari coi soldati di ferma, i capi rivoluzionari coi generali e questo assolutamente non volevasi da nessuna parte.
Sono, come vedete, sempre le stesse cause, sempre le stesse ragioni, che producono le stesse conseguenze che permettono a Radetzky di raggiungere il quadrilatero, di soggiornarvi, e di risortirne poi terribile castigatore delle colpe nostre.
XIII
AZIONE OFFENSIVA DEL PIEMONTE
Il Piemonte comprese ben presto che per attrarre a se le forze degli alleati gli occorreva il prestigio di rapide vittorie, ma tutta la sua azione militare, splendida nella parte esecutiva, è manchevole nel concetto. L'avanguardia composta della brigata Bes doveva avere una sola missione: riunire le forze sparse della Lombardia, raggiungere il nemico in rotta, completarne la disfatta, ed in ogni evento informare il grosso dell'esercito sulla situazione del nemico. Non si trattava che di «volare.» secondo il felice intuito del magnanimo Carlo Alberto, attraverso un paese amico: eppure al 1º aprile il Bes è ancora a Brescia!
La prima idea strategica attribuita al generale Bava è questa: Prendere Mantova e poi Verona, (4 aprile. Consiglio di guerra tenuto a Cremona), ma passato il Mincio vien deciso di sorprendere anzitutto Peschiera, ritenuta opportuna per far cadere Verona: se non che l'impresa di Peschiera andando per le lunghe si ritorna al concetto d'impossessarsi di Mantova, e, tal disegno sfumato, vien decisa una grande azione contro Verona.
È pur troppo vero che a questi rapidi cambiamenti di scena contribuiscono i clamori delle popolazioni, la politica estera, le pretese de' vari stati, ma che ne nasce da questo? battaglie senza scopi, sacrifizi senza ragione.
Gli scontri sotto Mantova (19 aprile), gloriosi per le truppe, non hanno alcun risultato.
Il brillante assedio di Peschiera restò un episodio isolato, senza importanza sulla condotta della guerra.
Pastrengo segnò una vittoria splendidissima, nella quale rifulse il valore personale del Re, ma non fu completata e nulla decise.
La giornata di Santa Lucia (6 maggio) mise in mostra tutto il valore soldatesco dell'esercito, i battaglioni furon visti marciare allineati sotto il fuoco nutrito de' nemici militi, colonnelli, generali vi versarono sangue a fiotti e perchè? Per uno scopo di ricognizione, con un piano mutato e rimutato, di cui nessuno ebbe la paternità esclusiva, e per riedere poi ai primitivi accampamenti, per rifocillarsi. Gli impresari avevan l'obbligo di portare i viveri soltanto sino al Mincio!
XIV
LA SCONFITTA DEL VENETO
Se non che, mentre il martello piemontese batteva qua e là l'incudine del quadrilatero, il Nugent attraversava il Veneto.
Questa regione, che mezzo secolo prima era stata il teatro delle gesta fulminee di Napoleone, parve ripiombata nel medio evo! Venezia aveva rialzato il vessillo di San Marco: ogni città, ogni comune pretese farsi centro della difesa italica, sembrò ritornata in onore la guerra di campanile. I crociati giuravano di morire sul recinto dell'avito comune, il popolo chiamava i vescovi a benedire le barricate.
Fra errori, colpe e deliri rifulge isolata e magnifica la difesa del Cadore, affidata dal Manin al capitano Calvi, e dove i montanari nostri, imperterriti, con ogni possa si opposero all'invasione. Al trinceamento di Chiapuzza colle forche, cogli spiedi, coi tridenti, quei prodi combattono; le donne seguono in battaglia i mariti, i figli, e vincono. Ad Ospitale la difesa è tenace, al Passo della morte si ruzzolan giù pei dirupi massi di pietre, che pongono in fuga i nemici, a Rucorvo, a Rivalgo (28 maggio) le resistenze son decisive e fortunate. Dalle miniere di Auronzo si traeva il piombo, dalle cantine il salnitro, da ogni ferro un'arma, da ogni essere un combattente.
Fa bene all'anima il ricordare questi fatti, che potrebbero nell'avvenire ripetersi, e che ci danno un'idea di quanto possiamo sperare dalle Alpi organizzate a difesa.
Ma il precipitar della valanga era nel '48 fatale. Le discordie e la gelosia fra i generali Durando e Ferrari dell'esercito pontificio, la nessuna unità di concetti fra questi, la legione francese del generale Antonino, la brigata del Guidotti, che disperato corse incontro a certa morte, le forze del generale Alberto La Marmora (il quale ultimo agiva in nome del governo Veneto) fecero sì che la difesa del Brenta, affidata a 18,000 uomini, (corpi franchi, guardie civiche e volontari) non fosse, malgrado alcuni fatti isolati e di positivo valore, che una serie di errori militari. Così l'esercito di soccorso austriaco sotto il nuovo comandante Thurn (stante una malattia sopravvenuta al Nugent) passato con facilità l'Isonzo, il Tagliamento, la Piave, e sollecitato dal Radetzky, seguiva la sua marcia verso Verona, ed il 22 maggio, a San Bonifazio, riunivasi alle forze del Maresciallo.
XV
LE SUCCESSIVE OFFESE AUSTRIACHE
Ottenuta la congiunzione delle proprie forze, il Radetzky eseguisce, a sua volta, quella manovra per linee interne che avrebbero dovuta eseguire ai suoi danni gl'italiani, se la loro condotta fosse stata guidata da una mente unica e militare.
Egli è ora nella possibilità di appoggiar sempre le spalle alle mura della turrita Verona, e con colpi vigorosi battere separatamente le tre masse che lo contornano, e cioè i piemontesi, tra Peschiera e Goito; i toscani sotto Mantova; i pontifici a Vicenza. È la lotta del cignale che sbuca dalla tana contro i veltri che l'hanno scovato.
Il generale Thurn ha la missione di battere i romani riguardati come la massa più debole: donde la prima battaglia di Vicenza (24 maggio) nella quale il generale Durando obbliga alla ritirata 20,000 austriaci.
Fu questa una vittoria insperata, che le solite diffidenze politiche resero sterile. Il Durando aveva il dovere di inseguire il nemico, e di penetrare nel quadrilatero, per congiungersi o coi toscani, o coi piemontesi, oppure, prendere il maresciallo Radetzky fra due fuochi. Cedette invece alle pressioni municipali, anzichè al volere di Carlo Alberto, e con ciò malamente provvide a se ed alla città che voleva difendere.
Ed ora vien la volta dei Toscani. Il 27 maggio Radetzky delude la vigilanza della cavalleria piemontese, e con 30,000 uomini, e 154 cannoni si dirige sopra Mantova, ove giunge il 28.
Seimila uomini, la maggior parte toscani, con uno squadrone di cavalleria e 8 pezzi, difendono la linea dell'Osone fra Curtatone e Montanara, località distanti fra di loro di circa mezz'ora di cammino.
Bastano queste cifre, e queste premesse, per comprendere che il disastro da parte nostra era inevitabile. La ritirata imponevasi, l'ordine per essa venne tardivo, quando venne non si volle eseguire, ed a noi non resta che rendere omaggio a quei forti campioni, che caddero sul campo di battaglia vinti dal numero, e dopo disperate difese. Di essi, i più non avevano dell'armi fatta una professione, eransi dati alla scienza ed all'arti geniali; moltissimi erano studenti, sorti appena alla vita, e son morti per lasciare a noi una patria libera e forte. Onoriamo l'altissimo valore! Se il loro sacrificio, nel momento in cui fu consumato, apparve una fallanza militare, immenso risultò il suo effetto morale: esso si ripercosse nel cuore della Toscana, e cementò più che mai il concetto unitario.
Sbranata la facile preda, una sosta inopportuna del Radetzky a Mantova permette ai piemontesi di riunire a Goito 19,000 uomini e 44 cannoni. 11 maresciallo austriaco muove all'assalto della linea piemontese, ed è respinto con gravissime perdite! Era il momento dalla parte italiana di completare colle riserve, ancora in buono stato, la vittoria, ma la sorte che ci perseguitava non lo permise; permise invece al Radetzky di attaccare per la seconda volta il Durando a Vicenza, di obbligarlo a capitolare, e di aprire al saccheggio le porte della città.
XVI
RITIRATA DE' PIEMONTESI
Così, frantumate e disperse le truppe degli stati minori, sparpagliati ai quattro venti i crociati, il maresciallo austriaco riesce a limitare la lotta fra lui e Carlo Alberto, fra l'Impero Austriaco, ricco d'ogni sorta di rifornimenti, ed il Piemonte stremato d'uomini e di pecunia.
Questo impari duello si risolve nell'infausta giornata di Custoza, ove 20,000 piemontesi sono sopraffatti da 54,000 austriaci, col sanguinoso combattimento di Volta, colla disordinata ritirata dei nostri verso l'Oglio, durante la quale soldati italiani nel paese più ricco ed ubertoso d'Europa sono privi di rifornimenti e di viveri. Oh, i meravigliosi contratti con le imprese!
Il Re, credendosi impegnato dall'onore, volle difendere Milano: fu questo un errore militare, ma le considerazioni per l'avvenire e la politica glielo imponevano. Militarmente era per certo indicato di prendere la via del Po e quindi una posizione di fianco rispetto al nemico invadente. Il Radetzky non era ancora così forte da avventurarsi nel Piemonte, lasciandosi alle spalle la rivoluzione, non ancora fiaccata. E poi la Francia avrebbe permesso che l'Austria diventasse sua confinante?
Ma che poteva aspettare il cavalleresco Re di Sardegna dagli Stati penisolani? Chi, dopo essere stato impassibile innanzi alle sue primitive vittorie, lo avrebbe sorretto nella sventura?
Per più di tre mesi tra l'Arno e le Alpi erano rimasti in armi ben 150,000 italiani e tra l'Isonzo ed il Mincio non più di 70,000 austriaci! Questo sia affermato innanzi alla storia, che terribile giustiziera tolse poi la corona a tutti quei principi che le sventure dell'impareggiabile Re di Sardegna, segretamente prepararono, e ne risero.
Non era la ragione del numero che nel '48 avversava l'Italia, ma una politica bieca, la quale impedendo agl'italiani di far massa contro Radetzky permetteva a Radetzky di allontanare i napoletani da Bologna, di battere i veneti tra l'Isonzo ed il Piave, i toscani a Curtatone, i romani a Vicenza, i piemontesi a Custoza, e di indurre Carlo Alberto all'armistizio di Salasco.
Soffermiamoci: a che seguire il Re magnanimo sul mesto cammino di Novara? La grande idea italiana emigrava con lui nel doloroso esiglio di Oporto, ma composto il suo primo Eroe nell'avello, risorgeva, armata ed invitta nel pensiero del figlio per attraversar vincitrice i campi di San Martino.